2 
Introduzione 
 
Simone era la trollesse. L’incantevole nomignolo, inventato da André, le 
aleggiava intorno dagli otto-nove anni. Questa definizione di un essere libero, 
magico, androgino doveva sempre più corrispondere a una realtà di fatto. […] 
Per gli altri appariva semplicemente non descrivibile nei termini consueti per 
una donna. Per lei, Simone, che non voleva fra sé e le cose i docili schermi 
dell’apparenza sociale, era quello l’unico modo di essere. Si proponeva al 
mondo con aggressiva e spontanea creatività di modi. Questa è ancor oggi cosa 
difficile, per non dire inammissibile in una donna. [...] Lei, invece, spiccava 
come una provocazione insostenibile. Non conosceva la misura, perché non 
concepiva il compromesso di nessun tipo. E agli occhi dei compagni appariva 
disumana.
1
 
 
A proposito di Simone Weil, mistica e filosofa francese vissuta nella prima metà 
del Novecento, si è detto molto, eppure non di certo abbastanza. Lo scrittore e filosofo 
francese Albert Camus, una delle menti più eccelse di tutto il Novecento e premio 
Nobel per la letteratura nel 1957, a seguito della scoperta postuma del pensiero di Weil 
ne rimase folgorato al punto di definire la pensatrice “il solo grande spirito del nostro 
tempo”,
2
 adoperandosi in prima persona per fare in modo che la sua opera venisse 
pubblicata e resa nota. Eppure, la genialità di Weil non ha ottenuto ancora la fortuna 
che, di diritto, meriterebbe. Per me, la scoperta di Simone Weil ha rappresentato il 
primo incontro con un pensiero filosofico femminile nell’ambito di un corso 
universitario monografico. Una sottorappresentazione che spesso rende difficoltoso 
conoscere e approfondire pensieri che, in realtà, non avrebbero nulla da invidiare al 
canone dal quale a torto vengono esclusi. Nel caso di Weil, tuttavia, tale esclusione 
adduce motivazioni ulteriori alle mere questioni di genere. Di essa si tenta una 
giustificazione prendendo le mosse dall’autenticità eccezionale del pensiero weiliano, 
dal momento che esso rifiuta di piegarsi a norme e correnti determinate. Simone Weil 
non si accontentò mai, infatti, di riposare su posizioni tradizionali, preferendo 
inseguire una sfrontata indipendenza di pensiero, la quale le permise di assumere le 
sembianze di un punto luminoso assolutamente unico nel panorama filosofico. Prima 
 
1
 G. Fiori, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Milano, Garzanti, 1981, p. 39. André Weil, 
matematico francese, era il fratello maggiore di Simone Weil. 
2
 Cfr. G. Fiori, Albert Camus, o della consapevolezza in “Dialegesthai. Rivista telematica di 
filosofia”, XV (2013), disponibile su: https://mondodomani.org/dialegesthai (consultato in data 5 
giugno 2023).
3 
ancora del suo pensiero, per quanto peculiare e suggestivo, è stato il personaggio di 
Simone Weil, con la sua straordinaria atipicità, a esercitare immediatamente su di me 
un fascino magnetico. Una personalità dall’originalità frastornante e ostinata che per 
la sua radicalità attrae e insieme respinge, incuriosendo e irritando, incapace di lasciare 
indifferenti coloro i quali ad essa si approcciano. Simone Weil avvertì sempre 
profondamente l’esigenza di vivere fino in fondo la propria unicità, anche nel modo di 
rapportarsi ai propri contemporanei. L’amica e filosofa Simone Pétrement ricorda la 
diffidenza di questi ultimi nei confronti di Weil, suscitata dalla sua stravaganza, che 
spaziava dal comportamento all’abbigliamento, e dunque dal suo deciso sottrarsi alle 
convenzioni sociali. Molti di loro, rimproverandole una durezza interpretata come 
mancanza di debolezze, bisogni e desideri propriamente umani, a una prima 
impressione rimanevano turbati dal suo intransigente rigore al punto da ritenere che 
“mancasse in lei qualcosa dell’umanità comune, come a dire lo spessore della natura”.
3
 
Pétrement riferisce inoltre come persino il filosofo Alain, il quale fu professore di 
Simone Weil durante gli anni trascorsi all’École Normale Supérieure e del cui pensiero 
ella subì largamente l’influenza, le attribuisse, probabilmente a sua insaputa, 
l’appellativo di “marziana”.
4
 Più tardi, con la pubblicazione dei suoi scritti, costoro 
dovettero tuttavia ricredersi, rintracciando in tali testi il dispiegarsi di una sensibilità 
intensa e acutissima, sorpresi di “scoprirla tanto umana”.
5
 A non essere accolto con 
stupore fu, invece, l’esplicitarsi del suo compassionevole altruismo, di un sincero e 
vivo interesse per il prossimo. Più che il semplice frutto di una generosità ingenua, tale 
interesse weiliano risulta essere supportato ed arricchito da motivazioni profonde, di 
carattere filosofico e spirituale.  
La sensibilità speciale di Weil e la sua attenzione particolare per gli altri traspaiono, 
in particolare, dal suo accurato dedicarsi allo studio della dimensione corporea, 
squisitamente umana, e al legame tra essa, la dimensione del reale e quella del divino. 
Il presente lavoro, pur non pretendendo di fornirne una disamina del tutto esauriente, 
si propone di indagare il concetto di corpo così come inteso da Simone Weil. Si 
cercherà di dimostrare la centralità del corpo nel pensiero di Weil delineando un 
 
3
 S. Pétrement, La vita di Simone Weil, a cura di M. C. Sala, tr. it. di E. Cierlini, Milano, Adelphi, 
1994, p. 36 
4
 Ibidem. 
5
 Ibidem.
4 
percorso che a partire da esso, assunto in quanto tramite fondamentale, conduca 
l’essere umano alla dimensione di Dio, del trascendente, che per la filosofa e mistica 
francese rappresenta l’unico vero bene, il fine ultimo di ogni cosa. Nello sviluppare 
tale analisi, ci si concentrerà in particolare sulla lettura dei Cahiers, l’opera di Simone 
Weil che più completamente di ogni altra presenta, ricostruisce e sviscera i temi chiave 
del suo pensiero con eccezionale intensità, e alla cui stesura ella lavorò 
instancabilmente durante gli ultimi anni della sua vita. È inoltre fondamentale, 
avvicinandosi ad un pensiero multiforme, inclassificabile, rigoroso eppure non 
sistematico come quello weiliano, tenere sempre a mente la presenza ineludibile della 
contraddizione, che Weil accetta in quanto elemento costituivo della realtà stessa, 
necessariamente intessuto nella sua trama. Tale convinzione riposa su giustificazioni 
di carattere metafisico, e rimanda alla contraddittorietà intrinseca che la pensatrice 
attribuisce alla creazione del mondo da parte di Dio, interpretandola non come una 
dimostrazione della sua onnipotenza, bensì come una paradossale rinuncia ad essa. 
Creando, Dio rinuncia infatti alla propria potenza permettendo a una parte di sé di 
essere al contempo altro da sé, facendo ad essa dono di autonomia e ponendosi nei 
confronti del mondo in una dinamica di contradditoria e simultanea presenza assenza. 
È da questo abbandono divino che, per Simone Weil, ha origine il male terreno, come 
derivato dell’abdicazione di Dio, della strutturale finitezza umana e del libero arbitrio 
che porta l’essere umano a scegliere la potenza piuttosto che l’amore e la rinuncia. 
L’importanza rivestita dal corpo nel pensiero di Weil si manifesta già a partire dal 
riconoscimento del suo carattere necessario: l’esistenza corporea, creaturale, è l’unica 
possibile per l’essere umano, da cui egli non può prescindere. L’essere umano non ha 
altro modo di fare esperienza del mondo. Simone Weil indica quale destinazione 
dell’esistenza umana la decreazione, ovvero un annullamento della prospettiva 
personale e dell’io a favore di un’impersonalità che muove da una rinuncia alla propria 
potenza, all’immaginazione illusoria e consolatoria, ai possessivi affetti terreni, 
specchio di quella divina operata al momento della creazione. È necessario sottolineare 
come la negazione dell’io personale non implichi un abbandono del corpo o della vita 
terrena. Al contrario, essa permette di continuare a vivere nel mondo facendone 
esperienza in maniera maggiormente consapevole attraverso uno sguardo puro, filtrato 
alla luce divina. La decreazione riguarda l’anima umana, e si compie non soltanto
5 
nonostante il corpo bensì attraverso di esso. La mediazione del corpo è necessaria per 
poter applicare il principio, fondamentale, della leva, secondo il quale a un movimento 
discendente corrisponde sempre un movimento ascendente, analogo e contrario. La 
leva è immagine perfetta di tale processo decreativo discendente, attraverso il quale 
l’essere umano, rinunciando, si rende quanto più simile alla materia inerme, in 
atteggiamento di attesa, obbedienza e ricettività nei confronti del divino. Un 
mutamento di sguardo sul mondo creato che è condizione necessaria per potersi 
elevare, entrando così in contatto con Dio per farne esperienza diretta, mistica. Per 
l’essere umano, ciò può avvenire soltanto attraverso la funzione svolta dal corpo in 
quanto bilancia e sede di incontro tra la dimensione del trascendente e quella creaturale 
del reale. Dio ha concesso all’essere umano una posizione di privilegio, all’interno del 
creato, grazie all’infusione di una scintilla soprannaturale, condizione di possibilità di 
una connessione diretta, all’interno dell’anima umana. Se l’essere umano, orientato 
verso il trascendente, sarà in grado di imporre il predominio di tale germe divino sulla 
parte inferiore, vegetativa della propria anima, legata agli affetti terreni, potrà elevarsi 
e compiere il processo decreativo. Ciò non avviene per Simone Weil in maniera 
immediata, bensì è possibile soltanto attraverso uno sforzo continuo, un apprendistato 
doloroso, al quale il corpo ancora una volta necessariamente partecipa. 
L’addestramento alla rinuncia, all’obbedienza, deve essere preliminarmente imposto 
al corpo umano, poiché è dal suo modo di agire nel mondo che dipende la riuscita di 
tale imposizione della parte superiore dell’anima su quella inferiore: è in questo senso 
che il corpo realizza la sua funzione applicando il principio della leva. 
La centralità e l’imprescindibilità del corpo umano si manifestano inoltre, nel 
pensiero di Simone Weil, nella formazione del concetto chiave di malheur, termine 
denso di significato solitamente reso in italiano come sventura. Esso rappresenta, nello 
schema metafisico weiliano, la manifestazione più evidente della distanza tra Dio e il 
mondo creato, della sua assenza come condizione di male. Si tratta di una condizione 
ben specifica, una forma di male particolarmente opprimente e sradicante, quasi un 
preludio di morte, che colloca lo sventurato nel punto più remoto, alla massima 
distanza metafisica da Dio. Il malheur viene definito e identificato attraverso tre 
condizioni fondamentali, la cui presenza risulta equamente imprescindibile: 
degradazione sociale, sradicamento dell’anima e dolore fisico. Simone Weil insiste