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INTRODUZIONE
Il fenomeno della costruzione di muri alla frontiera è estremamente attuale in tutto il
mondo e rappresenta, per la sua estrosità rispetto all’epoca della globalizzazione, una
finestra aperta sulle contraddizioni prodotte dal sistema statocentrico. A dispetto delle
ottimistiche previsioni sorte all’indomani del crollo del Muro di Berlino – evento elevato
a simbolo precursore di una società senza più muri né divisioni – il nuovo millennio si è
aperto all’insegna della fortificazione dei confini volta, nella maggior parte dei casi, al
controllo del flusso migratorio. Attualmente esistono 40mila chilometri di muri e barriere
nel mondo – molti dei quali progettati negli ultimi vent’anni – queste linee che solcano il
pianeta stridono con l’idea di un mondo globalizzato e con le evoluzioni nella
rappresentazione dello spazio politico, laddove la permeabilità dei confini è stata
celebrata dall’unificazione dei mercati economici e dall’accelerazione del progresso
tecnologico che ha favorito, tra le altre cose, un importante incremento nelle possibilità
di interazione tra individui geograficamente distanti. All’aumento esponenziale di
frontiere militarizzate segue un inasprimento nelle politiche di migrazione, fenomeni che
hanno generato uno spazio globale brutalmente ostile a tutte quelle persone in fuga da
guerre, povertà, discriminazioni, persecuzioni, crisi climatiche e, più in generale, scarse
prospettive di vita. Ma i confini oggi assumono un ruolo preminente anche per quel che
riguarda la descrizione del mondo e l’articolazione del potere statale, portandosi dietro
l’idea che quanto più siano invalicabili tanto più lo Stato che circoscrivono sia forte.
Attraverso lo studio delle prime forme di cittadinanza e delle evoluzioni dello spazio
politico, partendo dalle riflessioni aristoteliche e confrontando sistemi giuridici diversi
come quelli della polis e degli imperi, è possibile evidenziare come nell’antichità vi sia
una concezione diversa del confine territoriale, il quale non corrisponde ai limiti della
sovranità che, difatti, nella pre-modernità si esercita in spazi geograficamente discontinui.
Nel sviluppare il mio lavoro di tesi mi sono concentrata sulla ricostruzione delle tappe
concettuali che hanno portato alla formalizzazione dello Stato vestfaliano, analizzando in
particolare il progressivo mutamento delle nozioni di sovranità, territorio e popolo. A tal
proposito, il Leviatano di Hobbes rappresenta un contributo teorico di notevole
importanza per quanto riguarda la definizione dello Stato come ente imprescindibile per
la sicurezza dei singoli individui e per sfuggire al caos dello stato di natura, avvalorando
l’idea per cui sia necessario l’intervento razionale della politica per ordinare lo spazio e
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le relazioni tra uomini. Questa visione sfocia nella dottrina del contrattualismo per cui si
ammette l’esistenza di un patto con lo Stato, stipulato dagli uomini per salvarsi da sé
stessi; il contratto è sicuramente il mitologema più forte della modernità.
A partire dal XVII fino al XIX secolo inizia il processo di territorializzazione della
sovranità, il confine crea una relazione tra il territorio dello Stato – ciò che si trova al suo
interno e assume le qualità di sicurezza e ordine – e ciò che sta fuori, caratterizzato da
uno spazio pericoloso poiché sfugge al controllo del sovrano. Il mondo vestfaliano è
questa pluralità di Stati ciascuno rappresentante un universale-particolare da cui si
articolano le relazioni internazionali, il confine disciplina lo spazio informe dandogli
sovranità. Si parla di governare un “territorio”, non un popolo. È qui la chiave del
processo che prende avvio all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e prosegue con
le colonizzazioni africane: l’idea di espandersi appropriandosi della terra e imponendo il
proprio nomos. Attraverso le osservazioni di Hannah Arendt in merito l’azione
imperialista si nota come certe dinamiche di conquista abbiano rappresentato un terreno
fertile per la proliferazione delle teorie della razza e la caratterizzazione di un popolo
tramite fattori biologici. Il congresso di Vienna, svoltosi tra il 1814 e il 1815, assegnò i
territori europei ai vari sovrani e i nuovi regimi si trovarono a dover stabilire le procedure
per la “naturalizzazione” o concessione della cittadinanza, essa divenne in larga misura
un accessorio della residenza. Si scelse il criterio della nazione, gli Stati basarono le
comunità su coloro che erano nati in un dato territorio e che quindi condividevano la
stessa origine etnica: l’ethnos viene incorporato alla definizione di démos. Come riportato
negli studi della sociologa Saskia Sassen, moltissimi rimasero sprovvisti di cittadinanza
perché non potevano essere assimilati ai nuovi criteri dello Stato-nazione. All’alba del xx
secolo, con l’avvento della prima guerra mondiale, si consolidarono le caratteristiche
attuali della frontiera politica; essa cominciò sempre più esplicitamente a circoscrivere il
noi, il connazionale, in uno spazio che si vuole omogeneo, protetto, sicuro – quando non
etnicamente puro – ed a separare fisicamente dall’altro, il diverso, lo straniero, il
potenziale nemico, in quanto tale privo dei diritti politici. Il confine delimita e include il
noi e crea ed esclude l’altro.
Nel dibattito politico odierno parlare di confini statali equivale quasi a dare per scontata
la loro esistenza, investendoli di una sorta di naturalità che di fatto essi non possiedono.
L’ordine nazionale non è un ordine naturale. Storicamente i confini europei furono
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istituiti per convenienza, rappresentando uno strumento di controllo nelle mani di poche
grandi potenze che si spartirono terre lontane. Nonostante sia per sua natura arbitrario e
frutto di continui rimodellamenti, il confine incarna l’essenza fisica dello Stato-nazione e
materializza la sua sovranità, non serve solo per definire margini geografici o bordi
territoriali, ma oggi viene investito dalla complessità del mondo globalizzato. Dietro al
desiderio di muri si cela forse un istinto primordiale dell’uomo: la paura, qui intesa con
l’interpretazione che ne dà Derrida, ovvero come paura del peggio-a-venire e
conseguenza della tragedia umana consumatasi nell’attentato alle Twin Towers. Questo
evento irrompe nella tradizionale visione del mondo e segna il limite dello Stato, la più
alta giustificazione di questo ente – la promessa di protezione – crolla di fronte alla
consapevolezza che qualsiasi minaccia non può più essere contenuta poiché non proviene
più da uno Stato costituito. L’11 settembre ha indotto i paesi europei a sposare la dottrina
della sicurezza nazionale sul modello americano, dove la difesa per i confini diventa una
questione di ordine pubblico e di protezione dello Stato. Chiaramente, bisogna
domandarsi se questa risposta sia efficace e razionale, considerando il fatto che la nostra
è una società piena di pericoli immateriali – attacchi informatici, bombe intelligenti, armi
chimiche, virus – inserita in un’epoca storica costitutivamente caratterizzata
dall’iperconnessione e dall’interdipendenza sociale.
Da questo punto di vista è possibile individuare i paradossi che si celano dietro la
sovranità murata, primo fra tutti è la simultanea apertura e chiusura delle frontiere – da
un lato, la libera circolazione dei capitali e, dall’altro, la criminalizzazione della mobilità
delle persone – che conduce al paradosso democratico dove l’universalizzazione dei
diritti, quali libertà ed eguaglianza, si contrappone al più bieco disinteresse per le vittime
collaterali del benessere dei Paesi del “primo mondo”. Universalizzazione combinata con
l’esclusione. Il sistema garante dei diritti è lo stesso che attua una loro sospensione e
negazione nel luogo di confine. La tematica dei muri appare urgente soprattutto per
quanto riguarda la dimensione dei diritti umani: ad oggi, questi apparati del terrore hanno
nutrito un sistema capace di privare gli individui del diritto alla mobilità – quando non
all’esistenza – confermando le preoccupazioni espresse da Hannah Arendt. La filosofa, a
metà dello scorso secolo, aveva intercettato il pericolo connaturato al mondo diviso in
Stati-nazione per cui l’individuo apolide – privo di qualsivoglia documento che attesti
una cittadinanza – viene defraudato a priori di ogni «diritto ad avere diritti».
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Contrapposta alla visione di Arendt – che assume la prospettiva dell’individuo di fronte
lo Stato – è quella di Michael Walzer che si pone all’interno della comunità e giustifica
il controllo dei confini. Gli argomenti utilizzati per la tesi favorevole ai muri di confine
si articolano in tre postulati: il diritto all’autodeterminazione del popolo, la protezione
dell’identità nazionale e la questione della proprietà della terra. Nel mio lavoro spiego
come tali presupposti, nel contesto contemporaneo, creino parecchie contraddizioni da
cui scaturiscono ulteriori problematiche che sembrano inevitabilmente connesse
all’utilizzo di categorie di pensiero novecentesche – la cui efficacia sembra ormai essersi
esaurita – per la descrizione del mondo. Come affermato dalla filosofa Wendy Brown, ci
troviamo di fronte ad un presente che non cessa di essere creato e descritto dal passato,
rimanendo perciò irreparabilmente arenato nel passato. Espressione eminente di questa
stasi è il muro, la sua qualità anacronistica che ci riporta all’epoca dei cannoni e dei
fossati, epifenomeno del disagio provocato dalla progressiva erosione della sovranità
costantemente minacciata dalle nuove forze trasnazionali.
Trattandosi di problematiche legate alla descrizione del mondo, a mio avviso, possibili
risposte andrebbero ricercate a partire dalla de-strutturazione di concetti quali, per
esempio, l’identità nazionale o la proprietà della terra. Fintanto che si continuerà ad
intendere il popolo come un concetto statico e pervaso da un qualche Spirito
trascendentale non si potrà mai rinunciare ad attuare una selezione al confine. Quando
invece si identifica il popolo con il démos si richiama una tradizione storica, un popolo
che si è formato storicamente, per cui l’eredità biologica non ha più nessun valore dal
momento che i popoli si incontrano e si mescolano.
Inoltre, nonostante si continui a rivendicare per sé una sovranità territoriale abbiamo tante
notizie di cronaca quotidiana che dimostrano come al confine si sovrappongano diverse
sovranità che creano un cortocircuito per cui il regime internazionale dei diritti umani
appare contraddittorio rispetto al diritto del sovrano territoriale democratico. Al netto di
ogni virtuosismo retorico, il fatto che la democrazia necessiti di sovranità territoriale e
quindi di confini stabili non induce automaticamente legittimità all’azione di controllo
degli stessi.
I muri evidenziano la rottura tra le promesse di benessere della globalizzazione,
interpretata in chiave neoliberista, e le schiere di vinti risucchiati dal giogo del libero
mercato, gli esclusi, coloro i quali non possono accedere allo stupefacente e scintillante
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mondo occidentale esibito nelle pubblicità, nei film, nella letteratura, sui social media,
etc. Per concludere, non si può rimanere indifferenti di fronte alle profonde ingiustizie
scaturite dall’ordine stato-centrico, gli Stati-nazionali creano lo straniero e attuano
un’esclusione sistematica; le teorie e i linguaggi utilizzati per corroborare la richiesta di
muri hanno già prodotto xenofobia e razzismo, provocando una rapida ascesa dei partiti
ultranazionalisti di destra in tutto il mondo e reiterando la «disumanizzazione»
dell’individuo migrante.
È probabile che molti degli interrogativi sollevati in questo elaborato non trovino una
risposta nel prossimo futuro, ma è certo che un cambiamento radicale implicherà una
rimodulazione nel concetto dello stare-al-mondo per ricercare una forma di convivenza
priva di accezioni costrittive. Bisogna, prima di tutto, riconoscere l’endemico carattere
transitorio della nostra epoca.
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CAPITOLO 1
Il corpo filosofico e storico dello Stato-nazione sovrano
1.1 Le evoluzioni nell’organizzazione dello spazio politico e le prime forme di
cittadinanza
I primi generi di organizzazione sociale si dispiegano nella città: territorio circoscritto in
cui si stanziano gruppi, più o meno grandi, di uomini. L’antropologia ci dice che le prime
comunità di cacciatori-raccoglitori sviluppano le tecniche dell’agricoltura e perciò
diventano sedentarie, iniziano dunque a percepire l’esigenza di apporre recinti per
separare lo spazio interno da uno esterno. Le prime forme di città e villaggi non servono
solo ad accumulare ricchezza, ma anche a dispiegare atti sacrali e rituali. Come suggerisce
Galli, nella città vale «una spazialità naturalmente qualificata di straordinaria longevità
ed efficacia», esperienze comunitarie dove caratteristiche come la vicinanza alle fonti
d’acqua dolce e ai ripari rocciosi o la fertilità del terreno acquisiscono una rilevanza vitale,
la scelta dell’insediamento e la costruzione dell’apparato cittadino è strettamente
connessa all’ambiente e alla natura circostante. Sicuramente lo spazio politico
dell’antichità è prevalentemente uno spazio di città
1
.
La comunità perfetta formata da più villaggi è la città, la quale ha ormai raggiunto
il limite della piena autosufficienza, per così dire; essa è sì nata in funzione del
vivere, ma sussiste in funzione del vivere bene […] la città va annoverata tra le
cose che esistono per natura, che l’uomo è per natura un animale politico e che
colui che non vive nella città […] o è un miserabile o è superiore all’essere
umano
2
.
La genesi dell’Europa è la civiltà greca che a partire dall’età classica si auto-identifica
differenziandosi qualitativamente dal resto del mondo mediante la comunanza di costumi,
di religione e soprattutto di lingua; quest’ultima, in particolare, rappresentava l’insanabile
antitesi fra l’Elleno e lo «straniero»: i barbaros erano i balbettanti, coloro i quali non
parlavano il greco.
Di rilevante importanza nel mondo greco è sicuramente lo spazio politico prodotto dalla
polis: non tanto legato alla specifica delimitazione fisica quanto all’essere polites, ovvero
1
Galli, C. (2001). Spazi politici. L’età moderna e l’età globale. Bologna: il Mulino, p. 18.
2
Aristotele, Politica, I 2,5-9 1252 b.