3
1. Contro il sapere concettuale
“Il mondo ha fame e non si preoccupa minimamente della
cultura […]. La cosa piø urgente non mi sembra dunque
difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato
nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma
estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza
di vita sia pari a quella della fame”
1
.
Quello di Artaud è un appello disperato. Si accorge che
attorno a lui ormai c’è una “asfissiante atmosfera”
2
, una crisi
irreversibile; quella che viene chiamata cultura è qualcosa
che ormai è incapace di rivolgersi all’uomo, di occuparsi dei
suoi veri problemi. “Vedo alla base di questa confusione una
frattura tra le cose, e le parole, le idee, i segni che le
rappresentano”
3
. L’uomo è in balia della confusione, è
disorientato, è incapace di trovare dei riferimenti saldi, delle
idee che lo possano guidare nella vita. Ma noi “abbiamo
soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa
vivere e che qualcosa ci fa vivere”
4
. Noi non siamo piø
nemmeno in grado di vivere, la nostra non è una vera vita,
ormai riusciamo solo a “contemplare le nostre azioni e
perderci in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni,
anzichØ lasciarci condurre da esse”
5
. Siamo vittime ormai di
una alienazione totale, la nostra non è piø una vita vissuta,
non siamo piø in grado nemmeno di essere posseduti dalla
nostra vita, ma solo di guardarla dal di fuori, di tematizzarla,
di discuterla.
Abbiamo perso la capacità di vivere e di rivolgerci alla vita,
la nostra è “un’epoca in cui niente aderisce piø alla vita”
6
e
ciò perchØ le nostre idee ed il nostro linguaggio non sanno
piø dire la vita, non le appartengono piø, non la toccano.
1
A. ARTAUD, Il Teatro e il suo doppio. Con altri scritti teatrali e la tragedia “I Cenci”, Einaudi, Torino
1968, pag.109.
2
Ivi, pag. 157.
3
Ivi, pag. 109.
4
Ibid.
5
Ivi, pag. 110.
6
Ibid.
4
“Non sono certo i sistemi filosofici a scarseggiare”
7
. Non
sono certo i discorsi filosofici a mancare, non sono di certo le
parole che vengono risparmiate. Ma “o questi sistemi sono in
noi, e noi ne siamo permeati al punto da vivere di essi, e
allora che cosa importano i libri? – oppure non ne siamo
permeati, e allora non sono in grado di farci vivere; in ogni
caso, che importanza può avere la loro scomparsa?”
8
.
Anche se siamo inondati di parole, di sistemi, di concetti, se
questi non ci servono a vivere, se questa forma di cultura non
ci appartiene, se il suo principio è il disinteresse, il sapere
fine a se stesso, a chi può servire e perchØ continua ad
esistere?
Noi (ma noi chi?) siamo vittime di una separazione tra la
cultura e la vita, tra lo spirito e la forza. Questa separazione,
questo distacco dalla forza viva, hanno portato ad un
linguaggio che ormai risulta esangue, inerte: il linguaggio del
pensiero occidentale.
La crisi che circonda Artaud ed alla quale egli vorrebbe
reagire è infatti una crisi di civiltà. Quel noi sta a significare
noi uomini bianchi europei occidentali, coloro che hanno
inventato la filosofia e dai cui concetti dipendiamo
strettamente, dai cui concetti siamo interamente circondati e
rinchiusi, senza un vera via d'uscita. ¨ questo il destino del
pensiero occidentale, “estendere il suo regno, a mano a mano
che l'Occidente riduce il suo”
9
. Il perfezionamento continuo,
la proliferazione di discorsi differenti, apparati concettuali,
sistemi filosofici, è ciò a cui è destinato l'Occidente, nel suo
cammino di civilizzazione.
Il pensiero occidentale comincia a volersi imporre proprio
quando la spinta espansiva delle sue popolazioni va
declinando. La perdita di forza, di brutalità, di barbarie
dominatrice, portano al ripiegamento di un popolo su se
7
Ivi, pag. 109.
8
Ibid.
9
J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pag. 4.
5
stesso, di un pensiero su di sØ
10
. L'incapacità di dominare, di
rendersi padroni della storia e “la nostra impotenza a
possedere la vita”
11
sono la stessa cosa. Il distacco dal
“cuore” dell'esperienza, l'allontanamento dalla intensità della
vita, sono inevitabili in questo caso. E l'esito non può che
essere un linguaggio che, nel suo procedere, nel suo
progressivo compimento, diviene limpido ma inerte, chiaro
ma sterile.
Un discorso, quello occidentale, guidato, in tutte le sue forme
e le sue diverse declinazioni, da un principio mai messo in
discussione: la chiarificazione. C'è una onnipresente metafora
alla base del percorso del sapere occidentale, e cioè questa
foto-logica, questo discorso il cui movimento è mosso e
indirizzato alla forza della luce, alla sconfitta dell'oscurità. Il
sapere è tale se porta alla chiarezza, all'evidenza. Ma la vita è
dominata dall'oscurità, dalla magia, dal mistero. Vita vuol
dire forza, vuol dire ombra. Nel suo sviluppo espansivo e
nella sua esplorazione infinita di nuovi campi di sapere, di
nuovi ambiti di discorso, nel suo percorso di conoscenza, che
non consiste in altro che in questa ricerca dell'evidenza, della
chiarezza, della luce, l'abbandono della vita, della sua forza,
delle sue ombre, è l'esito inevitabile.
Questa cultura che nasce dalla vita e nel suo procedere man
mano se ne allontana sempre piø ha però bisogno,
nell'illusorio tentativo di tornare a toccare l'esperienza, di
moltiplicare i discorsi, di avanzare espandendosi, occupando
piø superficie possibile, allo scopo di riuscire ad ingabbiare la
verità, e cioè questa vita vera, sempre piø lontana ed ormai
irraggiungibile, eternamente fuggevole.
“Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura,
quando è la vita stessa che ci sfugge”
12
. La cultura non è mai
stata sentita così importante come nei momenti di
10
Cfr. in part. F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984.
11
Il teatro e il suo doppio, pag. 110.
12
Ivi, pag. 109.
6
smarrimento. Il fatto di sentirsi distanti dalla verità della vita,
il fatto di non ritrovarsi nelle cose che ci circondano, di non
riconoscerci nei corpi che maltrattiamo, di non riuscire a
leggere negli avvenimenti che si susseguono attorno a noi un
significato, una spiegazione, una direzione, portano a porre
sempre piø urgenti e pressanti domande alla cultura, si esige
sempre di piø dalla cultura, poichØ il dis-orientamento (la
distanza da questa vita, questa origine) è essenziale ed
irrisolvibile. La cultura, questa nostra cultura occidentale,
non fa che moltiplicare le risposte, i discorsi, le soluzioni. Ma
l'impossibilità per questa forma di cultura di comunicare con
la vita, questa cultura sempre piø ipostatizzata ed alienante, si
fa irreparabilmente piø radicale.
Il solco tracciato diventa un'incolmabile distanza, una
separazione così marcata, che porta da un lato ad una
idolatria della cultura, dall'altra alla morte della lingua.
Il fatto che questa forma di cultura sia così distaccata dalla
vita, non accolga piø l'energia pulsante, il calore della vita
porta inesorabilmente alla morte, all'assenza di vita.
Anche Artaud lo nota in fondo: “il bianco è diventato il
colore simbolico della piø estrema decomposizione”
13
.
L'Occidente e la sua propria cultura non parlano della morte,
non la nominano, non la considerano. Non si permettono di
sfidarla, di chiamarla, di affrontarla: e ciò perchØ non ne
hanno piø la forza. L'Occidente, l'Europa, questa visione
delle cose che ha fatto della spiegazione, dell'evidenza, il suo
fine, ne subisce le estreme conseguenze, in quanto questo suo
fine si va tramutando nella sua fine. La forza per esprimersi,
per significare, per lasciare traccia, deve far segno, prendere
forma. Il movimento della cultura consiste in questo conflitto
tra forza e forma, tra l'oscurità cieca, l'ombra, e il
dispiegamento chiarificante, l'espressione compiuta. FinchØ
questo conflitto, od almeno la sua traccia, restano intuibili,
13
Ivi, pag. 111.
7
finchØ dunque resta sotterraneo ma rintracciabile (spettrale,
direbbe Derrida) questo chiaroscuro, questo gioco di
sfumature e di scivolamenti da un estremo all'altro
(dall'oscurità all'evidenza e viceversa), la cultura resta viva,
muove e si muove alla ricerca del suo compito.
Ma quella che l'Occidente ha cercato è stata l'eliminazione di
questo conflitto, il rischiaramento totale, il dominio della luce
sulle ombre. Il concetto altro non è che una definizione
unilaterale, definitiva. In questa accezione “la parola può
soltanto trattenere il pensiero: lo delimita, ma lo esaurisce; è
insomma semplicemente un punto d’arrivo”
14
. Questo tipo di
sapere e la lingua che lo esprime mettono a tacere questo
mondo fatto di ombre, di movimento, di forza cieca ed
impossibile da prevedere, da controllare. Dispiegare dei
concetti, svilupparli nello spazio di una superficie totalmente
illuminata è la strategia che la filosofia occidentale ed il suo
discorso hanno utilizzato per eliminare le proprie ombre e le
forze che le guidano, per eliminare i rischi che comportano.
L'irruzione di queste forze è stata dominata e controllata
sempre piø nella realizzazione progressiva di questo pensiero.
Questo cammino verso la perfezione, verso il compimento,
sono propri tanto di un tipo di discorso, quello della filosofia
occidentale, quanto del popolo che l'ha creato e se ne rende
non solo dipendente, ma sottomesso: l'Occidente. “Un popolo
che si è realizzato, che ha speso i propri talenti e ha sfruttato
fino in fondo le risorse del proprio genio, sconta questa
riuscita col non dare piø nulla in seguito. Ha fatto il proprio
dovere, aspira a vegetare ma, per sua disgrazia, non ne avrà
lo spazio”
15
. Lo sforzo fatto dall'Occidente verso questa
illuminazione, questa chiarificazione è riuscito; la
separazione dalle proprie ombre, dalle forze che sottendono
alle forme, è ormai da tempo avvenuta. Ma questo sforzo è
stato immenso e l'Occidente ne paga il prezzo: la sua lingua è
14
Ivi, pag. 190.
15
E. M. CIORAN, Squartamento, Adelphi, Milano 1981, pag. 29.