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DISSESTO E MANUTENZIONE DEL TERRITORIO: EMERGENZA O PREVENZIONE?
2. Fattori generali e diffusi del dissesto idrogeologico
2.1. Premessa
La conoscenza del rischio idrogeologico è indispensabile per lo studio integrato delle
potenzialità e delle limitazioni d’uso del territorio. La gran parte dell’ Italia, e in particolare
dell’ Italia centro-meridionale, è costituita da territorio montano e collinare, che presenta una
morfologia accidentata, sia perché è geologicamente giovane e quindi soggetto ancora a
fenomeni di collisione tra masse rocciose che tendono a creare dislivelli, sia perché è
costituito da rocce facilmente erodibili, per cui le forme del rilievo sono poco stabili e in
rapida evoluzione.
Su questi terreni il fenomeno dell’ erosione si manifesta frequentemente e intensamente,
favorito dalle condizioni meteorologiche, in particolare da lunghi periodi siccitosi e caldi
alternati a periodi di intesa piovosità (clima mediterraneo), e dalla scarsa efficienza
antierosiva della copertura vegetale (Di Maggio, 2009).
Il rischio idrogeologico è un elemento importante per cui occorre tener conto allorché
vengono programmati interventi sul territorio.
Vari studiosi hanno cercato di realizzare un modello di valutazione qualitativa e quantitativa
di questo fenomeno, basandosi su uno o più fattori che ne sono all’ origine; tali fattori sono:
a) condizioni geolitologiche e connesse condizioni idrogeologiche;
b) caratteristiche pedologiche (tessitura del suolo, struttura, spessore, drenaggio interno o
permeabilità, contenuto di sostanza organica, ecc.);
c) condizioni morfologiche (pendenza, esposizione, quota, lunghezza del versante);
d) condizioni meteorologiche (“aggressività” del clima locale);
e) condizioni idrologiche;
f) copertura vegetale (specie vegetali, densità della copertura vegetale, tipo di
associazione vegetale, tipo di coltura, tecniche colturali);
g) interventi diretti dell’ uomo, fra cui anche le tecniche sistematorie (grandi opere
localizzate, oppure opere minori ma diffusamente sparse nel territorio).
I fattori e ed f vengono influenzati in parte dall’ uomo; l’uomo può modificare, fino ad un
certo punto il fattore c, agendo sulla pendenza, e il fattore b.
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Nella figura 2.1 viene sinteticamente illustrato il rischio idrogeologico occorso al territorio
italiano; tale documento cartografico, pur avendo un carattere indicativo, ci mostra le aree
nelle quali questo fenomeno è più diffuso e frequente in Italia. Si può osservare come le aree
più soggette ad alluvioni siano il versante tirrenico, rivolto a forti perturbazioni atmosferiche
autunno-invernali provenienti da occidente che si scaricano su rilievi costieri prossimi al
mare, i bacini dell’ Arno e del Tevere , il bacino dell’ Ombrone, il bacino del Po (e in
particolare il Piemonte e il Polesine), il Bacchiglione e i suoi affluenti, la pianura del Friuli,
l’Appennino Dauno (impostato su rocce prevalentemente impermeabili), la pianura di
Metaponto (con i corsi d’acqua che nell’ alto e nel medio bacino sono impostati in rocce
prevalentemente impermeabili) e le fiumare calabresi. Di contro risultano meno colpite da
alluvioni la Puglia (impostata su rocce carbonatiche, eccetto l’Appennino Dauno), le Marche
e la fascia adriatica dell’ Emilia Romagna a sud di Rimini. La media e la bassa valle dell’
Adige (con Verona e il suo territorio) risultano meno colpite da alluvioni da quando fu
costruito lo scolmatore dell’ Adige nel lago di Garda.
Figura 2.1. La mappa del rischio idrogeologico in Italia (fonte: www.wordpress.com/riskmanagement)
In sintesi, si può affermare che i principali fattori generatori dei dissesti, in particolare le
alluvioni e le frane, sono tre: il regime delle piogge, la componente geologica e morfologica
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(la pendenza), le opere umane. I più gravi disastri avvengono laddove questi tre fattori entrano
in sinergia (Gisotti, 2012).
2.2. I fattori naturali del dissesto
2.2.1. Il comportamento delle rocce in rapporto al clima
Il clima e le caratteristiche geologiche del territorio italiano, e segnatamente dei rilievi, si
presentano particolarmente favorevoli a produrre fenomeni di dissesto. Per quanto riguarda il
clima, non solo le pianure ma anche le aree di collina e della bassa e media montagna sono
soggette al clima mediterraneo che, se è mite, presenta alcuni elementi sfavorevoli per la
stabilità meccanica di determinati terreni. Esso è contraddistinto, infatti, da inverni nei quali si
concentra gran parte delle piogge e da estati lunghe e siccitose. Accade pertanto che i terreni
acclivi siano sottoposti spesso ad abbandono, violente ed improvvise piogge, e quando tali
terreni non sono sufficientemente coperti da vegetazione, sono soggetti da parte delle acque
ruscellanti a erosione diffusa, che asporta principalmente la “terra fine”, cioè le particelle di
suolo con dimensioni inferiori ai 2 mm (sabbia, limo e argilla).
La catena alpina e appenninica sono ancora in rapida fase di sollevamento e l’erosione su di
esse si esplica in forma intensiva, favorita dalla natura geologica delle formazioni affioranti e
dal clima. Dal punto di vista della costituzione geologica, e ai fini che qui interessano, i
terreni delle Alpi e dell’ Appennino, a cui possiamo aggiungere i terreni delle aree montane e
collinari minori, si possono dividere in quattro grandi gruppi (Ippolito, 1971):
a) rocce a base prevalentemente argillosa, praticamente impermeabili, tenere,
tendenzialmente plastiche;
b) arenarie silicee;
c) rocce cristalline;
d) rocce calcaree o calcareo - dolomitiche, in genere permeabili (per fessurazione) e
rigide.
Le rocce a base prevalentemente argillosa sono costituite in gran parte dalle argille azzurre
plio-pleistoceniche e dalle argille varicolori scagliose. In clima mediterraneo accade che,
mentre l’argilla sotto le piogge prolungate rigonfia, perde consistenza, cola lungo i pendii,
durante le aridi estate con l’evaporazione si riduce di volume e secca, crepacciandosi. Nell’
autunno-inverno successivo riprendono le piogge e l’acqua si infiltra nel terreno man mano a
maggiori profondità proprio attraverso le crepacciature createsi durante l’estate. Le argille,
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così appesantite e scompaginate, sono soggette a intense e particolari colate. Pertanto è da
rilevare che il clima mediterraneo è particolarmente favorevole a fenomeni erosivi (fra cui le
frane) e che le rocce argillose sono quelle più predisposte a tali fenomeni. Se si pensa che
l’Italia, a parte i rilievi montuosi più elevati, ha un clima tipicamente mediterraneo e che i
terreni argillosi ricoprono circa il 13% della superficie territoriale, e sono ubicati in gran parte
in collina, si vede bene come il Paese sia alquanto svantaggiato come caratteristiche
ambientali.
Va detto comunque che i processi di erosione si verificano principalmente dove la copertura
vegetale è assente o scarsa, non è permanente, e dove l’uomo non svolge un assidua attività di
manutenzione del territorio, dove per manutenzione si intendono gli interventi dedicati non
solo alla parte naturale del territorio man anche alle opere di difesa del suolo.
Inoltre i terreni argillosi sono praticamente impermeabili e pertanto le acque di pioggia,
defluendo quasi completamente in superficie, provocano piene impetuose e improvvise, non
modulate dall’ assorbimento di acque nel terreno con successiva graduale eliminazione
attraverso il meccanismo della circolazione sotterranea; tali piene si trasformano spesso in
alluvioni. Un discorso particolare meritano le argille scagliose. Per le sue caratteristiche
meccaniche molto scadenti (in particolare per la loro resistenza al taglio), a causa della sua
matrice argillosa e delle intercalazioni litodi molto disarticolate, e per aver subito intense
sollecitazioni tettoniche, questa formazione molto caoticizzata dà luogo a fenomeni di
dissesto estesi e profondi, e può considerarsi come la peggiore, a più alto pericolo
idrogeologico (Gisotti, 2011).
Le arenarie silicee sono dotate di medie caratteristiche geotecniche e di media erodibilità dove
sono prevalenti le intercanalazioni arenacee, e in tal caso possono dar luogo a frane di crollo,
di ribaltamento e di scivolamento; dove è prevalente la componente argillosa o marmosa, le
caratteristiche meccaniche diventano scadenti, l’erodibilità è medio-alta e sono frequenti le
frane di scivolamento e di colamento. Le caratteristiche meccaniche peggiorano anche dove,
pur essendo prevalenti gli strati arenacei, questi sono fortemente fratturati e tettonizzati. Le
alternanze ritmiche arenaceo-argillose sono dotate di permeabilità generalmente bassa, e in
questo caso nei riguardi delle piene si comportano praticamente come rocce argillose.
Le rocce cristalline, eruttive e metamorfiche, sono generalmente dotate di caratteristiche
meccaniche buone o ottime, con erodibilità bassa e scarsa predisposizione al dissesto; infatti
in Sardegna, costituita in gran parte da queste rocce, le frane sono scarse. I dissesti sono
limitati a modeste frane di crollo, dove la roccia è intensamente fratturata.
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La situazione peggiora alquanto per le rocce metamorfiche scistose, quali micascisti e filladi,
dove si possono verificare frane di scivolamento lungo i più marcati piani di scistosità, oppure
frane di colamento nella copertura eluviale, specialmente dove questa è a matrice argillosa.
Sebbene classificati come granitici o gneissici, cioè con formazioni tendenzialmente stabili e
salde, questi terreni si presentano invece, in Calabria, interessati da estesi e profondi fenomeni
di alterazione, che ne hanno fortemente peggiorato le caratteristiche tecniche originarie.
Le rocce calcaree, calcareo-dolomitiche e dolomitiche (rocce carbonatiche), sono rocce
lapidee fratturate e talvolta profondamente frantumate, la cui natura litologica reagisce in
modo diverso, rispetto alle altre rocce, all’ azione degli agenti atmosferici. I calcari e le
dolomie, infatti, per la gran parte, sotto l’azione delle acque meteoriche e superficiali sono
soggetti a dissoluzione chimica e quindi non danno luogo, come altre rocce, a grandi quantità
di prodotti di trasformazione fisico-chimica, quali i minerali argillosi e le sabbie.
I dissesti che interessano questi rilievi non sono molto frequenti: si tratta al più di rotolii di
detriti lapidei o frane di crollo e di ribaltamento, mai quelle disgregazioni di massa e quello
sfacelo diffuso che caratterizzano talvolta i rilievi argillosi o la montagna calabrese (Ippolito,
1971).
2.2.2. Il ruolo degli eventi meteoclimatici nell’ origine dei dissesti
Le piogge rappresentano la principale causa di alcuni importanti pericoli geologici di origine
esogena: il pericolo di erosione, il pericolo di inondazione, il pericolo di frana. Lo studio delle
piogge ai fini della valutazione dei pericoli sopra descritti non è basato sull’ analisi di quanto
piove mediamente nell’ anno in una data regione (elaborazione utile per il bilancio idrologico
di un territorio e quindi per la stima delle sue risorse idriche), bensì si incentra sulla
conoscenza di come piove nella località oggetto di studio.
Particolare attenzione viene posta nella determinazione delle curve segnalatrici di probabilità
pluviometrica tramite regolarizzazioni di tipo statistico delle serie di osservazioni, per
calcolare la frequenza probabile da attribuire a ciascun evento. Tale studio, insieme alla
quantificazione di altri parametri specifici, permette la valutazione del pericolo di erosione da
pioggia, fenomeno collegato sia ai processi naturali che antropici, soprattutto ad attività che
asportino la copertura vegetale che portino alla degradazione del suolo, quali agricoltura,
costruzione di opere ingegneristiche, disboscamenti, attività estrattiva. Peraltro va fatto
rilevare che l’erosione è il processo che, attraverso il trasporto solido dei fiumi, alimenta il
ripascimento delle spiagge.
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L’acqua che, a seguito di piogge intense, defluisce in superficie può dar luogo a un pericolo
spesso più grave dell’ erosione accelerata: il pericolo di inondazione. Tale fenomeno può
essere mitigato attraverso la conoscenza, nei diversi bacini, della risposta dei corsi d’acqua
agli eventi meteorologici. Queste informazioni, provenienti dal mondo scientifico, forniscono
infatti alla pubblica amministrazione gli strumenti necessari a un adeguata pianificazione
territoriale.
Infine l’acqua che si infiltra in zone acclivi riveste un ruolo quasi sempre determinante nell’
innesco di movimenti franosi: basti pensare alle modificazioni della resistenza al taglio o all’
appesantimento del terreno per imbibizione, che portano alla rottura dello stato di equilibrio.
Né è da dimenticare il ruolo delle falde acquifere alimentate dalle precipitazioni:
l’innalzamento della falda può portare all’ imbibizione dei terreni con conseguente riduzione
della loro resistenza al taglio.
Dalle numerose ricerche svolte in questi ultimi anni risulta che, nell’ area mediterranea, la
precipitazione media annua tende ad essere sostanzialmente costante, il numero di giorni
piovosi tende a diminuire, ma gli eventi piovosi diventano più intesi e concentrati in intervalli
temporali più brevi (FAO, 2011; Masciocco, 2012).
2.3. I fattori antropici dei dissesti
I dissesti idrogeologici sono determinati solitamente da cause naturali, ma spesso, e la
casistica italiana ne è ricca, vengono accelerati, se non provocati, da trascuratezza o da
interventi errati dell’uomo sul territorio.
Gli esempi sono numerosi e noti; se ne enumerano solo alcuni:
a) costruzione di insediamenti e infrastrutture senza tener conto delle reali condizioni
idrologiche, idrauliche, geomorfologiche, geotecniche, ambientali, con conseguenti
dissesti: rientra in questa sfera la realizzazione di opere marittime che mutando il
regime dei litorali producono effetti nocivi agli stessi e alle opere ivi insistenti, e cioè
erosioni oppure accrescimenti indesiderati;
b) “irrigidimento” del sistema idrografico che è uno dei maggiori responsabili delle
inondazioni;
c) ricorso massiccio alla meccanizzazione agricola in terreni che in pendenza eccessiva e
caratteristiche pedologiche sfavorevoli non si prestano a tali lavorazioni che,
forzatamente, sono profonde ed effettuate secondo la linea di massima pendenza, e i
cui effetti sono l’erosione accelerata e in particolare le frane;
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d) abbandono di terreni agricoli collinari e montani per l’esodo rurale, per cui una volta
venuta a mancare l’assidua e capillare opera di presidio e manutenzione dell’
agricoltore, i processi distruttivi naturali riprendono il sopravvento su un ambiente che
non è più quello naturale bensì è stato reso artificiale e quindi meno complesso: infatti
quanto più complessi sono gli ecosistemi tanto più risulta stabile la struttura degli
stessi (Malcevschi, 1991)
e) disboscamento o eliminazione delle associazioni vegetali spontanee e in generale
distruzione della copertura vegetale efficace per la protezione del suolo, in terreni
predisposti a una erosione accelerata per clima sfavorevole, per pendenza eccessiva e
per scadenti caratteristiche geotecniche con conseguenti dissesti idrogeologici.
Fra i più importanti si trovano gli effetti agronomici indotti dall’abbandono delle opere di
stabilizzazione dei pendii, dalle tecniche agricole improprie e dalle modifiche della copertura
vegetale.
2.3.1. Effetti indotti dall’ abbandono delle opere di stabilizzazione dei pendii, dalle
tecniche agricole improprie e dalle modifiche della copertura vegetale
2.3.1.1. Abbandono delle opere di stabilizzazione dei pendii
Nel nostro Paese il rapporto uomo-territorio è stato sempre caratterizzato da un ampia
utilizzazione del suolo, sino alla colonizzazione delle terre marginali (terreni sfavoriti dal
punto di vista fisico). Specialmente a partire dai primi anni del 1900, ma la tendenza è
continuata anche nel periodo tra le due guerre mondiali, si verificò la cosiddetta “fame di terre
da coltivare”, a causa dell’ incremento demografico e del crescente fabbisogno di derrate
alimentari in seguito a un miglioramento del tenore di vita. Terreni fino allora scartati furono
dissodati e messi a coltura. Un elevata percentuale di questi terreni era stata salda sino ad
allora essendosi costituito un delicato equilibrio fra clima, vegetazione e suolo. Tale equilibrio
venne sostituito da uno nuovo assai artificioso, ottenuto a costo di incredibili sforzi, e
mantenuto in modo precario solo grazie alla presenza continua e attenta dell’ agricoltore o del
montanaro.
Ma nel secondo dopoguerra, a partire specialmente dagli anni Cinquanta, questo equilibrio ha
subito un profondo sconvolgimento. Infatti, a causa della bassissima redditività delle aree
marginali, in presenza di un agricoltura caratterizzata da una conduzione arretrata delle terre,