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Introduzione
L’intento di Hannah Arendt è, come ricorda Simona Forti nell’introduzione a Le
origini del totalitarismo (Le figure del male)
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, cercare di trasformare
‹‹l’insensatezza del male in un discorso››. L’obiettivo di questa tesi è di
ripercorrere le tappe della concezione arendtiana sul male, rivolgendo l’attenzione
anzitutto allo studio antropologico e in seguito all’elaborazione del tema sul male.
Proprio l’uomo è il punto di partenza perché soggetto che compie e subisce il
male, che nel periodo del totalitarismo, diventa individuo di massa privo di
capacità di pensiero. La ricerca sull’essenza della natura umana trova il suo
fondamento sull’azione e non sul pensiero, come le precedenti filosofie. In
particolar modo l’azione politica è il momento di piena realizzazione umana,
superiore al lavoro manuale e all’arte perché è con essa che l’uomo entra nella
pluralità degli individui e nella vita sociale. Proprio in tale socialità l’individuo è
davvero se stesso, nella conciliazione tra theoria e praxis, in un’agorà, dove ogni
azione è pensata e giudicata a proposito della vita con gli altri. Se questa è
l’umanità descritta da Arendt, essa non può che trovarsi in opposizione con quella
del totalitarismo del Novecento, nel quale si ha la massima realizzazione del male
radicale. Il fenomeno del totalitarismo è ciò che ha attraversato l’Europa,
sconvolgendola. Arendt racchiude sotto questa definizione sia nazismo sia
stalinismo, due situazioni differenti che però si spingono fino a toccarsi. L’analisi
fatta dall’autrice cerca le vere e proprie origini dei regimi totalitari, guardando
all’antisemitismo e all’imperialismo, indagando nel profondo le premesse più e
meno esplicite. Lo studio convoglia nell’attento sguardo ai dati strutturali di questi
regimi, concependo l'ideologia come male che tende a ricreare la realtà, non solo
ad adattarla a suo piacimento. Ciò che sostiene l’intero palinsesto è il terrore, che
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S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, p. 11.
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aleggia pronto a colpire qualsiasi possibile nemico e individuo. Nessuno è certo di
non poter essere la prossima vittima. Il campo di sterminio è il cuore pulsante, qui
tutto è possibile, l'uomo è modificato nella sua intima natura. Si tratta di
annientare l’individuo, prima giuridicamente, privandolo dei diritti civili, poi
come persona morale e infine come uomo, rendendolo come cavia da laboratorio,
un numero come un altro.
La parte meno conosciuta dell’indagine arendtiana è forse quella che s’interroga
sul male. Letto come radicale, smisurato e profondamente malvagio, questo è il
male che trova la sua esplicazione nel totalitarismo. L'incommensurabilità di
questo lo rende radicato nell'animo umano, secondo una prima visione dell'autrice.
Affrontando la filosofia morale di Arendt è inevitabile la stretta correlazione con
quella kantiana per cui l’uomo è ragione e quindi anche la moralità è in stretta
correlazione con essa. Kant descrive un individuo la cui volontà è in connessione
con la ragion pratica ed è completamente libera. A questa completa libertà si
contrappone però la sua appartenenza al mondo sensibile, che rende l’uomo
schiavo di passioni e tendenze che lo inducono a compiere il male. Sarà nella
Religione entro i limiti della sola ragione che il filosofo tedesco parlerà per la
prima volta di male assoluto e radicale. Questa radicalità non è in questo saggio,
intesa come originaria predeterminazione dell’uomo a compiere il male, la
riflessione kantiana su questo non è, infatti, puramente teoretica e indipendente
dalla libertà umana. Il male è un atto umano che scaturisce dalla volontà e dalla
libera scelta umana, ogni singolo atto è imputabile perché deriva da una scelta
razionale che porta l’individuo ad allontanarsi dalla legge morale. Chi compie il
male decide di non far propria come massima soggettiva la legge morale. Kant
sostiene in più momenti la predisposizione dell’uomo al bene, che però è parallela
ad una triplice tendenza al male strettamente connessa alla sua natura sensibile e
quindi corruttibile. La radicalità del male deriva dall’intrinseca sensibilità che è
propria della natura umana, l’uomo non è sola ragione che lo condurrebbe a
scegliere sempre la legge morale e quindi il bene, ma è anche sensibilità che lo
rende debole e capace di compiere il male.
Arendt, dopo aver analizzato nelle Origini del totalitarismo le cause e le forme di
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malvagità, giunge a concludere che il male è profondo e radicale perché
incomprensibile all’uomo e difficile da estirpare. Arendt non scrive mai che
l’uomo tende al male naturalmente, oscura è per lei la motivazione che lo conduce
verso tale atto, essendo qualcosa di profondamente diverso dalla sua natura. In
Ideologia e terrore Arendt parla di un uomo come un “uno in due” con il suo io;
nel momento in cui questo dialogo con lui stesso viene a mancare, sorge il male.
Fu durante il processo a Eichmann, cui partecipò come inviata del giornale New
Yorker, che l’autrice iniziò a sostenere la banalità del male, apparentemente in
contraddizione con quanto fino allora sostenuto. A seguito de La banalità del male
la Arendt fu accusata di aver banalizzato l’intero genocidio ebreo e i crimini
totalitari. Arendt in realtà aveva solo sostenuto che il male non è connaturato alla
natura umana, ma è piuttosto un germe che dilaga velocemente facendo preda
delle menti di chi non sa pensare radicandosi nella mancanza d’idee.
In un saggio del gennaio 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale,
Hannah Arendt coglie un aspetto fondamentale del processo di sterminio:
l’assassinio di massa sistematico altera la capacità di pensare degli esseri umani.
Nel saggio Arendt analizza come il nazismo abbia coinvolto l’intero popolo
tedesco nella sua colpa, nessuno sul finire della guerra poteva ritenersi innocente.
Tutti avevano assistito a crimini perpetrati sotto i loro occhi e questo li rendeva
responsabili per l’opinione pubblica europea. In parte poteva essere così, ma
continuare a ragionare guardando ai popoli come masse indistinte non porterà mai
ad uscire dal dettame logico totalitario. Anche ammettendo che gli imputati non
erano più persone ma automi, era comunque da valutare la loro condotta e non la
loro personalità ormai annullata. Lo scopo del sistema ideato da Himler era
proprio questo, nascondere i veri colpevoli tra la criminalità di tutti. Arendt vuole
proprio ragionare su questo sistema freddo e irrazionale in cui ognuno era
ingranaggio di qualcos’altro e solo non ha valore. La raccomandazione dell’autrice
è propriamente quella di allontanarsi da questa visione e valutare ognuno
singolarmente perché chi sostiene l’idea di responsabilità universale, non sarà mai
in grado di cambiare le cose.
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Il primo capitolo della tesi tratterà della visione antropologica di Hannah Arendt,
legata profondamente all'etica. Partendo dall'opera Vita Activa, tratterò delle tre
condizioni della natura umana: lavoro, opera, azione. In ultimo affronterò il
rapporto tra teoria e pratica, come guida della morale. Nel secondo capitolo
introdurrò la filosofia morale kantiana, soffermandomi prima sulla morale della
Fondazione e poi sulla psicologia morale
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trattata nella Religione. Rivolgerò poi
l’attenzione a una possibile conciliazione tra la concezione del male di Arendt e di
Kant. Nel terzo capitolo mi soffermerò sulla trattazione arendtiana del male, per
come essa è trattata nelle Origini del totalitarismo, per poi affrontare il concetto
di banalità presente nel reportage sul processo a Eichmann. Nel quarto e ultimo
capitolo mi soffermerò sul saggio arendtiano Colpa organizzata e responsabilità
universale.
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J. Rawls, Lezioni di filosofia morale, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 311. Il termine psicologia morale si
riferisce a quanto scrive Rawls per definire l’argomentazione trattata da Kant nel primo capitolo de La
religione entro i limiti della sola ragione.
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1. L’antropologia di Hannah Arendt
1.1 Premessa
Vita activa, pubblicato nel 1958, non è un saggio di sola teoria politica,
contiene anche le basi per un’antropologia filosofica. Quella di Arendt, a
parere di Alessandro Del Lago è un’antropologia nuova, più vicina a quella
contemporanea di Scheler e Gehlen piuttosto che alle antropologie gerarchiche
da Platone a Hegel.
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In queste ultime, l'essenza dell'uomo è inserita in un
sistema gerarchico in cui il pensiero ha il rango più alto. Arendt è interessata a
una nuova visione della concezione umana, contraria al primato del pensiero
proposto ad esempio da Husserl. Alla domanda “chi è l'uomo?” la risposta
arendtiana vuole essere differente, è rivolta all’agire, che ha un ruolo
fondamentale nella vita umana. La condizione umana è plurale, le facoltà sono
diverse e non esclusive. Si può pensare, giudicare, parlare. Anche gli uomini
sono molteplici, il mondo è plurale e non solo l’uomo nella sua individualità è
oggetto dell'indagine. Tra tutte le facoltà umane, l’agire è l'unica che richiede
la pluralità, l’esistenza di altri che la riconoscano mentre le altre facoltà
possono anche sussistere nell'isolamento. Tra le azioni umane quella politica è
prima determinazione dell'essenza umana, ma sono necessarie anche tutte
quelle che avvengono nella sfera privata, come il pensare e giudicare, poiché
se queste venissero a mancare il rischio sarebbe incorrere in una socialità
vuota, priva di sostanza. Arendt ritiene insensato porre una facoltà sulle altre,
rompendo così con la tradizione e approdando a una nuova concezione
dell’identità umana.
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A. Del Lago, La città perduta, in H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 2001, p. 11.
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La descrizione dell’uomo in Vita activa si basa su tre fondamentali modelli: il
lavoro, l’opera e l'agire politico. Ciascuno di questi corrisponde a una delle
condizioni di base della vita umana.
1.2 Il lavoro, ciò che si consuma
Secondo Hannah Arendt il lavoro serve per la sussistenza dell'uomo, l’opera per la
creazione dell'artificialità nel mondo, l’azione politica è ciò che gli permette di
entrare in contatto e relazione con gli altri uomini.
L’homo laborans è l’uomo che lavora, proprio il lavoro è ciò che gli garantisce la
sopravvivenza. È la funzione fondamentale, prima e indispensabile, un’azione che
appartiene alla sua natura. Il frutto del lavoro è consumato immediatamente perché
necessario a soddisfare i bisogni primari, non rimane alcuna traccia del puro
lavoro fine a se stesso e l’uomo non modifica la realtà che lo circonda con questi
beni primari. Differentemente l'opera lascia il segno, termina nella realizzazione
dell'oggetto e inizia nuovamente con un altro oggetto; l'uomo lavora per
conservare la propria vita, quello del lavoro è un movimento circolare che non
restituisce nulla. Il lavoratore è un individuo che non entra in relazione con gli altri
uomini, produce per sé e consuma per sé, egli è alienato dalla società e non riesce
a uscire dalla materialità. Il lavoro svolge una funzione esistenziale, è la
condizione strutturale del rapporto terra-natura e non della natura umana, poiché
l’individuo si realizza solo nell’azione sociale. La natura dà agli uomini
determinati elementi e il lavoro è la modificazione di questi ma non è creato nulla
di nuovo su cui l’uomo possa dettare legge. Sempre la natura continua a esercitare
il proprio potere sui suoi elementi e l’uomo non può far altro che rispettare queste
leggi con il suo lavoro. Mentre l’homo faber, nel momento in cui crea la sua
opera e la lascia al mondo, apporta una modifica su cui può esercitare il comando.
L’antropologia arendtiana è chiaramente basata sull’azione, su ciò che l’uomo
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compie di pratico sulla terra e non sul pensiero astratto, credendo che nella storia
della filosofia l’agire sia stato sempre posto erroneamente in secondo piano
rispetto alle idee. In realtà è la teoria delle idee di Platone a far volgere l’interesse
nei confronti del mondo intellegibile, mentre nella polis greca l’azione politica era
ciò che contraddistingueva l’uomo. Con il susseguirsi degli avvenimenti storici
l’agire politico è stato messo sempre più in ombra dal lavoro come tipo d’azione
dell’uomo. Basti pensare nell’età moderna al marxismo che trova la vera essenza
dell’uomo nel lavoro e non certo nell’azione politica che è completamente
annullata con la proposta estrema dell’annullamento anche dello Stato. Arendt
invece vuole nuovamente portare l'attenzione sull’azione politica come condizione
umana fondamentale perché è in essa che l'uomo manifesta la massima forma di
umanità, il mettersi in relazione con gli altri. Nel momento in cui l’uomo pone
tutta la sua dedizione e passione nei confronti del lavoro dimentica la sua capacità
di ragionare e anche di far parte di una pluralità che lo circonda.
1.3 L’opera, ciò che si usa
L'ambiente che ci circonda è appunto fatto di opere, di ciò che l'uomo crea
modificando la natura. L’homo faber è colui che aggiunge la creatività alla facoltà
della manualità, con l’intento di lasciare il segno con la creazione di qualcosa di
bello. L’opera è una questione d’ingegno, qui l’uomo si applica con le proprie
mani, non limitandosi a utilizzare la sola forza del corpo. La differenza che
sussiste con i prodotti d’immediato consumo è quella che c’è tra il pane prodotto
dal fornaio e il quadro di un’artista, entrambi hanno prodotto qualcosa ma con uno
scopo diverso. Gli oggetti sembrano acquisire anche una certa autonomia nel loro
perdurare, separandosi da chi li ha creati, e l’individuo diventa signore, giacché
produce oggetti che continuano ad esistere nel tempo e modificano anche la
natura. Si pensi ad esempio all’abbattimento di un albero, qui l’uomo trasforma la
materia in materiale, modificandone la sistemazione nel mondo naturale. L'uomo