Introduzione Ha senso oggi dirsi “democratici”? Cosa significa questo termine? Attualmente molti filosofi
contemporanei tentano di rispondere a tali quesiti. Alcuni di loro, in particolare Daniel Bensa ï d,
Wendy Brown, Jean-Luc Nancy, Kristin Ross, concordano nel sostenere che il vocabolo in
questione è malleabile e, dunque, può essere oggetto di spostamenti semantici.
La parola “democrazia”, infatti, nella nostra epoca è l'emblema con cui le potenze occidentali
definiscono i propri Stati per differenziarsi da quei popoli che esse stesse considerano incivili. È in
nome della “democrazia” che si fanno guerre, che si afferma l'ineluttabilità della globalizzazione,
che il dominio oligarchico cerca di legittimarsi.
Tuttavia per “democrazia” possiamo intendere tutt'altro. La democrazia è il potere del demos .
Ma chi è il demos ? Esso non s'identifica con una parte determinata della società, è chiunque. In
questa prospettiva la democrazia è un principio politico che sta alla base di ogni governo. Quindi il
suddetto uso che si fa della democrazia indica un processo di « de-democratizzazione » 1
.
Tale è il paradosso della presente congiuntura storica. Dietro lo sbandieramento del termine
“democrazia” da parte delle classi dominanti, si assiste ad una “élitizzazione” delle dinamiche
politiche, per cui una buona fetta della comunità viene scacciata fuori dalla sfera pubblico-politica
attraverso la presunta “competenza” dei tecnocrati e il crescente bisogno di denaro che è necessario
possedere per accedere alle competizioni elettorali.
Allora, se questo nome è un significante vuoto adatto a diversi usi, cosa ne dobbiamo fare? La
risposta che danno Jacques Rancière e Miguel Abensour a tale domanda è che dobbiamo
riprenderci e riattivare la democrazia per scoprirne la sua figura politica. O in altre parole, per
ripensare, in un periodo ostile ad ogni pensiero rivoluzionario come il nostro, la politica
d'emancipazione.
Per Rancière, infatti, ogni nozione politica può voler dire tante cose – diverse e persino opposte
– perché è sempre l' « oggetto di una lotta » 2
. “Democrazia” è, pertanto, anch'essa una parola contesa.
Per questo motivo, rileva l'autore del primo capitolo della nostra trattazione, il termine su cui
stiamo ragionando è ambivalente.
Ma perché proprio con “democrazia” possiamo ripensare la politica d'emancipazione? Perché ad
esempio non riprendere un nome come “egualitarismo” che ha contraddistinto il pensiero
1 W. Brown, Oggi siamo tutti democratici... , in AA.VV., In che stato è la democrazia? (2009), trad. it.
Nottetempo, Roma 2010, pp. 71-92; la cit. è a p. 74.
2 J. Rancière, I democratici contro la democrazia , in AA.VV., In che stato è la democrazia? (2009), trad.
it. Nottetempo, Roma 2010, pp. 119-126; la cit. è a p. 121.
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rivoluzionario di tutti i tempi?
Ecco, sta appunto qui la scelta concettuale dei due filosofi che esaminiamo. L'“ugualitarismo” è
sempre stato ritenuto il fine ultimo da compiere, la realizzazione di un'umanità nuova che si stacchi
da ogni forma di sfruttamento. Ma ciò ha generato una sorta di attesa per un mondo di là da venire.
La democrazia, invece, è l'uguaglianza all'interno del regime di disuguaglianza, è la verifica
dell'uguaglianza all'interno del suo opposto. È, cioè, la rottura di ogni ordine sociale gerarchico, la
contestazione di ogni autorità costituita. La democrazia è il conflitto che ha come presupposto
l'“uguaglianza di chiunque con chiunque altro”. Perciò, nei suoi confronti, al di là della
proclamazione del suo “trionfo”, si oggettiva un odio.
Riportare alla luce il conflitto attraverso la “democrazia” nasconde però anche un'altra
operazione, politica e filosofica nello stesso tempo. La fine del cosiddetto “socialismo reale” ha
reso evidente che quegli Stati sovietici, anziché incarnare un autogoverno del popolo, avevano un
punto di somiglianza importante con le “polizie” occidentali: il disciplinamento dei corpi sociali e
il soffocamento di qualsiasi dissenso. Che i nostri autori traducono filosoficamente in unità del
principio formale e di quello materiale, coincidente con il mascheramento della divisione della
comunità. Tale unità è oggi la “scienza sociale” e il “realismo politico” ad essa conseguente, che
sopprime ogni possibilità di trasformazione sociale, liquidandola come utopistica, e dichiara il
sistema odierno come il rimedio al caos democratico e il punto d'arrivo ineluttabile del progresso
storico.
Come uscire da questo “pensiero unico”? Come ripensare la politica come politica
d'emancipazione, e non come governance ? Come mostrare la divisione tra i “grandi” e i poveri,
celata dalla “totalità” della globalizzazione capitalistica?
Non è facile ricavare risposte pratiche e strategiche dall'analisi di Rancière perché egli si
sofferma ad esaminare la fenomenologia del conflitto politico – la logica politica come
assolutamente eterogenea a quella poliziesca – e la “post-democrazia” del consenso. Tuttavia dalla
sua disamina è possibile dedurre, a livello di pratica politica, la richiesta del diritto di cittadinanza
per i nuovi senza-parte (gli immigrati) e che la democrazia si possa affermare in forme varie e
imprevedibili: il referendum sulla Costituzione europea, il cui voto era inteso come “adesione del
popolo” e invece riportò alla luce la “sovranità del popolo”; l'occupazione nel 1955, in Alabama, da
parte di una donna nera di un posto sull'autobus che a causa della sua pelle non gli apparteneva; la
trasformazione delle strade delle metropoli in spazi politici.
Ma per Abensour il discorso è più complicato. Come Rancière, egli attacca l'eredità
novecentesca del marxismo. Però, se il primo se ne mette fuori classificando quest'ultimo come
apice della filosofia politica (dalla quale lui vuole allontanarsi), il secondo invece lo attacca
staccandolo proprio da Marx. Pertanto, egli analizza un classico marxiano, la Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico , in cui il filosofo di Treviri non aveva ancora trovato il soggetto
determinato della rivoluzione, il proletariato. E, conseguentemente, collega questo testo giovanile
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ad un altro del Marx maturo: La guerra civile in Francia . La conclusione che Abensour ne trae è
che nel pensiero del “Moro” l'emancipazione invece di porsi come presa del potere di Stato, è un
mettersi a distanza dallo Stato per mezzo di un antagonismo verso lo Stato (inteso come ciò che
annulla qualsiasi conflitto).
Certo, possiamo rimproverare ad Abensour di considerare solo una parte dell'opera marxiana:
dove mette il proletariato e la “dittatura del proletariato”? Dove sono le “incapacità statali” che
Marx rimprovera alla Comune di Parigi nel saggio del 1871? Tuttavia, la sua operazione, seppure
non sia del tutto esatta dal punto di vista interpretativo, può essere giustificata per i fini attuali:
viene riattivato il pensiero di Marx in senso comunalista, e non giacobino, per sostenere la
necessità di un “momento machiavelliano”, ovvero la possibilità del conflitto in un' epoca che non
ha (o che non ha più) un soggetto determinato della rivoluzione.
In breve, se vogliamo porre il discorso in termini di strategia politica, sia Rancière che
Abensour, come tenteremo di osservare con Alain Badiou, pensano ad una politica senza Partito. O
meglio pensano ad una democrazia come un dis-ordine che non è destinato a fondare alcun ordine
perché questo porta in sé necessariamente un dominio, uno spontaneismo che non pone in essere
nessuna organizzazione. Senz'altro restano tante perplessità su questa questione a cui però la nostra
trattazione non dà una risposta definitiva, ma cerca soltanto di problematizzarle. Quello che invece
credo risulti molto efficace nelle tesi degli autori che esaminiamo è che la democrazia, irriducibile
ad una formula istituzionale, è un modo per pensare la politica d'emancipazione dopo la caduta del
Muro di Berlino e la fine delle “filosofie della storia”, perché con essa intendiamo non il “sol
dell'avvenire” e l'affermazione di un orizzonte in cui tutto si compie, ma ciò che vive nella sua
effettualità, negli atti che la fanno esistere. Nel suo essere insorgente : nel porsi contro le
unificazioni (che non possono che essere formali ed illusorie) e nel mostrare la divisione sociale.
Concludo con un'analisi che Badiou – filosofo spesso discutibile, ma assolutamente interessante
come pensatore radicale – ha sviluppato nel suo Sarkozy : «(…) nel corso del XIX secolo , la grande
questione è stata innanzitutto, semplicemente, quella dell' esistenza dell'ipotesi comunista [da
intendere: politica d'emancipazione]. Quando Marx scrive che lo spettro del comunismo si aggira
per l'Europa vuol dire proprio questo: l'ipotesi c'è, l'abbiamo insediata. La seconda sequenza, quella
del partito rivoluzionario della disciplina ferrea, della militarizzazione della guerra di classe, dello
Stato socialista, è stata la sequenza di una rappresentazione vittoriosa dell'ipotesi (…). Ciò che è in
questione per noi, dopo l'esperienza negativa degli Stati socialisti e le lezioni ambigue della
Rivoluzione culturale e di Maggio '68 – ed è per questo che la nostra ricerca è così complicata,
errante e sperimentale – è far esistere l'ipotesi comunista in un modo diverso da quello della prima
sequenza» 3
3 A.Badiou, Sarkozy (2007) trad. it. Cronopio, Napoli 2008, p. 126.
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1.
Rancière: lo scandalo della democrazia « Viviamo in Stati o società che si chiamano “democrazie” e si distinguono così dalle società
governate da Stati senza legge o dalla legge religiosa. Come mai all'interno di queste “democrazie”
un'intellighenzia dominante, la cui situazione non è affatto disperata e che d'altronde non aspira a
vivere sotto altre leggi, continua a imputare, giorno dopo giorno, tutte le sventure umane a un unico
male, chiamato democrazia? » 4
. Così Jacques Rancière, filosofo francese e professore emerito
all'università Paris VIII-St. Denis, pone l'analisi sulla democrazia nella società contemporanea. Per
sciogliere questo paradosso - vivere in una società che si definisce democratica da un lato, ma che
denuncia un male chiamato democrazia dall'altro - secondo Rancière, è necessario interrogarsi sul
significato del termine “democrazia”, ritrovare la potenza singolare che le è propria, o meglio lo
scandalo in essa contenuto, e quindi la radicalità della sua idea.
1.1 Il “trionfo” della democrazia Bisogna, perciò, cominciare col rilevare che proprio la parola “democrazia” sembra definire il
nostro Occidente. Come dice Alain Badiou: «Il termine “democrazia” rimane sicuramente
l'emblema dominante della società politica contemporanea» 5
. La democrazia, da questo punto di
vista, nell'ultimo ventennio è come se fosse “trionfata”. Di tale “trionfo” Rancière dà conto nei due
testi che esaminiamo nel presente capitolo: Il disaccordo , scritto nel 1995 , e L'odio per la
democrazia , del 2005.
Già nel primo, Rancière nota che d opo il crollo del muro di Berlino si è ovunque sentito
proclamare questo “trionfo”. Sarebbe stato, in particolare, duplice 6
. Innanzitutto si sarebbe trattato
di una vittoria della democrazia, intesa come regime politico efficace, in grado di garantire, nello
stesso tempo, le forme politiche della giustizia e le forme economiche di produzione della
ricchezza. E, in secondo luogo, esso avrebbe affermato la vittoria della democrazia come pratica
politica, vale a dire delle sue forme, dei dispositivi istituzionali della sovranità del popolo, tanto da
identificare la democrazia con lo Stato di diritto. Quindi, in ultima analisi, questo “trionfo” sarebbe
consistito nel liquidare come utopistica e superata l'idea di democrazia “reale”, un autogoverno del
popolo, di cui gli Stati sovietici, per quanto non lo incarnassero affatto, ne erano in qualche
4 J. Ranciere, L'odio per la democrazia (2005) trad. it. Cronopio, Napoli 2007, p. 87.
5 A. Badiou, L'emblema democratico , in AA.VV., In che stato è la democrazia? (2009), trad. it.
Nottetempo, Roma 2010, pp. 15-28; la cit. è a p. 15.
6 Cfr. J. Rancière, Il disaccordo (1995) trad. it. Meltemi, Roma 2007,pp. 109-110.
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maniera eredi.
Tale successo della democrazia formale sarebbe stato, però, contraddittorio: non si è assistito ad
un rafforzamento delle istituzioni democratiche, delle forme di controllo parlamentare da parte del
popolo, ma alla crescita del presidenzialismo e alla trasformazione dello Stato – o meglio, della
politica – in “Stato minimo” che aliena alla giustizia e all'economia ciò che gli appartiene. Il
paradosso, afferma a tal proposito Rancière, è che nel periodo in cui i « militanti socialisti o
comunisti combattevano per una Costituzione, per diritti e dispositivi istituzionali di cui, peraltro,
criticavano il fatto che esprimessero il potere della borghesia e del capitale » vi era una vigilanza
più accurata di quelle istituzioni; nell'epoca attuale invece « la situazione si è capovolta, e la vittoria
della democrazia cosiddetta formale va di pari passo con una sensibile disaffezione nei riguardi
delle sue forme » 7
. Dalla caduta del “socialismo reale”, insomma, dietro la presunta “vittoria della
democrazia” è stato messo in atto, come sostiene Wendy Brown, un processo di « de-
democratizzazione » 8
e di annullamento delle pratiche conflittuali che mettono in discussione le
forme politiche della classe dominante.
Nel secondo testo che noi prendiamo in considerazione, scritto dieci anni dopo il primo,
Rancière osserva come l'acclamazione del “trionfo” della democrazia è stata ripetuta, in maniera
nuova e del tutto diversa, dopo la caduta di Saddam Hussein e le elezioni del 2005 in Iraq. In
quest'ultimo caso, infatti, non è stata celebrata la vittoria della democrazia formale contro quella
reale, ma è stato dimostrato che la democrazia può essere affermata soltanto con le armi. Questo
sembra essere il motivo per cui, secondo l'allora ministro della Difesa americano, dopo la caduta
del regime iracheno seguirono saccheggi. Ciò vuol dire, spiega il nostro autore, che « portare la
democrazia a un altro popolo non significa soltanto portargli i benefici dello Stato costituzionale,
delle elezioni libere e della libertà di stampa. Significa anche portargli il caos » 9
. Allora la
democrazia, coincidendo con il “caos”, sarebbe ingovernabile e proprio per questa ragione
andrebbe governata.
In definitiva, come possiamo notare, per quanto i due casi siano eterogenei, in entrambi il
“trionfo” della democrazia viene proclamato come la vittoria su un disordine che è connaturato alla
democrazia stessa: o la democrazia reale che denuncia le apparenze della democrazia formale; o il
caos conseguente all'istituzione della democrazia. Intorno a questo disordine appartenente alla
democrazia, a parere di Rancière, si oggettiverebbe un odio nei suoi confronti. Bisognerà, pertanto,
capire chi sono i soggetti di questo odio e perché esiste questo odio. Il perché dell'odio è la ragione
dello scandalo democratico. I soggetti dell'odio sono, invece, coloro che cercano un arché, col
quale realizzare l'unità del popolo e/o limitarne il disordine democratico. Ma prima di spiegare
meglio il soggetto e l'oggetto dell'odio, è necessario constatare lo spostamento che il termine
7 Ivi, p. 111.
8 Cfr. W. Brown, Oggi siamo tutti democratici... , in AA.VV., In che stato è la democrazia? (2009), trad. it.
Nottetempo, Roma 2010, pp. 71-92.
9 J. Rancière, L'odio per la democrazia (2005) trad. it. Cronopio, Napoli 2007, p. 11.
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