INTRODUZIONE Del rito si dà una definizione perlopiù incentrata sul concetto di forma . L’etimologia stessa del
termine ci conduce in questa direzione attraverso il latino ritu(m) e di qui alla radice indoeuropea
*ar presente anche nel vedico ŗta, l’iranico arta , l’avestico aša. L’idea comune a questi termini è
quella di un ordine “che regola sia l’ordinamento dell’universo, il movimento degli astri, la
periodicità delle stagioni e degli anni, sia i rapporti degli uomini e degli dei e infine degli uomini tra
di loro” 1
. Allo stesso modo si possono interpretare i termini ars (disposizione naturale,
qualificazione, talento) e artus (articolazione) nei quali si legge il riferimento ad un ordine che
impone “un adattamento stretto delle parti a un tutto” 2
. Il rito designa quindi una molteplice varietà
di comportamenti collettivi e individuali, riferiti all’esperienza religiosa, sociale, politica, che
presentano caratteristiche formali di ripetitività, regolarità e stilizzazione degli atti, dei suoni e delle
parole. Per questo, al di là dei diversi significati che vi si possono attribuire a seconda dei contesti,
il rito è qualcosa di trasversale e pervasivo, si mostra come dimensione irriducibile e problematica
legata alla natura tecnica dell’uomo, “officina di equilibri in cerca di unità e pienezza” per dirla con
le parole di Jacques Vidal
3
. Il rito riguarda in ogni cultura gli eventi nodali dell’esistenza e i
comportamenti quotidiani, vive delle domande che l’uomo si fa sul radicalmente Altro e
sull’esistenza di un ordine e di un ordinatore, in qualsiasi modo esso venga visualizzato. Le fonti
storico-religiose attestano in tutte le civiltà l’importanza e la centralità del rito per la percezione di
un equilibrio dell’universo e la stabilità delle strutture sociali. Il rito ha una natura ambivalente: da
un lato riproduce e ripete, dall’altro rende possibile un’apertura ulteriore, crea un varco per la
trascendenza.
La tradizione antropologica, come studio della variabilità dell’uomo e della diversità delle sue
creazioni culturali, ha affrontato il tema del rito attraverso molteplici approcci teorici e producendo
una grande quantità di materiale etnografico, accumulando, però, soprattutto commentari, senza
arrivare ad enunciare una vera questione intorno al rito. Il rito, come sequenza gestuale ad
espressione pragmatica, è stato innanzitutto studiato in relazione al mito, rappresentazione che si
affida invece alla narrazione verbale. A questo proposito sono venute delineandosi due prospettive:
una dà la precedenza al rito e una la attribuisce invece al mito. Secondo Robertson Smith le
religioni primitive nascono come sistemi di comportamenti pragmatici, sulla base dei quali si sono
in seguito costruiti i racconti mitici. Durkheim, al contrario, definisce il rito come mito messo in
1
Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II. Pouvoir, droit, religion , Paris 1969, tr.it. a cura di M.Liborio,
Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II. Potere, diritto, religione , Torino 1976
2
Idem 3
Jacques Vidal,(a cura di), voce Rite , in Dictionnaire des Religiones , Paris 1985
2
azione e non ritiene possibile comprendere il rito senza uno sfondo di senso dato, appunto, dal mito.
Il significato del rito è stato rintracciato in una molteplicità di funzioni e limitato, di volta in volta,
dalle diverse tradizioni antropologiche, ad una sola di esse. Il rito serve al controllo del
soprannaturale, secondo Malinowski, o al controllo delle forze naturali per Frazer; asseconda
l’umano bisogno di protezione dall’ansia (Malinowski), generata soprattutto dai mutamenti di
condizione (Van Gennep) e dalle difficoltà che si creano nell’incontro con la potenza incontrollabile
della natura (de Martino). Per Lévy-Strauss il rito cerca la continuità dove c’è discontinuità,
imponendo lentezza alle azioni. Un’altra interpretazione dal largo seguito è quella che attribuisce al
rito la capacità di garantire l’ordine sociale davanti ai pericoli (Radcliffe-Brown, Gluckman,
Turner). Per Turner il rito ha anche e soprattutto funzione cognitiva: nel momento in cui
drammatizza un conflitto lo porta anche alla luce aprendolo anche alla possibilità di una soluzione
razionale. Lo stesso per Valeri, secondo il quale il rito, che appare allo stesso tempo dotato di senso
e privo di senso, mette in evidenza ciò che è contraddittorio e problematico. Altra funzione
rintracciabile è quella comunicativa: Firth definisce il rito come una serie formale di procedimenti
di natura simbolica che coinvolge un codice di comunicazione sociale, mentre Leach ritiene che nel
rito si dica sempre qualcosa su chi vi partecipa e che quindi esso sia espressione di informazioni
vitali per la società che lo mette in atto.
La psicoanalisi fornisce spunti altrettanto interessanti per l’interpretazione del rito. Freud fa un
parallelismo tra la pratica rituale e il cerimoniale ossessivo per delineare tra essi somiglianze e
divergenze, mentre Jung vede nel rito un contenitore psichico della trasformazione che si rende
necessario nel momento in cui l’equilibrio psichico è minacciato da una transizione da un modo di
essere ad un altro.
Il presente lavoro si propone di mettere a fuoco le prospettive più interessanti elaborate finora
dall’antropologia e dalla psicologia del profondo sul tema del rito, con uno sguardo allenato dalla
filosofia e capace perciò di mettere in luce i sistemi di pensiero dai quali nasce un’interpretazione
piuttosto che un’altra. Fu Nietzsche ad esplicitare la persuasione ormai comune che siano i saperi a
produrre verità. La consapevolezza della nostra epoca a questo proposito ci conduce non più a fare
un’enciclopedia del sapere, ma a ricercare i modi in cui il sapere si costruisce. Come osserva
giustamente Galimberti:
È (…) la storia di noi occidentali, a decidere la qualità della strumentazione, per cui il
sapere che ne scaturisce non è assoluto, ma storico e regionale, dove per “storia” si deve
intendere la storia dell’Occidente, e per “regione” la sua estensione geografica.
4
La nostra storia si può leggere allora come un progredire verso la fissazione delle basi discorsive e
la determinazione sempre più univoca dei significati. Limite e forma del nostro sapere sono il
4
Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2005, cit. p. 151-152
3
principio di identità e di non-contraddizione: essi decidono la qualità dello sguardo e la scelta degli
strumenti. Per questo motivo l’Occidente che guarda ad altre civiltà non sa trovare un senso se non
attraverso il reperimento di costanti nei comportamenti.
La storia della strumentazione del sapere si può vedere come un progressivo sviluppo delle
procedure di identificazione. Prima dell’affermarsi della logica disgiuntiva, a dominare era il
linguaggio simbolico dove una cosa è se stessa e anche un'altra e dove l’ambivalenza rende i
significati fluttuanti, ovunque disponibili. In questo contesto la parola simbolica si regola sul
criterio di verità come efficacia e il rito è efficace nel momento in cui la comunità che lo mette in
atto condivide lo stesso mito.
Mettendo insieme i diversi ( sym-bàllein ) il mito produce quelle identità che generano
comportamenti, la cui efficacia non è verificata a posteriori con procedure di controllo,
ma è generata a priori dalla persuasione mitica. Più il mito è persuasivo nelle identità o
connessioni simboliche che produce, più il comportamento è efficace.
5
Il limite del linguaggio simbolico è il suo riferirsi ad un contesto ristretto dove domina lo stesso
mito, il quale fissa la rete di significati. Il mito è deciso dagli uomini, ma da essi attribuito al divino.
Con l’affermazione del sapere filosofico prima, e di quello scientifico poi, le basi del discorso si
fissano definitivamente e la molteplicità dei miti diventa un insieme di inutili favole, sintomo di uno
sviluppo mancato. Il rifiuto del rito proprio del mondo contemporaneo viene dall’incapacità
dell’anima di cogliersi come potenza creatrice di possibili orientamenti, origine stessa di questo
mondo e non più come orientata in un mondo logicamente ordinato. È Nietzsche a smascherare la
logica come finzione, “arte della designazione non equivoca” 6
, e a rendere perciò necessario un
chiarimento anche sull’uomo, finalmente riconosciuto come vero “genio costruttivo” 7
. Ma la
lezione di Nietzsche è ancora lungi dall’essere pienamente compresa e ancora l’uomo tende a voler
reperire un ordine piuttosto che farsene creatore. Di qui l’equivoco sul rito (inteso come ordine
illusorio, vano tentativo di agire sull’inattingibile regno del soprannaturale) e la sua svalutazione.
Attraverso questo lavoro vogliamo delineare la possibilità futura di un nuovo approccio filosofico al
rito a partire dagli spunti dati da un’antropologia contaminata dalla filosofia e, insieme, dalla
psicologia del profondo. L’analisi degli autori scelti punterà a definire limiti e aspetti fecondi delle
loro prospettive attraverso la messa a fuoco del pensiero sotteso ai loro discorsi; si porterà così alla
luce un progressivo spostamento dai metodi delle scienze naturali a quelli dell’ermeneutica, in linea
con il più recente orientamento del pensiero filosofico.
5
Ivi, cit. p. 154
6
Friedrich Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1885-1887 ; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887 , in Opere di
Friedrich Nietzsche , Adelphi, Milano 1975, cit. vol. VIII, 1, fr. 7(34), p. 292
7
Id., Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873); tr. it. Su verità e menzogna in senso extramorale ,
in Opere , cit. vol III, p. 363
4
CAPITOLO 1- ANTROPOLOGIA DEL RITO ARNOLD VAN GENNEP
Il principale contributo di Van Gennep allo studio del rito si può far coincidere con il suo I riti di
passaggio 8
, pubblicato nel 1909 e per lungo tempo misconosciuto nell’ambito antropologico
francese, dominato allora dalla figura di Durkheim e dalla sua scuola sociologica. Solo negli anni
sessanta il testo viene ripubblicato e riconosciuto come fonte di ispirazione da parte
dell’antropologia sociale britannica, impegnata nello studio dei rapporti che costituiscono la
struttura sociale ed interessata di conseguenza anche al rito. Il debito viene esplicitamente
dichiarato da Max Gluckman quando nel 1962 cura l’importante volume Il rituale nei rapporti
sociali 9
e lo dedica “alla memoria di Arnold Van Gennep”.
La nozione di rito di passaggio si è rivelata così utile dal punto di vista strumentale da essere ormai
espressione tipica del gergo antropologico. Essa, frutto di quella che Van Gennep descrive “come
una specie di illuminazione interna la quale mise istantaneamente fine alle tenebre” in cui si
dibatteva da circa dieci anni, consiste nell’individuazione in una particolare forma di rito di una
struttura presente in tutti i gruppi umani, volta a sanzionare e facilitare il passaggio dell’individuo
ad una nuova condizione. L’intuizione di Van Gennep sta nell’aver riconosciuto che il rito di
passaggio pervade ogni tipo di società, compresa quella europea, e nell’averne individuato la
peculiare forma tripartita, distinta nelle fasi di separazione, margine e aggregazione. Questo saggio
è utile alla nostra ricerca perché, nonostante lo sfondo vagamente evoluzionistico (di cui paga le
conseguenze nella conclusione dell’opera), Van Gennep mette sempre vicini esempi basati sui dati
dell’etnologia ed esempi presi dal folklore europeo con lo scopo di avvicinare il rito alla nostra
comprensione,
al nostro orizzonte abituale, evitando così di relegarlo ad uno stadio primitivo della civiltà. La
struttura che Van Gennep riconosce nei riti di passaggio è infatti applicabile alle società di interesse
etnologico come al nostro tipo di società; perciò egli invita nella Prefazione il lettore a verificare la
tesi proposta “applicando lo schema dei riti di passaggio ai fatti del suo personale campo di
indagine” 10
. Egli stesso, dopo la pubblicazione de I riti di passaggio sposterà il suo interesse verso
le
tradizioni popolari europee, ambito entro cui divenne possibile condurre ricerche sul campo con un
atteggiamento più facilmente partecipante e mettere a frutto il metodo dell’etnologia e il suo
particolare sguardo sulle cose.
8
Arnold Van Gennep, Les rites de passage (1909) ; tr. it. I riti di passaggio , Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007
9
Max Gluckman, a cura di, Essays on the Ritual of Social Relations (1962); tr. it. Il rituale nei rapporti sociali ,
Officina, Roma 1972
10
Arnold Van Gennep, I riti di passaggio ; cit. p. 2
5
1 .1.1. Considerazioni sul metodo
Marcel Mauss fu molto critico nel recensire I riti di passaggio : lo definì “una scorribanda attraverso
tutta la storia e tutta l’etnografia” 11
alla maniera degli evoluzionisti britannici; Van Gennep in questo
saggio si mostrava interessato solo a determinare la sequenza propria dei riti di passaggio, restando
però incapace di approfondire, colpevole inoltre di utilizzare un metodo del tutto estraneo a quello
della scuola di Durkheim, che sceglie invece fatti elementari per poi costruire, sulla base di essi,
una teoria generale dei fenomeni sociali. Van Gennep, come sappiamo, non condusse mai ricerche
etnologiche sul campo; di conseguenza i suoi primi lavori, incentrati sul totemismo e sui miti e
leggende d’Australia, risultarono orientati all’elaborazione di prospettive e spunti teorici
comprensivi dei dati ricavati dalla letteratura etnologica, piuttosto che al particolare; la percezione e
l’analisi delle somiglianze doveva essere strumentale all’individuazione di un significato essenziale.
L’interesse di Van Gennep fu sempre attivo anche verso il folklore e ad esso si volse quasi
interamente dopo I riti di passaggio . I costumi e le credenze delle tradizioni popolari, ancora vive
nelle nostre società, erano intesi dall’antropologia come parte dell’etnologia. Van Gennep, come
alcuni dei maggiori esponenti dell’antropologia inglese quali Tylor e Frazer, attribuiva grande
valore alla ricerca etnologica in relazione alla comprensione della nostra cultura. Dice Tylor:
Se ci guardiamo intorno nelle stanze in cui viviamo possiamo constatare qui quanto
poco chi conosca solo il suo tempo sia in grado di comprendere correttamente anche
quello soltanto.
12
Lo studio delle società di interesse etnologico ha l’effetto di conferire senso alle nostre azioni
quotidiane e agli elementi del nostro ambiente culturale di cui spesso non siamo consapevoli.
Studiare usi tanto diversi dai nostri ha l’effetto di rendere più trasparenti certi aspetti del nostro
modo di vivere. Anche Van Gennep identificava il fascino maggiore di questa disciplina nel fatto
che, una volta acquisito il metodo e i primi elementi, la vita quotidiana muta d’aspetto ed ogni fatto
culturale anche minimo può rivelare analogie con usi e costumi di luoghi distanti e per altri aspetti
diversissimi. Il riconoscimento dell’unità dell’umano nella diversità delle sue manifestazioni
culturali è il principio guida degli studi antropologici: al loro interno ogni ipotesi generale
sull’uomo deve essere applicabile ai vari contesti in cui l’uomo si è venuto a trovare. Quello che
oggi viene riconosciuto come limite dell’antropologia, è stato il motivo stesso del suo emergere
come disciplina scientifica. La prospettiva evoluzionistica, oggi in buona parte superata, ha infatti
guidato le prime ricerche antropologiche; essa attribuiva all’antropologia il compito di studiare la
diversità umana delineando in essa una progressione. Questa disciplina si occupava quindi di fornire
prove empiriche a conforto di una visione ottimistica e progressiva della storia, ideologia propria
della seconda metà del XIX secolo, sviluppatasi sull’onda dei miglioramenti apportati alla società
dalla tecnologia. Il criterio assunto dall’evoluzionismo per classificare le diverse culture e
determinare la loro posizione sulla scala della civiltà si fondava sulla sua razionalità, quindi sulla
considerazione in cui viene tenuto il sacro e sulla presenza o meno di atteggiamenti pre-logici,
11
Marcel Mauss, recensione di A. Van Gennep, Les rites de passage , in “L’Année sociologique”, vol.11, 200-02
(1906-1909)
12
Edward B. Tylor, Primitive Culture (1871); tr. it. del capitolo 1 in P. Rossi (a cura di), Il concetto di cultura ,
Einaudi, Torino 1970, cit. p. 22
6
simbolici, rituali, e sulla tecnologia, motivo per cui qualsiasi cultura materialmente meno ricca e
progredita di quella europea è di necessità una cultura collocabile più in basso nella scala evolutiva.
Van Gennep inizia i suoi studi in un contesto ancora evoluzionistico, e il metodo dei suoi primi
lavori segue quello prevalente nell’ambito antropologico inglese: non sono proposti dati di prima
mano ma dati provenienti da diverse monografie, scelte senza criterio geografico o storico.
Nonostante l’evidente impostazione etnocentrica, non si tratta comunque di una comparazione
superficiale o affrettata, come sostiene anche Remotti 13
: Van Gennep si propone di chiarire le
strutture primitive, siano esse sistemi di classificazione, sistemi religiosi o riti, nel caso del saggio
qui considerato, adottando un punto di vista che privilegi l’analisi interna dell’oggetto. Egli
partecipa attivamente al dibattito circa la differenza tra metodo storico e metodo comparativo: il
primo si occupa dei fenomeni nel loro ordine cronologico, il secondo astrae dalle condizioni di
tempo e luogo. Nello studio dei fenomeni sociali un metodo non può prevalere sull’altro, poiché
entrambi sono necessari: i fatti sociali vanno studiati:
(…)a un tempo localmente, per mezzo del metodo storico, e comparativamente, per
mezzo del metodo biologico, al fine di pervenire a classificarli in categorie ‘naturali’:
famiglia, genere, specie.
14
Questa riflessione sul metodo viene approfondita nel contesto di una recensione a Il ramo d’oro di
Frazer; qui i due metodi sono considerati tappe successive: in primo luogo va applicato il metodo
storico per rintracciare i rapporti che collegano un determinato fatto sociale a una serie di fatti
anteriori, in seguito sarà il metodo comparativo a far emergere gli elementi comuni a serie di fatti
simili, considerati astraendo dal loro contesto.
Quando si vogliono scoprire le concordanze, le permanenze, le leggi mentali, sociali,
culturali, letterarie, non v’è altro metodo che la comparazione.
15
Questo l’approccio usato nella redazione de I riti di passaggio . Lo schema tripartito in riti pre-
liminari, liminari e post-liminari che viene presentato è il frutto di un’estesa comparazione volta a
far emergere somiglianze non solo esteriori, quindi non legate all’aspetto del rituale, agli oggetti o
atti in esso utilizzati, ma somiglianze di struttura. I singoli riti vengono sottratti da Van Gennep
all’isolamento nel quale l’antropologia precedente li aveva relegati, per evidenziare nella loro
interazione come complessi rituali un significato che eccede la singola occasione e lo scopo
dichiarato. Lo sguardo si sposta, la prospettiva si apre a comprendere la complessità del rituale
come costante umana il cui scopo non è solo legare due persone o due gruppi attraverso un dono (ad
esempio) o rafforzare il legame sociale nella commensalità, o introdurre ad una società ristretta
attraverso l’iniziazione. Il rito essenzialmente accompagna e rende fluidi quei mutamenti naturali e
sociali i quali provocano una rottura, una discontinuità: in essa risiede la confusione di ruoli e
condizioni, il pericolo del margine che è sede dell’irrazionale e del sacro. Lo schema dei riti di
passaggio si può applicare ad una grande quantità di riti, ciascuno dei quali ha un senso dato dal suo
scopo esplicito e acquista un senso ulteriore in virtù del contesto in cui si trova ad agire.
È di primaria importanza chiarire quale sia l’idea di società che sta alla base del discorso di Van
Gennep e che talora emerge esplicitamente nel testo.
Ogni società generale può essere considerata come una specie di casa divisa in camere e
corridoi. Quanto più essa si avvicina alle nostre società per la forma della sua civiltà,
tanto meno le sue pareti sono spesse e tanto più le sue porte di comunicazione sono
ampie e aperte. Presso i semicivilizzati, invece, questi compartimenti sono
accuratamente isolati gli uni agli altri, e per passare dall’uno all’altro, sono necessarie
formalità e cerimonie che presentano la più rilevante analogia con i riti di passaggio
13
Francesco Remotti, Introduzione : Van Gennep, tra etnologia e folklore , in I riti di passaggio , Bollati Boringhieri
Editore, Torino 2007, cit. p. XXII
14
Arnold Van Gennep, Religions, moeurs, et légendes (1908) , Mercure de France, Paris 1908, vol. 2, cit. p. 84
15
Id., vol.5, cit. pp. 32-34
7
materiale (…).
16
La società umana è uno spazio delimitato all’esterno da linee di confine e organizzato all’interno in
comparti. Le differenze risiedono nel numero più o meno elevato di comparti e nel grado di
difficoltà delle comunicazioni tra di essi; la nostra società tende ad assottigliare le pareti e a rendere
agevole il passaggio da un’area all’altra, mentre le società dei semicivilizzati tendono ad irrigidire i
contorni e mantenere invariati gli spazi. Questa idea della società come divisione degli spazi sociali
era già presente nel primo saggio del sociologo Durkheim, La divisione del lavoro sociale 17
pubblicato nel 1893, e venne approfondita grazie alla collaborazione con Mauss del 1901-1902, a
sua volta sfociata nella pubblicazione di Su alcune forme primitive di classificazione 18
. Nel primo di
questi lavori l’idea di divisione è usata per definire i diversi tipi di società, nel secondo l’ipotesi di
fondo è che la struttura sociale si traduca immediatamente in un sistema di classificazione degli
individui e delle cose. Van Gennep si fa ispirare da questi lavori e nell’interpretare il totemismo
rovescia le ipotesi di Durkheim e Mauss: il totemismo non è la base logica e sociologica delle
classificazioni cosmiche, degli esseri e delle cose, della possibilità stessa di classificare, ma, al
contrario, è solo uno dei possibili sistemi di classificazione. La classificazione è una necessità, un
bisogno sociale che può essere appagato dal totemismo, o da sistemi diversi. È innegabile che:
(…) i popoli i quali non hanno totemismo possiedono pur tuttavia un proprio sistema di
classificazione, il quale è comunque uno degli elementi primordiali del loro sistema di
organizzazione sociale generale.
19
Ogni società deve la sua sopravvivenza alla presenza costante di coesione interna e alla continuità
temporale del gruppo; i sistemi di classificazione tendono a soddisfare questi requisiti, producendo
società particolari interne a quella generale, dove si possano stabilire legami di natura particolare,
diversi da quelli di parentela ma in alcuni casi altrettanto forti. All’aumento di solidarietà interna
corrisponde tuttavia una diminuzione della solidarietà esterna, perciò si può dire che ogni
classificazione è fattore di solidarietà come di divisione. L’organizzazione generale di ogni società è
funzionale al mantenimento dell’equilibrio tra queste due tendenze opposte.
Risulta molto importante per la nostra analisi l’annotazione di Van Gennep circa il significato dei
termini adottati, posta in chiusura del primo capitolo de I riti di passaggio :
Queste teorie ( dinamismo e animismo ) costituiscono la religione la cui tecnica
(cerimonie, riti, culti) chiamo magia . Poiché questa pratica e questa teoria sono
indissolubili –la teoria senza la pratica diventa metafisica e d’altro canto la pratica
fondata su un’altra teoria dà luogo alla scienza- userò l’aggettivo magico-religioso .
20
Il rito è lo strumento attraverso il quale è possibile accostare il sacro, comprendere in maniera a-
razionale il suo mistero, integrarlo nella vita individuale e sfruttare la potenza di cui è portatore. È
magia perché non si fonda, come la scienza, sulla razionalità. Da questo sfondo nasce la riflessione
di Van Gennep sul rito.
16
Arnold Van Gennep, Les rites de passage (1909) ; tr. it. I riti di passaggio , Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007,
cit. p. 22
17
Emile Durkheim, De la division du travail social (1893) ; tr. it. La divisione del lavoro sociale , Newton Compton,
Roma 1972
18
Emile Durkheim e Marcel Mauss, De quelques formes primitives de classification (1901-1902); tr. it. Su alcune
forme primitive di classificazione , Bollati Boringhieri, Torino 1972
19
Arnold van Gennep, L’état actuel du problème totémique (1920) ; tr. it. , cit. p. 345 nota 1
20
Id., I riti di passaggio ; cit. p. 13
8