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Una voce che è sempre attuale perché, come diceva Madame de Staël,
Rousseau “non ha scoperto nulla, ma ha infiammato tutto”.
La sua penna, fondamentalmente differente rispetto a quella di Voltaire,
ma nello stesso modo efficace, colpisce come un dardo il bersaglio pro-
postosi.
Ed è per questa motivazione che chiunque legga questo poliedrico scrit-
tore, colloquia con uno dei grandi dell’ umanità, e con le opere da lui par-
torite, patrimonio della nostra civiltà.
Pertanto leggiamo in P. H. Simone: «Orgueilleux, vaniteux, ombrageux,
instable, avec cette forme subtile d’hypocrisie qui fait de l’amour sincère
de la vertu une commode couverture des défaillances morales et des vi-
ces mêmes - il fut ce qu’il fut; mais enfin, il n’a jamais laissé les hommes
indifférents; et c’est la preuve incontestable qu’il appartient aux esprits de
la grande éspece»
1
.
Il nostro Rousseau ha scritto migliaia di pagine nella sua non breve esi-
stenza (1712- 1778) - considerando l’età nella quale visse - e scrisse sem-
pre con il fuoco dell’eloquenza, con l’amore per lo studio delle relazioni
fra gli uomini, scrutando con attenzione problematiche sempre verdeg-
gianti, per cui attuali, come il bisogno che avvertono gli uomini di appari-
re, le maschere di cui si servono e di cui l’astuzia umana spesso necessita.
1
P. H. Simone, Le jardin et la ville, Paris, Du Seuil, 1962, p. 182.
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Rousseau, insomma, ha molto osservato il mondo, non solo umano ma
anche vegetale.
Per evitare che gli attribuissero ulteriori maschere, oltre a quelle che già
aveva ricevuto, scrisse le Confessions, tentando di mettere a nudo se stesso
e giustificando anche alcuni suoi errori. L’oggetto delle sue Confessions era
di far conoscere ai suoi coevi e ai posteri la sua anima, o meglio la storia
della sua anima.
In sostanza, Rousseau studia l’uomo, e studia sé stesso: «La sua riflessio-
ne verte sui problemi etici dell’uomo sociale, delle sue antinomie e del
suo destino in società. Per questo tra le sue idee ce n’è sempre, in tutti i
tempi, qualcuna che somiglia a quelle del lettore. Così come molti hanno
osservato, ogni generazione scopre un nuovo Rousseau e trova in lui il
modello di ciò che vuol essere e di ciò che rifiuta decisamente»
1
.
Rousseau pertanto studia e confronta l’essere umano con la morale e la
politica, lo inserisce nel suo contesto sociale, lo esamina in modo anche
provocatorio, ci affascina con l’ipotesi dello stato di natura, con il “vero
uomo primitivo”.
La morale e la politica in Rousseau non sono separabili, l’uomo è en-
trambe le cose e pertanto va studiato e compreso in ambedue i modi. E
per comprendere l’uomo del suo tempo, il citoyen ha bisogno di ipotizzare
1
S. Testoni Binetti, Introduzione a J.J. Rousseau, in S. Testoni Binetti, J.J. Rousseau. An-
tologia di scritti politici, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 40.
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l’uomo primitivo, il vero selvaggio che non conosce né il bene né il male,
che non ha contatti consapevoli con i suoi simili, che non ha bisogno di
altri esseri umani.
Solo così si possono ricomporre gli anelli della lunga catena che hanno
portato gli uomini alla nascita, e dopo alla corruzione e alla degenerazio-
ne della società civile, all’incipit della disuguaglianza fra gli uomini.
Prima di procedere in quest’iter, Rousseau spiega anche le motivazioni
della corruzione delle scienze e delle arti troppo asservite al potere per
essere nobili, e da ciò fa derivare la mancanza di veri cittadini e
l’esistenza di vizi che contaminano l’uomo. Sino ad arrivare all’idea di
comporre un’opera imponente, le Institutions politiques, che non videro mai
la luce se non in breve parte, vale a dire in quello che avrebbe dovuto es-
sere il secondo capitolo di quest’opera, il Manoscritto di Ginevra, poi modi-
ficato quindi nel Contrat social.
Quest’ultima è l’opera che doveva permettere, grazie ad un patto fra gli
uomini, di trasformare l’essere umano da animale stupido ad uomo nel
senso roussoiano del termine, ovverosia un uomo libero.
Le sue prime opere politiche, di cui noi tratteremo, mostrano come sin
dagli albori della sua scrittura il suo pensiero non sarà dissimile dalle ul-
time sue opere.
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Ciò che cambierà, infatti, sarà soprattutto la sua vita, più amara, più pre-
gna di solitudine sino a rasentare la follia, ma il suo pensare non subirà
storture, potrà soltanto ampliarsi e presentarsi sempre più maturo, più di-
retto, meno acerbo rispetto al suo Discours sur les sciences et les arts.
Dalle prime opere di J.J. Rousseau alle opere della maturità c’è difatti un
fil rouge sempre presente, una continuità che a volte è difficile da indivi-
duare.
Il Contrat social rappresenta, a nostro parere, la continuazione reale di
quella “ipotesi di lavoro” che era stato il Discours sur l’origine et les fonde-
ments de l’inégalité parmi les hommes, e quest’ultimo la manifestazione più
sottile e molto più complessa di posizioni ed idee espresse in modo più
succinto nel Discours sur les sciences et les arts.
Dopo aver criticato la società a lui contemporanea e aver ripercorso tap-
pa per tappa la storia dell’allontanamento dell’uomo dallo stato di natura,
che gli serviva sempre per comprendere la sua società, Rousseau aveva
preparato gli strumenti, magari inconsapevolmente, per costruire una so-
cietà, fondata sul Contratto.
Questo c’induce a presentare questo nostro lavoro nella suddivisione in
due capitoli relativi a queste tre opere appena citate: i primi due Discorsi e
il Contratto sociale.
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1.
I DUE DISCORSI
1.1. La lettura del Mercure de France
I primi anni della giovinezza di Rousseau furono piuttosto movimentati.
Da quando il padre lo aveva abbandonato, egli aveva dovuto per certi
versi darsi da fare, facendo molteplici lavori con dignità, e a volte soste-
nendosi economicamente grazie a qualche ricca Madame
1
.
Questo lo portò a viaggiare non soltanto in Francia, ma anche in altre
zone d’Europa. Per esempio J.J. Rousseau venne in Italia, precisamente a
Torino
2
e a Venezia
1
.
1
La ricca Madame è in questo contesto M.me de Warens, nata a Vevey nel 1699. Il
suo nome è Francoise-Louise de la Tour. Sposata all’età di soli quattordici anni, lasce-
rà il marito dopo averlo ridotto in rovina nel 1726.
In seguito otterrà una pensione dal re di Sardegna Vittorio Amedeo, dopo essersi
convertita alla religione cristiana.
Madame de Warens, amante e amica comprensiva, aiutò Rousseau a proseguire negli
studi di latino e di musica e tollerò con pazienza le sue brusche impennate e le sue
fughe (a Lione, a Friburgo, a Ginevra, a Losanna, a Neuchâtel, a Berna, a Parigi).
Tornato a piedi da Parigi (1732), Rousseau venne ospitato dalla Warens nella casa di
campagna detta “Les Charmettes”, presso Chambéry. Fu questo l'unico periodo ve-
ramente felice della sua vita, allietato dall'amore della cara “maman”, dalla natura cir-
costante propizia alle passeggiate solitarie e dalla libertà feconda degli studi.
Il 12 aprile 1778, cinquant’anni dopo il loro primo incontro, lui le rese omaggio nelle
sue ultime righe: la dixième promenade des Rêveries.
2
Rousseau arriva il 12 aprile 1728 all’ospizio dei catecumeni del Santo Spirito di To-
rino, dove dopo aver abiurato fu battezzato nella fede cattolica. Un anno più tardi,
nel febbraio del 1729, fu posto sotto la tutela dell’abate Gouvon, e nel giugno dello
stesso anno fece ritorno ad Annecy.
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Dopo aver visitato Nyon, Fribourg, Lousanne, Chambery e tanti altri
luoghi, nell’anno 1745 Rousseau si stabilì a Paris ed ebbe modo
d’intrattenere rapporti fecondi di amicizia con Diderot e Condillac, oltre
ad una corrispondenza epistolare con il già affermato Voltaire. Con il
tempo i rapporti fra Voltaire e Rousseau diventeranno sempre più freddi
ed ostili, oltre al pensiero che li differenziava notevolmente, il loro stile
di scrittura era troppo mordace, e da entrambe le parti i dardi scagliati e
ricevuti non furono pochi.
Uno degli episodi più polemici generati dalla penna del Ginevrino era
stata la risposta al Poema sul disastro di Lisbona, pubblicato da Voltaire nel
1756, che anticipava il tema che egli avrebbe trattato in modo più ironico
in Candide ou l’optimisme, pubblicato nel 1759.
Sentiamo direttamente le accuse di Rousseau che ci danno subito co-
scienza di quanto aveva detto Voltaire: «Le mie critiche, dunque vanno
tutte al Poema Sul discorso di Lisbona, dal momento che mi aspettavo da
esso risultati più degni del senso di umanità che sembra averlo ispirato.
Rimproverate a Pope e a Leibniz di ridere con insolenza dei nostri mali
quando sostengono che tutto è bene, e caricate a tal punto il quadro delle
nostre miserie da renderne ancora più grave la sopportazione. Speravo da
voi delle consolazioni, ma non fate che affliggermi […] Quell’ottimismo
1
Rousseau fu segretario a Venezia dal 4 settembre 1743 al 22 agosto 1744 del signore
di Montaigu, ambasciatore del re di Francia. Gli studi che compirà a Venezia gli sa-
ranno utili per le sue future riflessioni politiche.
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che trovate tanto crudele mi reca tuttavia consolazione in quegli stessi
dolori che mi dipingete come insopportabili.
Il poema di Pope addolcisce i miei mali e mi induce alla sopportazione, il
vostro inasprisce le mie pene, mi spinge alla mormorazione, e, privan-
domi di tutto meno che di una vacillante speranza, finisce per ridurmi al-
la disperazione»
1
.
Si evince chiaramente che Rousseau accusa Voltaire di possedere tutto
quello che un uomo potrebbe desiderare: ossia fama, amici, successo,
danaro, persino il medico che lo curi in caso di malanni, e malgrado ciò
imprechi contro la natura.
La terra che si è dimostrata benevola con Voltaire, è la stessa che egli ac-
cusa di contribuire a rafforzare i mali degli uomini e di tutte le creature
viventi. E più i mali sono rappresentati come nocivi, più divengono in-
sopportabili nella realtà, più fanno soffrire, nel momento in cui, come nel
caso di Voltaire, anche la speranza si affievolisce e si spegne completa-
mente.
D’altra parte Rousseau, che vuole dare un’immagine di sé povero, solo,
ritiratosi all’Ermitage senza amici, con tutte le problematiche che pote-
vano affliggerlo, e sulle quali torneremo più avanti, crede ancora che tut-
to sia bene, che la natura sia una madre devota con le sue creature.
1
J.J. Rousseau, Lettere morali, a cura di R.Vitiello, - 2. ed-, Roma, Editori Riuniti, 1994,
p. 108.
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Potremmo dire che, per certi versi, finge di non lamentarsi o meglio la-
menta la crudeltà degli uomini, ma innalza e quasi santifica la bontà della
sua amica natura.
Posizione manifestamente diversa, rispetto a quella di Voltaire.
Ed ancora nelle Confessioni, Rousseau si scaglia in modo prepotente quan-
to efficace contro Voltaire: «Frappé de voir ce pauvre homme, accablé,
pour ainsi dire, de prospérités et de gloire, déclamer toutefois amèrement
contre les misères de cette vie, et trouver toujours que tout était mal, je
formais l’insensé projet de le faire rentrer en lui même, et de lui prouver
que tout était bien.Voltaire, en paraissant toujours croire en Dieu, n’a ré-
ellement jamais cru qu’au diable, puisque son Dieu prétendu n’est qu’un
être malfaisant qui, selon lui, ne prend de plaisir qu’à nuire. L’absurdité
de cette doctrine, qui saute aux yeux, est sourtout révoltante dans un
homme comblé des biens de toute espèce, qui, du sein du bonheur, cher-
che à désespérer ses semblables par l’image affreuse et cruelle de toutes
les calamités dont il est exempt»
1
.
Insomma, fra i due non si poteva parlare di amicizia e il loro pensiero era
spesso contrastante. Tutto ciò lo vedremo anche con la risposta e
l’interpretazione che Voltaire darà al Discours sur l’origine et les fondements de
l’inégalité parmi les hommes di Rousseau.
1
J.J. Rousseau, Les Confessions, Édition Gallimard, 1959, pp. 518-9.