le parole più adeguate nelle situazioni in cui la morte mi
sfiorava da vicino.
Se in passato, la cultura forniva agli individui degli schemi
pratici che gli permettevano di affrontare la morte e di
sostenere le persone in lutto, oggi tali schemi non esistono più.
Tutto ricade sulle spalle del singolo a cui spetta il compito di
affrontare e gestire la sofferenza evitando di creare disagio
nelle persone che lo circondano.
La nostra è una società altamente complessa. In passato, la
maggior parte delle funzioni che regolavano ogni momento
della vita – dalla nascita alla morte – erano gestite all’interno
delle piccole comunità. Oggi, tali funzioni sono state assegnate
alle grandi istituzioni, ed in particolare ai media, i quali si
fanno carico di rappresentare, attraverso i propri linguaggi e le
proprie forme narrative, la maggior parte delle esperienze che
riguardano la vita di un individuo, o per meglio dire, i media,
ma soprattutto la televisione, contribuiscono a rendere
l’individuo partecipe della vita sociale nei suoi diversi aspetti.
Negli ultimi decenni, si è registrata la tendenza a mostrare
contenuti che prima erano severamente vietati, e tra questi
sicuramente la morte.
La morte, in quanto esperienza intima, è diventata il soggetto di
molti programmi televisivi, come, ad esempio, le serie tv. Ciò
6
ha attirato non solo l’attenzione del pubblico, ma anche
l’attenzione del mondo accademico.
Il mio percorso ha avuto inizio qui, quando guardando la Tv,
mi sono ritrovata di fronte ad una particolare serie televisiva:
Six Feet Under. La discussione sulle dinamiche e gli
atteggiamenti che caratterizzano la morte e il morire nella
società contemporanea messa in scena dalla serie, è stata fonte
di importanti conferme. Ciò che avevo studiato sui libri,
improvvisamente era visibile sullo schermo della mia Tv. In
quanto spettatore, ho avuto la possibilità di conoscere ciò che
succede all’interno di un’impresa funebre e ciò che succede ad
un corpo dopo la morte. Ma ho avuto modo, soprattutto, di
relazionarmi maggiormente con ciò che diversi studiosi hanno
evidenziato ormai da parecchi anni. La serie porta in primo
piano non solo le pratiche funerarie contemporanee, ma anche
la critica al modo moderno di gestire e affrontare la morte.
L’aver analizzato questa serie con passione e dedizione dopo
aver dedicato molto tempo agli studi sociologici e mediologici,
mi ha permesso di accettare la mia esistenza con maggiore
presa di coscienza.
Al fine di avere una visione oggettiva e distaccata dalla
posizione di semplice spettatore, ho suddiviso il mio lavoro in
quattro tappe.
7
Nel primo capitolo ho analizzato il rapporto che la società
occidentale ha stabilito, nel corso dei secoli, con la morte e le
pratiche ad essa associate.
Nel secondo capitolo, è portato all’evidenza il ruolo che la
televisione svolge nel mediare e nel veicolare le informazioni:
ovvero, il modo in cui la tv permette agli spettatori di fare
esperienza del mondo.
Nel terzo capitolo, ho concentrato la mia attenzione sulla
capacità che la narrativa ha nel dare senso e significato al
mondo. In particolare, le narrative seriali come strategie di vita.
Nel quarto capitolo, il rapporto tra la narrativa seriale televisiva
e la morte.
Infine, nell’ultimo capitolo, l’analisi di Six Feet Under, che
nello specifico si è concentrata sulla prima e ultima stagione.
8
CAPITOLO PRIMO
9
10
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma quest’essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni pare irrevocabile.
Rainer Maria Rilke
11
12
Storia della coscienza della morte in Occidente
Gli esseri umani sono le uniche creature della terra che
hanno coscienza della propria mortalità, sanno di esistere e
perciò sanno di dover morire. Tale coscienza, una volta
appresa, non può essere dimenticata. Molti ritengono
1
che la
nostra coscienza della morte derivi dall’esperienza della morte
degli altri esseri viventi che ci circondano. Marx Scheler
2
, però,
ritiene che questa credenza debba essere abbandonata. Egli
sostiene che un uomo percepirebbe sempre di essere mortale,
anche se fosse l’unico essere vivente sulla terra; un uomo si
sente invecchiare, percepisce, in qualche maniera,
nell’esperienza della malattia, dei fattori che gli suggeriscono
inconsciamente l’idea della sua fine. Noi vediamo e sentiamo,
1
Zygmunt Bauman (1995), Il teatro dell’immortalità. Mortalità,
immortalità e altre strategie di vita, Bologna, Il Mulino.
2
Max Scheler (1984), Morte e sopravvivenza, in A. Cavicchia
Scalamonti,(1984), Il senso della morte. Contributi per un sociologia della
morte, Napoli, Liguori.
13
in ogni momento della nostra vita, qualche cosa andare via e
qualche cosa avvicinarsi. Si tratta, come evidenziato da
Scheler, della nostra percezione del passato e del futuro, e di
come l’estensione del contenuto del passato cresca sempre di
più, mentre, allo stesso tempo, l’estensione del contenuto
dell’avvenire immediato diminuisca. All’interno di questa
dinamica, il presente è sempre più fortemente compresso tra
queste due diverse estensioni. Pertanto, man mano che il
processo vitale evolve in avanti, si restringe il campo delle
possibilità di esperienze future. Nello stesso tempo l’estensione
del presente diventa sempre più piccola con lo scorrere del
tempo oggettivo. Quindi, se per il bambino il presente
rappresenta una superficie larga e chiara di grande varietà,
questa stessa superficie decresce nel momento in cui l’esistenza
compie il suo processo vitale. Essa diventa sempre più stretta,
sempre più compresa tra il peso del passato e l’azione
anticipata del futuro. Il campo delle possibilità di vita del
bambino diminuisce e la pressione che esercita il passato nel
presente è sempre più grande. Si tratta dunque di un
accrescimento del volume del passato a spese di quello
dell’avvenire e di una coscienza progressiva di questo
cambiamento di rapporto. L’esperienza di questo cambiamento
è definita da Scheler esperienza intima del nostro orientamento
14
verso la morte
3
. La morte non è, quindi, un elemento
puramente empirico della nostra esperienza, ma appartiene alla
forma e alla struttura di ogni vita; essa ci è data dal di-dentro
come dal di-fuori.
La cultura, un’altra qualità esclusivamente umana, può
essere analizzata e considerata come il tentativo di risolvere il
problema della morte e il rischio che essa rappresenta. Dalle
parole di Edgar Morin:
«L’inevitabile continuità del rischio di morte ha acquisito
nel corso della storia anche un significato culturale e
antropologico totale: il rischio di morte è l’avventura umana
come tale. Senza quel rischio, tutto sarebbe troppo facile,
dunque inutile, dunque impossibile. La vita, l’agire, il
successo, non sono individuali ma anche collettivi, non
sarebbero che insipide barzellette. La cultura non ha
significato al di fuori della lotta mortale contro la natura, la
bestialità e la barbarie, condotta simultaneamente al di fuori e
all’interno della persona umana»
4
.
3
Ibidem.
4
Edgar Morin (1970), L’uomo e la morte, Roma, Meltemi Editore s.r.l.
15
La cultura, dunque, può essere considerata da una parte
come un tentativo ininterrotto di dare significato alla vita
umana, dall’altra un ostinato sforzo di reprimere la
consapevolezza del carattere irreparabilmente succedaneo e
fragile di tale significato
5
. Nel mondo occidentale, nel corso
dei secoli, la coscienza della morte così come l’atteggiamento
verso di essa è progressivamente cambiata. Tali mutamenti
dell’uomo nei confronti della morte sono molto lenti, oppure si
collocano fra lunghi periodi di immobilità. I contemporanei
non li avvertono perchè il tempo che li separa oltrepassa quello
di molte generazioni e supera la capacità della memoria
collettiva
6
.
1.1 La morte nell’epoca pre-moderna
«Nel Medioevo si parlava della morte e del morire con
maggiore franchezza e frequenza di quanto accada oggi. […].
Se paragonata al presente, la morte per giovani e vecchi era in
passato più familiare, assai meno velata e circoscritta»
7
.
5
Zygmunt Bauman (1995), op. cit., pag. 13.
6
Philippe Ariès (1978), Storia della morte in Occidente, Milano, Rizzoli
Editore.
7
Norbert Elias (1982), La solitudine del morente, Bologna, Il Mulino.
16
Uno dei motivi per cui la morte era familiare, addomesticata
8
,
dipendeva dalla prossimità fisica tra vivi e morti. Nell’epoca
pre-moderna era profondamente radicata la convinzione
secondo la quale seppellire il proprio corpo accanto alle ossa di
un martire assicurava protezione alla propria anima. Si diffuse,
perciò, la pratica di seppellire i corpi all’interno e nei cortili
delle chiese. Non c’era più differenza tra chiesa e cimitero, in
quanto la chiesa comprendeva sia gli edifici propri della chiesa
che gli spazi ad essa circostanti. Il cimitero si riferiva alla parte
esterna della chiesa, e fu così fino al XVII secolo. I defunti
erano seppelliti in grandi fosse comuni all’interno della chiesa.
A differenza di oggi, non importava il luogo esatto della
sepoltura, ma la vicinanza del defunto al santo o in chiesa,
vicino all’altare della Vergine o del Sacramento. Il cimitero
non era solo un luogo di sepoltura; le piazze davanti alle
chiese, i cosiddetti sagrati, avevano nel medioevo parecchie
funzioni: servivano da piazze di mercato, da luoghi di ritrovo,
da luoghi dove si giocava e si festeggiava o addirittura asilo per
i perseguitati; in molti casi servivano anche da tribunale e da
8
«Il vecchio atteggiamento in cui la morte è al tempo stesso familiare,
vicina e attenuata, indifferente, contrasta troppo con il nostro, in cui la
morte fa paura al punto che non osiamo più pronunciarne il nome. Per
questo chiamerò qui questa morte familiare la morte addomesticata. Non
voglio dire che la morte, prima, sia stata selvaggia, e che poi abbia cessato
di esserlo. Voglio dire al contrario che oggi è divenuta selvaggia» in
Philippe Ariès (1978), op. cit., pag. 16.
17
luoghi dove venivano celebrati i matrimoni. La calma del posto
e il fatto che ci fosse una specie di unione tra la vita presente e
l’aldilà furono certamente fattori che contribuirono al successo
dei sagrati
9
. Inoltre, questa promiscuità fra i vivi e i morti non
terrorizzava i vivi più dell’idea della propria morte. Questa
promiscuità era dovuta anche al tipo di società vigente in quella
epoca, quando la violenza e la guerra rappresentavano la regola
e la pace un’eccezione. Le epidemie, le carestie erano
all’ordine del giorno; la vista dei moribondi e dei morti era,
dunque, parte integrante del paesaggio medioevale.
«…in quei tempi la morte colpiva frequentemente, presto,
ciecamente, e senza preavviso; la morte era un evento
quotidiano e altamente visibile, non segreto né
straordinario»
10
.
La familiarità con la morte rappresentava una forma
d’accettazione dell’ordine naturale che non poteva essere
modificato. Il Destino non poteva essere cambiato dall’uomo,
non era suo compito. I soli cambiamenti erano determinati da
9
Giuseppe Godenzi (1998), Vivere la morte, Città di Castello (Perugina),
Ediprint Service s.r.l.
10
Zygmunt Bauman (1995), op. cit., pag. 13.
18
guerre e pestilenze, ma tali mutamenti erano soltanto una
rottura temporanea, una deviazione momentanea dal modo in
cui le cose erano state e sarebbero state di nuovo. La forma che
era stata data al mondo non poteva essere contestata; il
soggiorno sulla terra era privo di storia allo stesso modo del
mondo in cui si collocava. Il mondo senza tempo non spingeva
gli individui a porsi domande sul significato della vita, di
questo se ne occupava la religione, alleggerendo, in tal modo,
le preoccupazioni umane. Quindi, purché non si trattasse di
morte terribile, quali la peste o la morte improvvisa, l’uomo si
preparava serenamente alla propria morte. Vi era, dunque, un
riconoscimento spontaneo da parte del morente che, prossimo
alla fine, prendeva le sue disposizioni: inizialmente vi era un
rimpianto alla vita, seguito dal perdono delle persone care ed
infine il pensiero rivolto a Dio. Il morente recitava il mea culpa
con le mani congiunte e levate al cielo. Il prete dava
l’assoluzione facendo il segno della croce e spargendo acqua
benedetta e in un secondo tempo dando al moribondo il Corpus
Christi. Come la nascita anche la morte rappresentava un
evento pubblico e dunque comunitario. La cerimonia funebre
era pubblica ed organizzata dal moribondo stesso: parenti,
amici, vicini e bambini entravano liberamente nella camera del
moribondo che diventava un luogo pubblico, e tutti accettavano
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