ricopre in tutte quelle banche che hanno ormai adottato un’ottica customer
oriented.
Il presente studio è volto a verificare se la customer orientation, la formazione
permanente, la valorizzazione delle risorse umane, un marketing interno sinergico
sono “miti”, “mode”, “filosofie”, “attrattive” da sito-web e brochure
aziendali o se invece, in qualche realtà, esistono davvero.
Il lavoro è articolato in quattro sezioni (capitoli 2, 3, 4, 5). La prima e la
seconda sezione sono di carattere teorico-descrittivo e mirano a definire un
quadro generale dell’oggetto di studio. Nella terza sezione viene presentata
una breve indagine volta a rilevare il punto di vista dei tre principali attori
del processo formativo: il formatore-docente, il promotore-discente e il
dirigente-committente. Nella quarta ed ultima sezione vengono infine
riportate le conclusioni generali. In particolare, nel capitolo 2 viene
effettuato un breve excursus sui maggiori contributi teorici dati da
autorevoli studiosi sulle gravi carenze che fin dall’inizio hanno
caratterizzato la progettazione e l’erogazione della formazione nel sistema
bancario nazionale. Segue la storia del sistema creditizio italiano
analizzando nel dettaglio le leggi più importanti (dalla legge bancaria del
1936 al Testo Unico della Finanza del 1998) che ne hanno definito la
conformazione attuale. Si passa poi a descrivere l’inquadramento legislativo
e contrattuale del promotore finanziario, le caratteristiche del canale a cui
appartiene (nello specifico, i profili di convenienza economica e i profili di
efficacia competitiva) e l’ambito nel quale opera (analizzando in particolare
la nuova logica della distribuzione multichannel e dell’Internet banking) per
concludere con una breve storia della figura (con focus sulle nuove figure
del private banker e del tied agent), l’attuale inquadramento legislativo e
contrattuale e un’ampia parte dedicata ai vincoli imposti dalla Consob per
l’esercizio dell’attività e alle condizioni di iscrizione e cancellazione
dall’Albo unico dei promotori finanziari istituito con la legge 2/1/91.
6
Il capitolo 3 inizia spiegando cosa significa “formazione”. Viene poi
riportata la teoria di M. Knowles che spiega efficacemente le differenze tra
una formazione pedagogica (rivolta ai fanciulli) e una formazione
andragogica (rivolta agli adulti). Seguono la differenza tra “apprendimento
semplice” e “apprendimento complesso” e la spiegazione dei principali
orientamenti aziendali cui corrispondono obiettivi strategici,
comportamenti operativi, atteggiamenti relazionali e specifiche modalità
comunicative: l’attenzione è posta sull’importanza della comunicazione
interna e del marketing interno come strumenti sinergici. Si prosegue
confrontando la “formazione interna” con la “formazione esterna” e la
“formazione di breve periodo” con la “formazione di lungo periodo”
analizzando le carenze e i punti di forza di ciascun orientamento formativo.
Si conclude con l’analisi dei nove punti fondamentali della progettazione di
un intervento formativo (dove ampio spazio viene riservato alla
spiegazione delle metodologie didattiche in presentia maggiormente
utilizzate con l’intero paragrafo finale dedicato all’e-learning e al suo utilizzo
in ambito bancario). Il capitolo 4 vuole invece essere un “assaggio” della
realtà: qualche delizioso “bocconcino” giusto per sentirne l’odore, intuirne i
colori e assaporarne per un attimo il sapore (che è assai diverso da come lo
si immagina dopo aver letto queste righe). Tre questionari e due interviste
per conoscere, almeno in parte, come stanno davvero le cose. Ma una vera
e propria formazione specifica per i promotori finanziari esiste o no? Nel
capitolo 5 la risposta.
2. RILEVANZA DELL’ARGOMENTO E STORIA
Profondi cambiamenti negli ultimi anni stanno caratterizzando la struttura
dei mercati finanziari e bancari. Tra i fattori di cambiamento particolare
rilevanza assumono:
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- l’incremento della concorrenza, conseguente ai cambiamenti dei vincoli
normativi e territoriali (deregulation, apertura dei mercati mondiali,
dinamica continua delle economie mondiali…);
- l’affinamento della domanda, conseguente all’evoluzione della clientela
bancaria, più competente in materia di servizi;
- l’innovazione tecnologica e in particolare quella informatica, che
costituisce la piattaforma base della moderna attività finanziaria.
Il cambiamento genera cambiamento. Appare evidente quindi che a
cambiamenti di tale portata (che non riguardano solo la sfera economico-
lavorativa ma investono anche la cultura, le abitudini, gli stili di vita, i
bisogni, le aspettative e la psicologia della gente) non si può rispondere con
un mero adattamento S→R (cioè stimolo-risposta, tanto caro ai
comportamentisti) formale e passivo ma è necessaria un’innovazione
sostanziale e continua dell’intero assetto aziendale.
Il perno di questa evoluzione è l’individuo. La soggettività del lavoratore
non è più un fattore di disturbo come affermavano Taylor e Ford negli anni
‘20 ma diventa fattore produttivo.
Sia perché si affida al soggetto la trasformazione del suo potenziale
lavorativo in lavoro concreto (tramite l’autoregolamentazione,
l’autosviluppo e l’autocontrollo) sia perché il suo potenziale soggettivo
(creatività, comunicabilità, impegno, motivazioni) è la risposta vera alle
esigenze mutevoli del mercato globale.
Con il passaggio dal modello di produzione fordista basato su rigidità,
potere e consenso al modello post- fordista caratterizzato da elasticità,
cooperazione e conflitto, al sistema-potere basato sulla gerarchia subentra il
sistema potere basato sull’individuo.
L’individuo è “stazione di relais” e deve essere valorizzato.
Un primo segno di questa nuova tendenza alla valorizzazione è
rintracciabile nel cambiamento della nomenclatura: non più “merce
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particolare” e “salariati” (definizioni di eco marxista) o “dipendenti” e
“personale” ma “risorse umane” (RU) perché ormai sono destinatari e
acquirenti dell’offerta organizzativa. Sono soggetti attivi che stabiliscono
relazioni paritarie con il soggetto impresa. Per questo la formula B2E ha il
doppio senso di Business to Employee (impresa che dialoga con le risorse
umane) e Employee to Business (cioè risorse umane che dialogano con
l’impresa). O almeno così dovrebbe essere.
L’obiettivo è creare un’identità d’impresa basata su una cultura unica frutto
della collaborazione tra gli obiettivi del top management e quelli delle
risorse umane.
Non c’è dubbio che la “cultura” dell’impresa che comprende valori di
riferimento, abilità e competenze distintive del management e del personale
sia l’input e l’output delle attività di addestramento e formazione.
E poiché la cultura è l’anima dell’organizzazione e le risorse umane ne
sono il corpo, appare chiaro il forte ruolo della formazione come loro
principale alimento.
L’attività formativa è un investimento e risulta efficace solo se c’è coerenza
tra propensione al cambiamento dei formatori/propensione al
cambiamento dell’azienda/propensione al cambiamento dei partecipanti e
solo se è depurata da ogni tipo di atteggiamento paternalistico-
manipolatorio che preclude la partecipazione attiva del lavoratore.
Addestramento e formazione sono le due leve principali delle politiche di
gestione delle RU. Il fine è prevenire o comunque pilotare situazioni di crisi
o di obsolescenza.
Nonostante l’evidente importanza che tali processi ricoprono per la
sopravvivenza dell’impresa nel mercato ipercompetitivo odierno, sembra
che nel nostro paese l’analisi delle esigenze formative sia di carattere
istituzionale di base sia di carattere operativo non sia sviluppata
adeguatamente.
9
Dibattito storico sulla formazione: contributi critici
Questa manifesta e pericolosa carenza del sistema istituzionale – aziendale
italiano ha dato luogo a un dibattito storico sulla formazione manageriale
che dagli anni settanta ha assunto particolare rilievo grazie a Bontadini
1
che
per primo, nel 1971, ha sottolineato la totale estraneità della cultura italiana
rispetto ai problemi gestionali e organizzativi.
Il ritardo sulla progettazione e sulla gestione delle attività formative è la
conseguenza dello scollamento tra la sfera educativa e la sfera lavorativa,
nel senso di una forte tendenza allo sviluppo delle conoscenze astratte
piuttosto che delle capacità concrete.
Secondo Maggi (1974 e 1984)
2
questa distanza crea un’apparenza di
formazione poiché questa è incapace di incarnarsi nelle concrete realtà
aziendali.
Le cause di questa situazione vanno ricercate nella debolezza dell’offerta e
nella pessima analisi della domanda. Infatti, mancando una solida cultura
manageriale italiana, l’attività formativa risulta frammentata e
disomogenea poiché ci si limita ad applicare metodologie e tecniche estere.
Inoltre la formazione è apparente perché senza un’approfondita conoscenza
dei bisogni e delle caratteristiche di utenti e committenti risulta fine a sé
stessa.
Successivamente Costa (1975)
3
ha focalizzato l’attenzione sul fatto che le più
importanti attività formative tendono ad importare i modelli harvardiani,
che promuovono una formazione comportamentale e snobbano
l’importanza della competenza tecnica.
Il dibattito prosegue negli anni ottanta e novanta con particolare attenzione
a una recente ricerca curata da Andersen Consulting (1994)
4
sul ruolo della
gestione delle risorse umane nell’affrontare il processo dell’obsolescenza
delle professioni.
Ne risulta un quadro non certo entusiasmante: le risposte flessibili e
innovative delle imprese non sono adeguate in quanto c’è lenta percezione
10
dei cambiamenti esterni e bassa integrazione tra formazione e strategia
aziendale.
Il passaggio a una formazione reale dipende dalla possibilità e dalla
capacità delle organizzazioni di “realizzare una learning organization in
grado di anticipare e realizzare profonde trasformazioni (turnaround) e di
sostenere poi nel tempo la reingegnerizzazione continua dei processi e delle
competenze delle risorse umane in essi impegnate” (Andersen Consulting
1994)
5
.
Storia ed evoluzione del sistema creditizio italiano
Nei primi decenni del xx secolo l’attività bancaria si svolgeva senza vincoli
e limitazioni: una completa autonomia operativa che delineava un sistema
bancario nazionale complessivamente debole, poiché affatto integrato a
livello organizzativo e funzionale.
Negli anni ‘20 emerge la necessità, per una banca che si stava diffondendo
nel territorio verso un’estesa clientela di risparmiatori, di darsi strutture
organizzative e individuare funzioni articolate. Vennero così a formarsi
degli standard nazionali su criteri selettivi e formazione di livelli intermedi.
E’ importante sottolineare che la formazione era riservata al low
management e che l’assegnazione delle responsabilità era en cascade; segni
evidenti del carattere gerarchico- piramidale della struttura organizzativa
bancaria.
Detto questo, è comunque in quegli anni che si inizia a parlare di
fidelizzazione del personale e dell’importanza del rapporto fiduciario
azienda- dipendenti.
Le esigenze di corporativismo palesatesi in quel periodo portano alla
creazione dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana): un organismo
associativo con particolari finalità tecnico rappresentative.
11
La legge bancaria del 1926
Sino alla riforma del 1926 le aziende di credito non erano assoggettate ad
alcuna regola se non a quelle del Codice di Commercio. Con la presente
legge invece si afferma l’autorità della Banca d’Italia a cui si attribuiscono
poteri di vigilanza (in merito al rispetto delle leggi) e di controllo della
situazione dei conti delle aziende di credito nazionali. Inoltre tale legge
subordinava l’apertura di nuove filiali alla previa autorizzazione della
Banca d’Italia.
La legislazione del 1926 è comunque considerata poco organica e
inadeguata a risolvere il carattere frammentario del sistema bancario
italiano.
Tra il ‘26 e il ‘34 si verificò un restringimento dei flussi creditizi, causato
dalla crisi del ‘29 che investì insieme il mondo della produzione e quello
delle banche, strettamente legati dal sistema della “banca mista” che
prevedeva un rapporto preferenziale con alcune imprese rafforzato, nei
primi anni ‘20, dalla rapida crescita delle partecipazioni industriali (banche-
holding). L’eccessivo coinvolgimento tra banca e impresa fece sì che alla
crisi dell’una corrispondesse la crisi dell’altra.
Per superare questa crisi e risanare il sistema economico- finanziario nel
1931 nacque l’Imi (Istituto mobiliare italiano) che negli anni successivi alla
costituzione dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale -1933-) svolgerà
interventi di ristrutturazione finanziaria per il consolidamento dei debiti
delle grandi imprese e di grandi gruppi operanti nel settore pubblico ma
trascurando le richieste di finanziamento delle Pmi (Piccole e medie
imprese).
Con l’Imi nasceva il credito industriale ma è con il passaggio all’Iri delle
banche miste che si compie il lungo processo di pubblicizzazione del
sistema bancario.
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La riforma bancaria del 1936
La legge bancaria del 1936 colloca in posizione egemone la Banca d’Italia
che viene istituzionalizzata come vera e propria autorità di vigilanza.
Sostanzialmente la suddetta riforma poggiava su tre punti:
1) istituzione di un organismo statale avente funzioni di alta vigilanza e di
direzione politica dell’attività creditizia (Ispettorato per la difesa del
risparmio);
2) introduzione della specializzazione istituzionale, temporale e operativa
degli enti creditizi (specializzazione tra banche operanti a breve termine e
istituti operanti a medio-lungo termine) che ricrea un sistema segmentato
e gerarchizzato;
3) separazione tra banca e industria.
Gli anni ’70 ed ’80: il processo di innovazione finanziaria
Nel corso degli anni ‘80 si rafforza il processo di innovazione finanziaria
iniziato negli anni ‘70 poiché in quegli anni la banca centrale si fa
sostenitrice dell’adeguamento alle direttive CEE e dell’affermazione dei
principi e delle norme che precorrono la legge Amato del 1990 e il nuovo
testo unico del 1993.
Le direttive comunitarie promuovevano una liberalizzazione dell’attività
bancaria che veniva equiparata all’attività d’impresa. Tali fonti miravano
infatti alla soppressione delle restrizioni alla libertà di prestazione di servizi
nel campo delle banche e di altri istituti finanziari. La legge del 5 marzo del
1984 n. 74 riafferma appunto il carattere di impresa della banca e in quegli anni
si verifica una certa “osmosi dei sistemi attraverso le frontiere nazionali”
(Relazione Banca d’Italia per il 1984)
6
.
La legge Amato
Con la legge Amato avviene la ristrutturazione delle banche di diritto
pubblico secondo il modello delle S.p.a, cioè un’integrazione tra pubblico e
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privato, in cui la banca torna all’originario assetto privatistico sottoponendo
il proprio operato a valutazioni di economicità e assoggettandolo al criterio
dell’efficienza.
Il Testo Unico Bancario del 1993
Il “Testo Unico delle norme in materia bancaria e creditizia” (TUB) basa il
suo corpo di norme sul principio della despecializzazione istituzionale,
temporale e operativa.
Vengono meno i principi di specializzazione e separazione sanciti dalla
legge del ’36. Il TUB afferma che la banca è impresa e che l’attività bancaria è
definita dal connubio tra l’attività di raccolta del risparmio (funzione
monetaria) e quella di esercizio del credito (funzione creditizia).
La “banca moderna” può scegliere tra tre modalità organizzative: banca
universale, gruppo bancario e attività specialistica. Il sistema di “banca
universale” può essere equiparato a un’impresa multiprodotto in cui il
principio della polifunzionalità subentra a quello della specializzazione
funzionale.
Con l’Unione economica e monetaria il mercato italiano si integra con il
mercato internazionale. La conseguenza più rilevante è che l’obiettivo di
stabilità per decenni preminente diviene suvvalente rispetto a quello di
efficienza ora dominante. Il processo di privatizzazione e quello di
innovazione sono andati di pari passo: ormai conclusosi il primo, restava da
portare a termine il secondo.
Il Testo Unico della Finanza del 1998
Il “Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”
disciplina i mercati degli strumenti finanziari, distinguendo tra mercati
regolamentati e mercati non regolamentati.
Il cambiamento più importante avvenuto nel corso degli anni ‘90
nell’assetto dei mercati finanziari è stato quello dell’adozione sistematica di
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forme giuridiche, proprietarie e comportamentali di carattere strettamente
privatistico.
In Italia la trasformazione dei mercati pubblici in “mercati-impresa” avviene
nella seconda metà degli anni ‘90. Tra i fattori che hanno causato questa
trasformazione troviamo :
- l’aumento della competizione sovranazionale tra intermediari finanziari e
tra mercati: si rompe la simmetria tra mercati nazionali e spazio geografico
di riferimento;
- l’innovazione tecnologica che permette il passaggio dai mercati fisici ai
mercati telematici e porta a una delocalizzazione dei flussi di ordini dando
vita a nuove forme di transazione come l’home banking e il trading on line;
- lo sconfinamento spaziale che rompe il monopolio geografico e obbliga gli
intermediari a competere come qualsiasi altra impresa a livello globale su
fattori quali la qualità e il costo dei servizi offerti;
- il passaggio dalla politica amministrativa propria della forma pubblicistica
alla filosofia imprenditoriale propria della forma privatistica, che fa
prevalere elementi quali l’autonomia gestionale e l’autoregolamentazione.
I servizi di gestione collettiva e i servizi di gestione individuale del
risparmio secondo il TUF
Secondo il TUF l’attività di gestione collettiva del risparmio può essere
svolta solamente dalle Società di Gestione del Risparmio (SGR) e dalle
Società di Investimento a CApitale Variabile (SICAV) una volta ottenuta
l’autorizzazione della Banca d’Italia e sentita la CONSOB che è anch’essa
Autorità di Vigilanza.
Mentre le SICAV si possono occupare solo della gestione collettiva, alle
SGR è consentita anche la gestione individuale.
Secondo il TUF la gestione collettiva del risparmio si realizza attraverso:
ξ la promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni di
investimento e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti ;
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ξ la gestione del patrimonio di organismi di investimento collettivi del
risparmio (o OICR), cioè fondi comuni e Sicav.
Focus: cos’è un fondo comune di investimento
Il fondo è un patrimonio collettivo costituito con i capitali raccolti da una
pluralità di risparmiatori, ciascuno dei quali detiene un numero di quote
proporzionali all’importo che ha versato.
Il fondo è mobiliare poiché il patrimonio raccolto è impiegato solo in
prodotti finanziari ed è aperto perché si può entrare o uscire dal fondo in
qualsiasi momento.
Il primo tipo di fondo comune comparso sul mercato italiano nel 1968 era di
diritto lussemburghese, si chiamava Fonditalia ed era commercializzato
dalla rete Fideuram.
Fondi e Sicav di diritto lussemburghese erano l’unica forma di investimento
collettivo venduto agli italiani fino al 1984 quando fu creata la legge
istitutiva dei fondi comuni di investimento di diritto italiano.
Il collocamento delle quote di partecipazione al fondo può essere effettuato,
oltre che dalla SGR, dagli sportelli delle banche e dai promotori finanziari.
E’ in quegli anni infatti che si afferma la figura del consulente finanziario
(ora denominato “promotore finanziario” in seguito alla costituzione
dell’Albo); soggetto qualificabile come colui che, su incarico
dell’intermediario finanziario – prima SIM ed ora SGR – cura l’offerta fuori
sede dei prodotti finanziari e dei servizi di investimento, promuovendone
la conclusione
7
.
Focus: cos’è una Sicav
Una Società di Investimento a CApitale Variabile è dal punto di vista del
sottoscrittore perfettamente uguale ad un fondo comune di investimento. Il
cambiamento riguarda soltanto l’aspetto giuridico: il sottoscrittore non
compra “quote” ma “azioni” e così acquisisce i diritti tipici di un azionista.
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