Questi appunti trattano di una sintetica antropologia dell'uomo nella società romana. Viene inizialmente definita la condizione del cittadino romano anche a livello politico, quindi la condizione di civis romanus. Uno sguardo ai settori della vita civica romana, quali l'attività militare, la politica e il potere sacerdotale. Infine la gerarchia interna alla città stato, quindi la condizione di schiavo,del servo e del liberto,del contadino, dell'artigiano, del mercante e infine del povero. Si conclude con la definizione del termine humanitas.
L'uomo nella società romana
di Alessia Muliere
Questi appunti trattano di una sintetica antropologia dell'uomo nella società
romana. Viene inizialmente definita la condizione del cittadino romano anche a
livello politico, quindi la condizione di civis romanus. Uno sguardo ai settori
della vita civica romana, quali l'attività militare, la politica e il potere
sacerdotale. Infine la gerarchia interna alla città stato, quindi la condizione di
schiavo,del servo e del liberto,del contadino, dell'artigiano, del mercante e
infine del povero. Si conclude con la definizione del termine humanitas.
Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
Facoltà: Scienze Umanistiche1. La definizione del tipo romano
Circa un secolo prima della caduta dell’Impero d’Occidente, lo scrittore di cose militari Vegezio, propose
una sintetica antropologia del tipo romano, costruita attraverso una sequenza di semplici polarità. I romani
erano meno prolifici dei Galli, più bassi dei Germani, meno forti degli Spagnoli, meno ricchi e meno astuti
degli Africani, inferiori ai Greci nelle tecniche e nella ragione applicata alle cose umane. Questo tipo di
uomo definito in negativo aveva però una superiorità decisiva, una vocazione al domino, assicurata da tre
fattori: l’esercizio delle armi, la disciplina degli accampamenti, il modo di impiegare l’esercito. Questa
raffinata scienza bellica intrisa di etica era diventata fondamento dell’audacia, certezza del successo e
insieme carattere peculiare del tipo romano. A Cicerone questa spiegazione non era bastata, il fattore
militare era insufficiente a spiegare il dominio militare sul mondo: non abbiamo vinto gli Spagnoli col
nostro numero, né i Galli con la forza, né i Cartaginesi con l’astuzia, né i Greci con le tecniche, ma con la
scrupolosa osservanza della pietas, della religio e di quella sapienza teologica che è peculiare dei Romani.
Anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, questa associazione tra carattere guerriero e
Romanità, avrà una solida fortuna, radicata non solo nelle prospettive puramente storiche, ma anche nella
consapevolezza di chi si riteneva giustamente erede di quella antica virtù. Accanto a questa immagine si
impone lo scenario delle arene intrise di polvere e di sangue, i gladiatori scannati, i cristiani in pasto alle
belve, lo spettro della croce…in altre parole l’immagine del Romano crudele. Quella definizione della
civiltà della testa tagliata che è stata escogitata per i Celti spetterebbe con egual diritto anche ai Romani, per
i quali il tagliar teste non rientrava in un’attitudine definibile come crudelitas: l’atto del taglio della testa era,
oltre che un ovvio mezzo di intimidazione, un segno di potenza, una manifestazione di efficienza e bravura.
I romani erano un popolo fine, e la crudelitas la vedevano piuttosto in alcuni comportamenti che talvolta si
associavano a quell’atto: per esempio gioire scompostamente davanti al capo mozzato di un avversario
troppo a lungo temuto, o diffondersi in commenti di attivo gusto su questo o quel particolare fisionomico.
Sono questi i comportamenti che trasformano in crudelitas quell’ammirevole esternamento di potenza che si
era manifestato nella decapitazione del nemico. Qualunque sia il sostantivo che accostiamo all’aggettivo
romano (mondo romano, uomo romano…), il risultato è sempre lo stesso: costruiamo una categoria astratta
e totalizzante e quindi parziale. In un tempo lungo 1300 anni che rappresentano la durata minima della storia
romana, come può parlarsi di un uomo romano sostanzialmente uguale a se stesso dalla città dei Tarquinii a
quella di Augusto o di Teodosio il Grande? Quanto allo spazio, le dislocazioni geografiche di un impero ben
presto supernazionale compongono un viluppo di culture e di tipi umani, mentre il carattere unificante della
cultura greco-romana e le valenze cangianti dell’humanitas di ceti dirigenti si impiantano a macchia di
leopardo, seguendo l’ordito punteggiato dell’urbanesimo e delle aree direttamente controllate dalle città. Per
avvicinarci al tipo romano dobbiamo avvicinarci alla città, ma sarebbe comunque un errore assimilare tout
court urbanitas e romanitas. Le autorappresentazioni del tipo romano lasciateci dalla cultura letteraria antica
sono quanto mai mutevoli e raggiugono un certo grado di compattezza e omogeneità solo al livello
estremamente ristretto dell’humanitas, che limita di fatto a poche migliaia di individui l’appartenenza al tipo
romano puro. Il particolare rapporto dei Romani con la schiavitù apparve tale anche agli stranieri; i Romani
ad esempio giungevano a concedere addirittura la cittadinanza agli schiavi e di ciò i Greci ne restarono
impressionati e ammirati e l’esempio romano veniva preso a modello. La polis romana fu molto più aperta
della polis greca, e in questa diversità risiederebbe il successo dell’una e il fallimento dell’altra. Ci sono
alcuni dati di fatto: in Grecia l’assemblea dei cittadini poteva creare nuovi cittadini. Si trattava di un
procedimento complesso e difficile, che coinvolgeva un diritto sovrano della città, per il quale non erano
Alessia Muliere Sezione Appunti
L'uomo nella società romana ammesse deleghe né a magistrati, né a privati. Completamente diverso lo scenario romano: qui il magistrato
agiva al di fuori del controllo istituzionale del popolo. Ma ancor più impressionante nel caso romano era
l’iniziativa del singolo dominus: la sua volontà, accompagnata da un rituale semplice e dall’approvazione
formale del magistrato, era sufficiente a liberare uno schiavo e a farne un cittadino. In altre parole, il
cittadino creava il cittadino.
Alessia Muliere Sezione Appunti
L'uomo nella società romana 2. Il cittadino romano
Il mondo è vuoto dopo i Romani, diceva Rousseau. In qualche maniera i moderni non hanno fatto che
perpetuare una nostalgia retrospettiva. La Repubblica romana ha continuato ad affascinare gli storici e a
ossessionare l’inconscio collettivo. Fascino del successo, in primo luogo: i suoi legionari, generali,
funzionari e coloni, hanno saputo conquistare, pacificare e unificare uno spazio gigantesco, al cui interno la
loro impronta ha rappresentato la matrice dell’Europa moderna. Immagine di grandezza di una repubblica
imperiale che si riverbera su ciascuno dei suoi cittadini. Ma forse la grandezza i Roma Repubblica non è
solo conquistatrice. Essa risiede anche, per i moderni, nel fatto che la storia interna del popolo romano
descrive tutte le ipostasi possibili della politica: la nascita di una comunità, la conquista dell’eguaglianza dei
diritti da parte del popolo contro i grandi, le rivendicazioni di libertà contro l’oppressione, le grandi
questioni sociali: la povertà, i debiti, la legge agraria, i sussidi pubblici. Roma offre all’umanità la panoplia
completa del cittadino. Ogni romano è cittadino e chiunque possieda o acquisisca diritto di cittadinanza
romana è automaticamente romano. Quanto al popolo romano, esso è la totalità estensiva di tutti i cittadini
romani; non vi è distinzione, a Roma, all’interno del popolo, tra alcuni che godrebbero del diritto di
cittadinanza e altri che ne sarebbero sprovvisti. La città romana è in linea di principio, unitaria. Alle origini
della Repubblica c’erano praticamente nel suo territorio solo schiavi (privi di diritti) e uomini liberi (tutti i
cittadini). Si può notare subito una caratteristica fondamentale della città romana: gli schiavi liberati (liberti)
vi penetrano con pieno diritto e godono, di tutti i diritti civili e alcuni politici. Ciò non toglie che questa
coincidenza tra popolo e popolazione, tra il corpo civico e l’insieme di coloro che possono dirsi romani,
cessi di esistere alla fine del IV secolo a.C., cioè quando Roma parte alla conquista dell’Italia. Portata a
termine nel 272 a.C. questa conquista unisce sotto la sovranità di Roma popolazioni di importanza e statuti
diversi. Da una parte i Romani (discendenti degli antichi abitanti dell’Urbe) che sono cittadini a pieno
diritto; dall’altra gli Italici che, membri dell’alleanza romana sono assimilabili ai romani (per ciò che
concerne obblighi militari e fiscali), ma per altri versi se ne distinguono: in primo luogo perché non
partecipano alla sovranità (le decisioni comuni sono loro imposte unilateralmente); ma anche per una grande
autonomia locale, per i diritti privati e istituzioni diverse da quelle di Roma. Il gruppo dei cittadini con pieno
diritto rappresenta dunque solo una parte della popolazione totale. Gli italici rappresentano una popolazione
almeno uguale a quella dei Romani. La popolazione cittadina non rappresenta che una minoranza in
confronto all’insieme dei sudditi di Roma. Durante il II secolo d.C. tuttavia sempre più numerosi furono i
peregrini (cioè gli stranieri) naturalizzati: e lo sbocco spettacolare di tale processo fu la famosa costituzione
antoniana del 212 d.C. che accordò a tutti gli abitanti dell’impero la cittadinanza romana. Di nuovo, in
apparenza, ogni romano era cittadino; ma è evidente che questi termini non possono avere avuto lo stesso
significato lungo tutto il cammino di una storia così lunga.
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L'uomo nella società romana 3. La cittadinanza Romanza (civis romanus)
Essere civis romanus era tutt’altra cosa al tempo della guerra Annibalica, all’epoca delle guerre civili, sotto
Tiberio o Caracalla. Le differenze tra i vari contesti storici emergono nella sfera specifica della vita civica,
quella che dà significato al concetto stesso di cittadinanza: la guerra e l’obbligo militare, la fiscalità (specie
le pubbliche elargizioni), le decisioni comuni, il potere e il modo di parteciparvi più o meno diretto da parte
di ognuno. Questo insieme assai strutturato di relazioni complesse determina la condizione concreta di
esercizio della cittadinanza, la comunanza di destino che unifica il corpo dei cittadini. Tuttavia la
cittadinanza, prima di essere un modo di vita è uno status giuridico, uno ius. Si tratta dello ius per
eccellenza, quello che applicabile a tutti viene definito ius civile, il diritto dei cittadini; in latino tale termine
finì per significar non tanto obblighi o vantaggi politici, quanto il diritto privato e il diritto penale. Il diritto
di cittadinanza romana, vuol dire prima di tutto che chi lo possiede vede i suoi rapporti personali, familiari,
patrimoniali e commerciali regolati secondo un diritto comune; l’uguaglianza davanti alla legge è il
fondamento e lo scopo di quella forma di associazione che è la città. Uguaglianza davanti alla legge non
vuol, dire naturalmente che ognuno goda esattamente della stessa condizione e degli stessi diritti: ci sono
differenze inevitabili dovuti alla natura o al patrimonio. Lo ius civile non è aequom ius. I vantaggi della vita
civica ogni cittadino può constatare quotidianamente e ha diritto di pretendere. Concepita da un’angolazione
utilitaristica, la vita civica è insomma un’associazione naturale che al tempo stesso ha qualcosa sia della
famiglia, in quanto raggruppa uomini di origine più o meno comune, che della società commerciale, in cui il
compito degli apporti e dei benefici di ognuno è la regola ordinaria. Ogni città è di fatto combattuta tra
queste due concezioni non facili da conciliare: la solidarietà istintiva derivante da un’origine comune e il
puntiglioso egoismo di ogni associato che si arroga quotidianamente il diritto di valutare vantaggi e
inconvenienti della sua partecipazione agli affari comuni e che in fin dei conti può sempre riservarsi la
possibilità di rompere il contatto attraverso l’emigrazione, la secessione o anche la rivoluzione e la guerra
civile che, per mezzo della violenza tende a ristabilire un equilibrio minacciato: visione razionale, in qualche
modo giuridica e contabile, del patto fondamentale. Il cittadino in quanto tale è costantemente e a priori
debitore sotto tre aspetti principali: deve a tutti prestazioni riguardanti la sua persona, i suoi beni ma anche
qualcosa di più immateriale e altrettanto importante: il suo buon senno, i suoi pareri illuminati; aspetti cioè
che corrispondono all’obbligo militare, all’obbligo fiscale e alla deliberazione politica e all’esercizio di certe
cariche. In breve il cittadino è, per la stessa natura delle cose un soldato che può essere mobilitato, un
contribuente, un elettore ed eventualmente anche un candidato a determinate funzioni. Tali doveri
riguardano e obbligano tutti i cittadini sin dal momento in cui entrano a far parte della città: quando la loro
età lo impone o se sono allogeni proprio in virtù dell’atto stesso attraverso il quale diventano cittadini. Nella
Roma repubblicana questi differenti ruoli riguardano allo stesso modo, in linea di massima, tutti i cittadini.
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L'uomo nella società romana 4. Definizione di Census
I romani sono stati ben coscienti di possedere un sistema di organizzazione civica assai compatto e
strutturato, il cui fine supremo era l’introduzione di un equilibrio quanto più possibile perfetto di tale
distribuzione dei vantaggi e inconvenienti, di oneri e onori. Sistema che poggia per intero su un’operazione
di censimento e di ripartizione dei cittadini che la città opera periodicamente e che si chiama census. I
romani attribuiscono l’invenzione del census a uno dei loro ultimi re, Servio Tullio, collocando pertanto
l’introduzione all’origine della repubblica. Si tratta in primo luogo di computare esattamente il numero di
tutti i cittadini; ma attenzione: per cittadini intendiamo coloro che possono essere mobilitati in caso di
guerra, che pagheranno l’imposta e che parteciperanno alle decisioni e all’azione. Dunque solo i maschi
adulti. Oltre al nome, che esprime abbastanza chiaramente lo status di ciascuno, a tale definizione
concorrono altri elementi: età, origine locale o familiare, il merito ma anche e soprattutto il patrimonio, in
una parola, la ricchezza. In considerazione di questi vari criteri i magistrati incaricati del census ripartiranno
tutti i cittadini secondo un sistema (ratio) che assegnerà loro un posto preciso in un ordine rigoroso e
gerarchico. Da ciò, da un posto preciso in un vasto sistema di ordini, di classi, di tribù e di centurie,
dipenderà la condizione di ognuno la sua autentica concreta esistenza. Fino al basso impero, attraverso vari
sistemi economici e sociali, questa struttura interamente basata sullo status e fatta per esso prevarrà su ogni
altra forma di differenziazione; la società romana è e resta una società politica.
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L'uomo nella società romana 5. L' attività militare dei cittadini romani
Essenziale era il ruolo militare dei cittadini romani. L’esercito romano fu in origine e fino al II secolo a.C.
una milizia cittadina reclutata anno per anno per una determinata campagna e se possibile congedata in
seguito. Il soldato riceve un soldo che non è un salario ma un’indennità, il cui ammontare è assicurato dalla
riscossione del tributum, imposta diretta sulla ricchezza pagata dagli individui che possono essere mobilitati;
imposta che, anch’essa, è legata alle circostanze, non permanente ed è anche rimborsabile (se il bottino lo
permette). È questo un sistema semplice ma molto strutturato ed economico. In linea di massima vengono
chiamati alle armi propriamente i più ricchi. Specie in seguito la guerra annibalica, si combatte sempre più
una guerra oltremare: da ciò deriva la comparsa di fatto di eserciti permanenti, l’estensione della durata reale
del servizio e la tendenza di ricorrere al più possibile al solo volontariato. Un volontariato che può essere
sufficiente solo se si rivolge ai più poveri e se offre delle speranze di compensazioni finanziarie, se la guerra
diventa cioè redditizia; di qui la spirale di un esercito permanente, sempre più professionale, sempre più
proletario e di una politica sempre più imperialista. Non si tratta di un esercito di mercenari (Roma impiega
dei non Romani, ma sulla base delle sue alleanze, essa non li compra e fino all’epoca imperiale sarà un
esercito di soli cittadini), neppure propriamente di un esercito di mestiere, tale comparirà solo formalmente
con l’Impero. Non meno notevoli gli squilibri finanziari generati da tali cambiamenti; essi sono di due tipi:
anzitutto i successi esterni permettono a partire dal 167 a.C. di sospendere la riscossione dell’imposta
diretta; ma nell’immediato erano i ricchi (i soli a pagare l’imposta) a guadagnarci: essi combattevano meno
e pagavano meno. Ma i poveri invece erano sempre più sollecitati e costretti a rispondere alla chiamata,
senza peraltro ricevere alcun vantaggio dalla soppressione del tributum. In secondo luogo la legge
frumentaria introdotta da Gaio Gracco nel 123. Si trattava di assicurare ai cives la semplice possibilità di
acquistare a prezzo fisso e ridotto una quantità minima di frumento, a spese del Tesoro. Anche in questo
caso si pongono molti problemi, in particolare quello di sapere se sin dall’inizio, questo previlegio fu
limitato di diritto o di fatto ai soli abitanti dell’Urbs. Tre quarti di secolo più tardi con la Lex Clodia del 58
a.C. ciò accadeva certamente; i liberti erano ammessi alle distribuzione interamente gratuite. Ma anche qui il
legame esatto con la polarizzazione dell’esercito non è evidente poiché a questo stadio sono piuttosto dei
non soldati, non mobilitabili e certo non ansiosi di servire l’esercito, che approfittano del loro tesoro. Per i
soldati realmente in servizio altri meccanismi si mettono più o meno in atto. La distribuzione individuale del
bottino (nel corso della campagna e nel giorno del trionfo) e la distribuzione di terre ai veterani; questa
istituzione, per quasi un secolo dal 103 a 13 a.C. fu una sorta di cancro per lo stato
e una delle ragioni della sua rovina. Da un lato la quantità di terre pubbliche disponibili si assottigliava
dall’altro il senato insabbiava spesso le pretese dei generali per il loro soldati o li faceva attendere a lungo.
Di qui uno degli effetti delle guerre civili: procurarsi delle terre per distribuirle ai soldati vincitori. I
trasferimenti di proprietà così operati su vasta scala sono stati uno degli elementi della rivoluzione romana:
la loro entità si può valutare a partire dalla decine di migliaia di veterani sistemati da Silla dopo le sue
proscrizioni. Nel 13 a.C. Augusto decise si sostituire, per il congedo dei soldati, le distribuzioni di terre con
quelle di denaro: nacque il sistema imperiale.
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L'uomo nella società romana 6. La politica come settore essenziale dela vita romana
Soldato e contribuente, il cittadino romano non è un soggetto passivo e obbediente a coloro che lo
governano; egli è anche membro di una comunità, il populus romanus, dotato di sommo grado di autonomia
e di iniziativa. Il cittadino romano è provvisto di una volontà e un’opinione che può esprimere sugli affari
comuni. Di qui la necessità elementare di riunire i cittadini in un’assemblea, che è una realtà concreta e
prosaica: la riunione in uno spazio preciso di tutti gli aventi diritto. Roma in realtà aveva più di
un’assemblea, composte, di principio e di fatto, dagli stessi cittadini, convocati e ripartiti in modo differente
a seconda della natura e dello scopo di tali assemblee. Ciò che caratterizza le assemblee romane è il fatto che
esse risultano non dalla riunione di un numero indefinito di individui ma di un numero limitato e preciso di
unità di raggruppamento in seno alle quali ogni individuo dà il suo parere ma la cui unica decisione
registrata sarà quella collettiva. I poveri, infinitamente più numerosi dei ricchi e toccati molto poco dalla
mobilitazione e dall’imposta diretta, sono praticamente privi di influenza poiché la maggioranza che si
calcola è quella delle tribù o delle centurie, non quella degli individui. Le assemblee romane hanno una
competenza generale che abbraccia tutti gli aspetti della vita collettiva ma che si esercita essenzialmente in
due settori: ricompense e punizioni (concessione di cariche pubbliche, elezione dei magistrati e giudizi
criminali) e l’elaborazione di regole e decisioni (ovvero leggi e plebisciti), norme e decisioni che possono
ricoprire quasi tutte le materie: diritto pubblico, privato, diplomazia, guerra, pace ecc. In linea di massima
nulla regola la competenza e la sovranità del popolo. Le assemblee romane non si riuniscono mai di pieno
diritto e a scadenze fisse, ma su un ordine del giorno e su una convocazione che può essere fatta solo da un
magistrato giuridicamente competente di quell’ordine del giorno; il popolo non è in grado di riunirsi
autonomamente: dipende agli dei, dalla tradizione, dalla consuetudine. Il popolo non può nemmeno
esprimersi da se liberamente. Il semplice cittadino a Roma, non sceglie la questione per cui lo si interpella e
non delibera. Quale che sia l’assemblea -elettorale, legislativa o giudiziaria - il popolo nei suoi comizi e il
cittadino non fanno che risponder in modo binario (si o no) a una domanda che viene loro posta. Ciò vale
anche per le elezioni. Così il singolo cittadino non è solo privo del diritto di iniziativa ma anche del diritto di
partecipazione a un dibattito, del diritto di interrogare di discutere e di emendare una risposta.
In latino non c’è nessun termine che designi l’uomo politico, se non quella stessa parola che designa il
cittadino, civis; l’uomo politico ideale è il bonus o l’optimus civis. Roma è una città censitaria dove non tutti
potevano essere ammessi alle cariche pubbliche; la politica, intesa come l’accesso alle magistrature, non è
solo una carriera, ma è anche generatrice di status, determina cioè non solo l’influenza e il potere ma anche
la dignità, le precedenze giuridiche ufficiali, il quadro giuridico delle condizioni sociali. Modella e organizza
una gran parte della vita sociale. Lo status di senatore non comporta solo il monopolio della deliberazione e
delle cariche politiche: esso comprende anche delle insigne esteriori, dei previlegi id precedenza, ma allo
stesso modo vantaggi particolari nel diritto privato o criminale. In quanto determinatrice di status la politica
tende a dominare il sociale. Buon soldato, buon ufficiale, buon generale, il politico romano è anche
quell’uomo dal giudizio illuminato, circondato da consulenti, da clienti che per effetto del suo sapere, del
suo buonsenso e moralità esprime ancili diritto, illumina il pretore, contribuisce così alla salvezza della
patria, rendendo se possibile ad ognuno ciò che gli spetta.
Alessia Muliere Sezione Appunti
L'uomo nella società romana