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La condizione degli schiavi di città a Roma


A questo sistema chiuso della villa, in cui le forze della familia rustica sono interamente dedicate alla produzione, si contrappone il mondo della familia urbana, in cui l’organizzazione del lavoro è radicalmente diversa. Anzitutto numerosi schiavi sfuggono a ogni controllo diretto e permanente, poiché sono incaricati di gestire affari vari, botteghe o imprese artigianali a beneficio del padrone; essi godono quindi di un’autonomia che non ha paragone nelle campagne, tranne forse quella dei pastori. I numerosi schiavi che riempiono la casa del padrone assumono inoltre funzioni del tutto specifiche. Si tratta anzitutto di una vera e propria servitù domestica, destinata  a facilitare la vita quotidiana dei padroni e dunque sottoposta a ritmi di lavoro che dipendono ben più dal capriccio dei padroni stessi che dalla gestione razionale dell’impresa. Ciò non significa che gli schiavi della domus siano inattivi, ma è sicuro che beneficiano spesso di condizioni di lavoro meno dure, tanto più che quella servitù non deve solo garantire il funzionamento della casa ma anche esaltare la potenza del padrone con il suo numero e con la specializzazione dei compiti a essa affidati. Tale situazione implica dei rapporti tra padrone e schiavi diversi da quelli che possono esistere quando questi ultimi sono lontani e adibiti a compiti produttivi. In queste condizioni, molto meno dure, la parola familia, che comprende sia parenti sia schiavi, sembra prendere una dimensione affettiva reale; essa non indica più semplicemente tutti quelli che sono sottoposti all’autorità – potestas – del pater familias, ma anche una cellula affettiva, un gruppo umano unificato, di fronte agli altri, da legami previlegiati e concreti. Queste pratiche paternalistiche non sono prive di riserve mentali: esse sono indispensabili per assicurare la coesione di un gruppo di schiavi i cui compiti sono troppo dipendenti da bisogni personali del padrone. Il buon stato degli schiavi è anzitutto una buona notizia che riguarda la prosperità del padrone. Due cose risultano chiare: in primo luogo uno schiavo è uno schiavo, fondamentalmente uno che non è padrone del suo destino, e la cui situazione, per quanto dolce in certe circostanze, può essere radicalmente messa in discussione dalla semplice volontà del padrone. In secondo luogo, anche se lo schiavo non è arbitro del suo destino, è evidente che la sua sorte è estremamente variabile. In questo senso gli schiavi non costituiscono una classe sociale: il loro status esprime una visione giuridica e ideologica della società più che le sue realtà socio-economiche. Per molti secoli il quadro dominante della società mediterranea è rappresentato dalle città: comunità di limitata grandezza, costituite essenzialmente da proprietari. In seno a queste comunità vi sono tensioni che nascono soprattutto da una tendenza ricorrente alla concentrazione della proprietà terriera; ma pur attraverso queste crisi, la vita comune si regolarizza nell’ambito della polis dove si incarnano gli interessi comuni dei cittadini.
Nella città coesistono altri gruppi, ma il loro posto è determinato in rapporto ai cittadini. Questo è in particolare il caso degli schiavi. Essi possono essere proprietà collettiva della comunità ma sono soprattutto nelle mani nei cittadini e costituiscono una delle basi essenziali del sistema. Con le loro attività, consolidano i profitti dei cittadini e lavorano spesso accanto a essi, quando si tratta di piccoli proprietari. Gli schiavi permettono anche ai cittadini di liberarsi parzialmente del proprio lavoro e di procurarsi tempo libero. La nobile immagine di quelle assemblee che dibattono problemi comuni non potrebbe esistere senza l’aiuto di questa schiavitù patriarcale che procura anche ai cittadini poco abbienti la possibilità di fare politica e di partecipare attivamente alla gestione della città.

Tratto da L'UOMO NELLA SOCIETÀ ROMANA di Alessia Muliere
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