Perché secondo Lucrezio non si deve avere timore della morte
Il vero scopo di
Lucrezio è quello di mostrare agli uomini perché non devono avere timore
della morte.
Lucrezio innanzitutto riprende una celebre sentenza di
Epicuro: “nulla è la morte per noi”.
Per spiegarla cerca sostegno in una
similitudine tratta da un contesto tipicamente romano: come al giorno
d’oggi nessun italico percepisce più nulla delle guerre cartaginesi, che
appartengono solo al passato, allo stesso modo, quando moriremo e si
produrrà la separazione dell’anima dal corpo, di certo a noi non potrà
succedere più nulla e nulla più stimolerà i nostri sensi, in quanto non
esiteremo più.
A questo punto Lucrezio innesta 2 ipotetiche opposizioni:
1)
cosa succederebbe se l’anima conservasse ancora una qualche sensibilità
dopo la disgiunzione dal corpo? Ma se anche così fosse non
riguarderebbe la capacità sensibile dell’essere umano che, proprio in
quanto tale (e quanto quello che è stato spiegato prima), deriva
dall’unione strettissima di anima e corpo, intreccio che la morte tronca
irrimediabilmente (come spiegato dalle numerose prove sulla mortalità
dell’anima)
2) se anche la materia (il corpo e l’anima) che la morte
ha disgregato tornasse al suo stato originario (teoria della
palingenesi, cioè della rinascita), negli uomini tornati in vita in
questo modo non resterebbe alcuna consapevolezza del passato, dunque
nessuna delle precedenti esistenze ci riguarderebbe. Effettivamente
guardando l’immensitá dello spazio trascorso si potrebbe anche pensare
che gli stessi atomi di cui siamo formati, in precedenza siano stati
disposti in un medesimo ordine (e cioè facevano parte di un corpo
precedente). Tuttavia, se anche i nostri atomi fossero vissuti in un
corpo precedente, non si può recuperare la memoria di quel corpo, dunque
non c’è nulla da temere, perché non può essere infelice colui che non
esiste affatto (l’anima, dopo la morte, non rimane nella sua integrità,
per la prima prova sull’immortalitá dell’anima, ma si dissolve e questi
stessi atomi con cui si dissolve poi vanno a formare un nuovo corpo,
senza che però vi sia memoria di quello precedente, dato che comunque
l’anima si é dissolta).
Poi Lucrezio sposta progressivamente le sue
argomentazioni dal piano dell’analisi fisica a quello della riflessione
morale, mostrando anzitutto privo di fondamento razionale il timore per
la sorte del nostro corpo dopo la morte. Chi si preoccupa di ciò mostra
di credere che qualcosa del suo Io attuale sopravviva dopo la morte,
tuttavia le svariate prove sulla mortalità dell’anima confutano questa
credenza, dunque la paura di ciò che può accadere al corpo dopo la morte
è irrazionale.
Successivamente, utilizzando un tono satirico,
Lucrezio mette in ridicolo coloro che serbano un disperato rimpianto per
la loro vita. Segue poi la critica ai gaudenti, che sono terrorizzati
di perdere i loro piaceri --> dato che neanche quando siamo
semplicemente addormentati rimpiangiamo la perdita dei piaceri, ancora
meno li rimpiangeremo quando saremo morti.
Prosopopea della
natura: la natura parla in prima persona e chiede a coloro che hanno
paura della morte: ‘che cosa ti sta tanto a cuore che lamenti tanto la
morte?’ Infatti se la tua vita è stata felice, lasciala lieto, come un
commensale che si alza sazio da tavola; se invece è stata infelice, a
che pro cercare di prolungare ulteriormente le sofferenze? Le cose che
la natura può proporre all’uomo sono sempre le stesse, e la morte é
necessaria perché dal vecchio, come in ogni cosa, possa nascere il
nuovo. Occorre materia (atomi) perché crescano le stirpi future, e anche
queste, consumata la loro vita seguiranno la stessa sorte e cadranno.
L’individuo deve dunque abbandonarsi serenamente alla legge cosmica: la
vita non è un possesso privato dato al singolo individuo, ma è stata
data in usufrutto (è un bene comune) a tutta l’umanità. Questo è lo
specchio che ci offre la natura di ciò che ci accadrà dopo la morte.
Forse appare triste e orribile? Non sembra al contrario un riposo più
tranquillo di qualsiasi sonno?
Alla fine del libro terzo Lucrezio
ritorna sul tema da cui il libro stesso aveva preso le mosse, cioè
l’ineliminabile paura per le punizioni che ci attendono dopo la morte.
Il concetto attorno a cui ruota l’argomentazione lucreziana non muta:
tutto finisce con la nostra morte, dopo la quale c’è il nulla, dunque
non si deve temere alcuna punizione. I miti creati attorno ai supplizi
infernali sono soltanto una proiezione dei tormenti che popolano la vita
dell’uomo in questo mondo (infatti la mente, conscia dei propri
misfatti, applica a se quei tormenti e teme che nella morte le pene
diventino più gravi). Tantalo, Tizio, Sisifo, le Danaidi, Cerbero sono
fantasie che accrescono le nostre paure, rendendo angosciante la nostra
esistenza e in questo modo siamo noi che in realtà creiamo per noi
stessi il nostro inferno qui, sulla terra.
E se neanche questo fosse
sufficiente, Lucrezio, per consolare i mediocri dell’inevitabilità della
morte (prospettando una gerarchia al vertice della quale colloca
Epicuro, il sapiens per eccellenza), ricorda che se ne sono andati anche
i più famosi tra i re (tra cui Anco Marzio e Serse, i quali
esercitarono il loro potere su grandi popoli), i condottieri (Scipione
l’Africano), i poeti (Omero), i filosofi (Democrito), e infine lo stesso
Epicuro, che superò con l’ingegno tutto il genere umano. Dunque perché
dovrebbero indignarsi ed esitare nella morte persone peggiori di lui (i
mediocri), i quali per così dire muoiono già quando sono in vita, dal
momento che consumano la maggior parte del tempo a dormire, e anche da
svegli continuano a dormire in quanto continuano ad avere sogni e hanno
l’animo tormentato da vane angosce (come la paura dell’Acheronte), senza
neanche capire qual è l’origine del loro male. Infatti se gli uomini,
così come sentono il peso che grava loro nell’animo e li tormenta,
potessero anche conoscere le cause di questo male, non vivrebbero nel
modo in cui li si vede vivere, e cioè pieni di noia [taedium] (come
colui che irrompe fuori da casa sua, ma poi vi ritorna subito, scoprendo
che fuori non vi è nulla di meglio), cercando sempre di cambiare luogo
sperando di trovare sollievo [commutatio loci], non sapendo mai che cosa
desiderano [levitas,morbosa incostanza]. In questo modo ognuno cerca di
fuggire se stesso, ma, non riuscendovi, vi rimane attaccato e si odia.
Al contrario se riuscisse a capire la causa del suo male (cioè il fatto
che ha paura della morte), in primo luogo so dedicherebbe allo studio
della natura, capirebbe che non si deve avere paura della morte e
metterebbe così fine ai suoi tormenti. Infine c’è da dire che la mala
cupido vitae (la cupidigia della vita), non solo non giova a evitare la
morte, ma neppure ad aggiungere altri piaceri (in quanto quando si
riesce a raggiungere l’oggetto del desiderio, subito si anela a
qualcos’altro e dunque assale una perenne sete della vita), nè a
sottrarre anche un solo istante al tempo della morte, per far sì che si
possa essere morti meno a lungo. Dunque si può vivere quanto a lungo si
vuole (seppellire quante generazioni si vuole), ma nondimeno arriverà
l’eterna morte e non si sarà esistenti tanto a lungo quanto quelli che
da molti anni sono già morti.
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Dettagli appunto:
- Autore: Mariasole Genovesi
- Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
- Facoltà: Psicologia
- Corso: Psicologia
- Esame: Storia della filosofia
- Docente: Vittorio Morfino
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