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La nascita dell’etnomusicologia



Durante il medioevo e il rinascimento i pilastri della cultura europea furono la teologia e i classici dell’antichità; inevitabile al tempo era la lettura di bibbia e antichi classici, ciò faceva si che i compositori non potessero evitare un contatto almeno letterario con il mondo musicale delle scritture e dei greci,
tant’è che i trattati musicali più antichi si aprivano con omaggi agli ebrei o ai greci, grande fu quindi l’influenza di queste letture, riscontrabile anche nella prima delle grandi opere di argomento storico-musicale di padre Martini, la Storia della musica in 3 volumi. I successori inglesi di Martini si concentrarono invece sulla musica egiziana, ricordiamo Burney e Hawkins. Quattro anni dopo Laborde introdusse un criterio universalistico 1780, il quale comprendeva Ebrei, egizi e Greci ma anche Cinesi, Giapponesi, Tailandesi, Arabi, Persiani, Turchi, Negri e molti altri. I tedeschi, come i primi Martini, Bucale e Co. Rimasero fedeli e limitati alle musica della Bibbia, del classico greco e degli egizi.

Con l’Histoire General de la Musique del franco-belga Francois Fetis del 1869 si ha l’impressione di cambiare registro, l’opera infatti non solo comprende capitoli sull’india, la Cina e il Giappone ma anche sui Calmucchi, sui Chirghisi ed altri, secondo Fetis la storia della musica è la storia dell’umanità.
Si può pensare a un legame tra l’avvento dell’etnomusicologia e il Romanticismo, il quale consisteva in ogni campo artistico, siamo nel 18° secolo e vi è la tendenza d interessarsi ai generi d’arte più remoti. La svolta decisiva avvenne però intorno al 1880, la tesi dottorale di Baker sulla musica degli Indiani del Nordamerica faceva della musica primitiva un argomento accademico. Da li in poi numerosi studiosi in Germania, Inghilterra e USA iniziarono ad interessarsi maggiormente alle teorie e ai metodi musicali.

Il primo fu Ellis, egli concentrò la sua attenzione sulla riforma fonetica e sillabica, raggiunse nella sua ricerca una profonda conoscenza dell’acustica e della psicologia dell’udito, giungendo così a misurarsi con il problema delle scale musicali esotiche e dei loro passaggi inconsueti. Egli si servì della matematica per escogitare un ingegnoso sistema di calcolo fondato sui cents cioè i centesimi di un semitono temperato, così, i rapporti incerti con cui fino a quel tempo si esprimeva l’intervallo tra due note, con l’aiuto dei logaritmi sono trasformati in cifre chiare, semplici da usare e da indicare graficamente.; la valutazione arbitraria degli intervalli lasciò il posto alla precisione matematica, eliminando così i risultati errati risultanti dall’effetto di autosuggestione dell’orecchio musicale. La sua conclusione fu che non esistessero scale musicali uniche o naturali o che si fondassero sulle leggi della costituzione del suono musicale di Helmholtz, ma piuttosto esistono scale molto diversificate, artificiali e soggette a variazioni capricciose; Ellis forniva così alla musicologia un fondamento matematico e uno strumento teorico di precisione. Nel frattempo Edison aveva iniziato a trasformare le vibrazioni della voce umana in curve incise nella cera che ricopriva un cilindro rotante. Il suono, con tutte le sue inflessioni e i suoi timbri individuali, si poteva ormai registrare, riprodurre e conservare. Il cammino della musica esotica incontrò quello del fonografo Edison nel 1889 quando Fewkes si servì dell’apparecchio di Edison per uno studio sui Passamaquoddy e sugli Zuni. Fewkes trasmise il materiale raccolto a Gilman ad Harvard il quale trascrisse i canti Zuni incisi sui cilindri e stampò le melodie secondo la notazione occidentale nel primo volume del “Journal of Amercan Archeology and Ethnology”. Due anni dopo Stumpf riprodusse quelle trascrizioni, così questo nuovo ramo del sapere si affermò sia in Europa, che negli USA, che nella letteratura etnologica che in quella musicologica. Da li a poco Stupì e discepoli cominciarono a persuadere gli esploratori a portare con se apparecchiature Edison, registratori per le canzoni, per riportarle in patria, trascriverle, analizzarle e conservarle nell’Archivio.

Il termine etnomusicologia fu usato per la prima volta solo nel 1950, prima ci si riferiva a tale disciplina col nome di “musicologia comparata” per il suo metodo a mò di comparazione, paragone, alla ricerca di somiglianze e divergenze. Il nuovo termine vuole sottolineare la parte del composto che ha a che fare con l’etnologia, almeno per i francesi. Chi lavora in questo settore si trova a mezza via tra la musicologia e l’etnologia, l’etnomusicologo tenta di spezzare i vincoli della separazione tra le discipline e mira alla loro riunificazione a un livello più alto.

L’attività dell’etnomusicologo si suddivide in due fasi: il lavoro sul campo e il lavoro a tavolino. Il primo implica la permanenza dell’esploratore in un villaggio indigeno, parlo di mesi o anni. In tali civiltà indigene su può osservare l’unità più profonda tra la musica e la vita (certi schemi melodici sono riservati a certe ore particolari del giorno); il canto è un elemento essenziale e inseparabile della vita primitiva, e non può venire isolato dalle circostanze che ne costituiscono la causa, il significato e la ragion d’essere. L’esploratore ha necessariamente bisogno dei suoi strumenti di registrazione, l’esperienza ci ha insegnato quanto poco sicuri siano i sensi umani, e quanto siano influenzati dai pregiudizi; l’udire la musica così come il produrla sono soggetti a quei condizionamenti quasi indefinibili che costituiscono la nostra acculturazione musicale; spesso poi i gradi melodici diversi da quelli del nostro sistema abituale pongono l’etnomusicologo di fronte a due problemi esistenziali: come misurare e come esprimere quei gradi con criteri più esatti di quelli contenuti nell’espressione (un po' più, un po meno, di un tono). Per questo è necessario ricorrere all’aiuto di un mezzo meccanico.

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