La concorrenza sleale
La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di una pluralità di imprenditori. Ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficue. Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile.
È interesse generale che la competizione fra imprenditori si svolga in modo corretto e leale. Da qui la necessità di predeterminare talune regole di comportamento che devono essere osservate nello svolgimento della concorrenza, al fine di impedire colpi bassi e vittorie truffaldine.
Principi base della disciplina della concorrenza sleale: nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale. I fatti, gli atti e i comportamenti che violano tale regola (art. 2598: atti di confusione, atti di denigrazione e atti di vanteria) sono atti di concorrenza sleale (illecito concorrenziale).
Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa. Essi sono repressi e sanzionati anche se non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti. Basta il cosiddetto danno potenziale, vale a dire che l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Tanto è necessario e sufficiente perché scattino le sanzioni tipiche dell’inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti, salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell’elemento psicologico e di un danno patrimoniale attuale.
La disciplina della concorrenza sleale germina da quella dell’illecito civile e tutt’oggi assolve la funzione di prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto. Funzione perseguita con gli adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si vuol reprimere. La repressione degli atti di concorrenza sleale: a) è svincolata dal ricorrere dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa; b) è ulteriormente svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale, almeno se inteso nel senso tradizionale e proprio fissato dall’art. 2043; c) è attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria e rimozione), che non si esauriscono nel risarcimento dei danni, del resto solo eventuale.
Si tratta di una disciplina speciale rispetto a quella generale dell’illecito civile.
L’interesse tutelato non è solo l’interesse degli imprenditori a non vedere alterate le proprie probabilità di guadagno per effetto di comportamenti sleali dei concorrenti. Ma tutelato è anche il più generale interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i destinatari finali della produzione: i consumatori.
Necessario e sufficiente perché un atto configuri concorrenza sleale è l’idoneità dello stesso a danneggiare i concorrenti. Anche se non arreca alcun pregiudizio ai consumatori e pure se questi ne traggono un vantaggio.
Legittimati a reagire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria; non invece il singolo consumatore o le relative associazioni.
All’originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni pubblicitari ha infatti in un primo tempo supplito l’autonomia privata: con la volontaria adozione da parte delle imprese del settore di un Codice di autodisciplina pubblicitaria. Al sistema di autodisciplina si è poi affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole.
La disciplina della concorrenza sleale regola i rapporti di coesistenza sul mercato fra imprenditori concorrenti. La sua applicazione postula il ricorso di un duplice presupposto: a) la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere (direttamente o indirettamente) l’atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenza; b)l?esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i medesimi.
Il dato normativo alimenta qualche incertezza sulla necessità che la qualità di imprenditore debba essere rivestita anche dall’autore del comportamento sleale, affermandosi testualmente che “compie atti di concorrenza sleale chiunque…”.
Argomenti sia letterari che sostanziali inducono tuttavia la dottrina e la giurisprudenza prevalenti a propendere per un’interpretazione restrittiva. Invero, concorrente di un imprenditore non può che essere altro imprenditore.
L’imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente compiuti, ma anche per quelli posti in essere da altri, nel suo interesse e su sua istigazione o specifico incarico.
Il secondo presupposto è l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra gli imprenditori e di concorrenza prossima o effettiva. Devono offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o bisogni similari o complementari.
Si deve tenere conto anche della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico in prodotti complementari o affini dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza sleale (concorrenza potenziale).
La disciplina della concorrenza sleale è applicabile anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi: produttore-rivenditore; grossista-dettagliante. Necessario ma al tempo stesso sufficiente è che il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, anche se diversa è la cerchia di clientela direttamente servita (concorrenza verticale).
I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 cod. civ. Due ampie fattispecie tipiche: a) gli atti di confusione; b) gli atti di denigrazione e l’approvazione di pregi altrui. Costituisce atto di concorrenza sleale ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
La previsione legislativa di atti tipici di concorrenza sleale risponde alla finalità pratica di restringere i margini di incertezza e di discrezionalità insiti nella repressione fondata sull’applicazione della elastica clausola generale di chiusura.
È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente. Questi mezzi sono sleali in quanto sfruttano in successo sul mercato conquistato dai concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento dell’altrui clientela.
Di tecniche e pratiche il legislatore ne individua espressamente due.
L’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti.
È necessario che si tratti di segni distintivi legittimamente usati.
L’imitazione servile dei prodotti di un concorrente è tale la pedissequa riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti, l’originale e l’imitato, provengono dalla stessa impresa.
L’imitazione deve però riguardare elementi formali non necessari e allo stesso tempo caratterizzanti. Non si ha imitazione servile quando vengono imitate forme comuni o ormai standardizzate e rinvenibili in ogni prodotto di quel genere.
Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente.
La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale ricomprende: a) gli atti di denigrazione, che consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; b) l’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.
La finalità di entrambe le fattispecie è quella di falsare gli elementi di valutazione comparativa del pubblico. Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione commerciale. con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà appartengono a uno o più concorrenti.
Lecito è il cosiddetto puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti, anche se non sempre è agevole stabilire la linea di confine con la pubblicità ingannevole.
L’approvazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse. Ne costituiscono forme tipiche la pubblicità parassitaria e la pubblicità per riferimento.
Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa. Essa consiste nel confronto fra la propria attività e i propri prodotti e quelli di uno o più concorrenti, fatto in modo da gettare discredito sugli altri prodotti o sull’altrui attività.
La comparazione è lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili di beni o servizi omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente. Non deve procurare all’autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto dalla notorietà dei segni distintivi del concorrente.
Un criterio elastico affida al giudice il delicato compito di rendersi interprete della coscienza sociale del momento.
Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientra innanzitutto la pubblicità menzognera: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente.
Fra le altre forme di concorrenza sleale ricondotte dalla giurisprudenza nella categoria residuale del n. 3 dall’art. 2598:
La concorrenza parassitaria, ossia la sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali.
Il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato.
La sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti (dumping).
La sottrazione ad un concorrente di dipendenti o anche di collaboratori autonomi particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno dell’altrui azienda.
La violazione di segreti aziendali, cioè la rivelazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete.
La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni. La sanzione tipica dell’inibitoria (art. 2599) e quella, comune del risarcimento dei danni (art. 2600).
L’azione inibitoria è diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’illecito concorrenziale, ne inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli effetti della concorrenza sleale.
L’azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale e dall’esistenza di un danno patrimoniale attuale per la controparte.
Il concorrente leso potrà ottenere anche il risarcimento dei danni. La colpa del danneggiante si presume una volta accertato l’atto di concorrenza sleale.
Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza.
L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall’imprenditore o dagli imprenditori lesi. La legittimazione è riconosciuta anche alle associazioni professionali degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria, quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale.
Non sono invece menzionati né i singoli consumatori né le associazioni rappresentative dei loro interessi.
La disciplina della concorrenza sleale è oggi affiancata da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita.
Scopo dichiarato di tale disciplina è quello di tutelare non solo gli imprenditori concorrenti, ma anche i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari. È introdotto un controllo amministrativo contro la pubblicità ingannevole, successivamente esteso alla pubblicità comparativa, affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato istituita dalla legge antitrust.
I più importanti mezzi di pubblicità hanno infatti dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato.
Il codice di autodisciplina e le decisioni del Giurì sono tuttavia vincolanti, su base contrattuale, solo per i mezzi pubblicitari che hanno aderito all’autodisciplina e per gli operatori economici che degli stessi si avvalgono. Il sistema di autodisciplina no risolve perciò in modo compiuto o problemi di tutela dei consumatori.
Con il d. lgs. 74 del 1992 all’autodisciplina si affianca la disciplina legislativa.
Disciplina legislativa in tema di pubblicità ingannevole: enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole dandone una nozione particolarmente ampia.
È infatti ingannevole qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore le persone alle quali è rivolta e che possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero..ledere un concorrente. Sono dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità è ingannevole: caratteri dei nei, prezzo, ecc.
Ogni interessato può chiedere all’Autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita e che ne siano eliminati gli effetti.
L’intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare preventivamente il preesistente sistema di autodisciplina pubblicitaria.
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Dettagli appunto:
- Autore: Enrica Bianchi
- Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
- Facoltà: Giurisprudenza
- Esame: Diritto commerciale
- Titolo del libro: Diritto commerciale, 1. Diritto dell'impresa
- Autore del libro: Gian Franco Campobasso
- Editore: UTET
- Anno pubblicazione: 2008
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