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Educazione e improvvisazione a scuola


L’improvvisazione è una parola tabù nella scuola.
A teatro, invece, si improvvisa da sempre. Agli inizi dello scorso secolo l’improvvisazione diventa uno strumento per costruire il personaggio e viene usata nella formazione dell’attore; dagli anni ’60 nasce l’improvvisazione in senso moderno, diventando fine invece che mezzo. Gli improvvisatori teatrali non solo attori, ma anche autori e registi. L’improvvisatore è un regista istantaneo, che attua scelte rapide e aperte al rischio. La regia improvvisata è una attitudine all’osservazione rispettosa dei corpi, perché è da essi che nasce la storia. Questa è la stessa forma della regia pedagogica: essa sa che è solo attraverso l’osservazione-immersione nel sistema dei corpi e degli spazi che è possibile compiere una scelta operativa. L’improvvisazione legittima la possibilità di essere autentici all’interno della relazione educativa, il poter inventare soluzioni, non aver paura dei limiti. L’improvvisazione chiede all’attore e all’educatore di assumersi il rischio di vivere a partire dal proprio corpo.

La proposta teatrale ha conquistato la scuola, perché il teatro è una grande metafora dell’educazione. Luogo di azione e parola, il teatro si sperimenta attorno al tema dello spazio, fondamentale in pedagogia.
Il “teatro dell’oppresso” di Augusto Boal, brasiliano esiliato dalla dittatura militare per le sue attività sociali, suscitò interesse in Francia. La proposta era quella di un teatro come medium di cambiamento dell’essere umano attraverso l’analisi e la trasformazione della realtà nella quale agisce. È un teatro che sfrutta l’ambivalenza tra realtà e finzione intrinseca nella rappresentazione umana; rendendosi invisibile perché gli attori si mischiano con la gente (nelle strade, nelle scuole, nelle metropolitane). I giochi e gli esercizi di questo teatro si prestano ad essere utilizzati in ambito educativo, soprattutto in funzione della presa di coscienza delle dinamiche dei gruppi spesso inconsapevoli delle logiche di potere che gravano su essi. L’efficacia del teatro dell’oppresso sta nella capacità di generare un decentramento percettivo delle identità in coloro che entrano nel suo spazio.
Per il sociologo americano Goffman, in teatro il sé si trasforma in una immagine che ognuno deve cercare di far passare come sua.
Eugenio Barba propone quattro prototipi ideali di spettatori ai quali il regista (l’educatore) deve sempre rispondere per poter trasmettere il proprio messaggio:
1. Il bambino che vede le azioni alla lettera: non osserva ciò che si rappresenta ma ciò che si presenta. Non può essere incantato da allusioni, citazioni o astrazioni.
2. Chi pensa di non intendere il significato dello spettacolo: non padroneggia bene la lingua dello spettacolo ma si lascia contagiare dal suo livello espressivo, dall’energia degli attori, dallo spazio e dal tempo dell’azione. È colui che segue lo spettacolo cinestesicamente.
3. Chi si mostra informato di tutti i contenuti dello spettacolo: per lui lo spettacolo è uno sfondo su cui proiettare i suoi aspetti e le sue aspettative profonde
4. Colui che è sensibile verso a ciò che nessun altro dei precedenti sembra badare: guarda il valore di un dettaglio.

L’aula come palcoscenico dell’azione narrativa, come intreccio di linguaggi, come occasione per affrontare la frammentazione dei saperi. Nella globalità del suo porsi di fronte al processo educativo, la storia della mente dello studente rinvia a un corpo. I bisogni espressivi dei giovani non possono prescindere da esso e dai suoi codici. Laddove la parola non riesce ad arrivare, la presenza rimane nell’inflessione del tono della voce o nella scelta prossemica. Spesso le difficoltà di apprendimento nascono da una mancata risposta ai messaggi del corpo. Conoscenza di sé e dell’altro sono interdipendenti. Nelle relazioni adulte questo processo passa attraverso il linguaggio verbale, ma nel lavoro didattico con bambini e ragazzi c’è il bisogno di attivare linguaggi più coinvolgenti che diano alla parola lo spessore per renderla comunicativa. Oggi occorre ritrovare il modo di mettere in scena il corpo e la mente viventi, soggettivi.

Tratto da PEDAGOGIA DEL CORPO di Adriana Morganti
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