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L'autore di cinema come realizzatore





Un primo punto riguarda lo straordinario interesse dimostrato dagli autori citati, e dai loro contemporanei – Vuillermoz ad esempio –, per quello che oggi definiamo cinema non-fiction, una sorta di scoperta di un mondo mai visto prima, attraverso le immagini filmate.
Per un verso è evidente una volontà – difficile da non pensare come intenzione d’autore –, comune a tutti color oche fanno parte della prima avanguardia, di cambiare il cinema, di rinnovarlo, di liberarlo; d’altro canto, questa stessa volontà porta immediatamente a valorizzare un cinema in cui sembra non vi sia alcun posto per la figura d’autore, in cui la bellezza è quasi la bellezza del caso, al massimo filtrata attraverso il sentimento empatico dell’operatore.
In questa prospettiva, se c’è una posizione d’autore, essa si attua non in un progetto soggettivo, ma attraverso la messa in valore delle qualità specifiche del cinema, in particolare la capacità che gli è propria di farci vedere la realtà in un modo nuovo, oppure, con un leggero slittamento, di farci vedere una nuova realtà. Se esiste un’ipotesi autoriale essa riguarda la prassi, ossia il fare cinema: l’autore è più propriamente un agente, la cui attività specifica è quella di liberare il cinema, di realizzarne le potenzialità. Egli è dunque un realizzatore, nel senso letterale del termine. Un’idea di questo genere è pienamente confermata dalla prassi cinematografica vera e propria, ossia dai film di Delluc o Epstein, ma lo stesso può valere per Gance o L’Herbier. Ci troviamo di fronte, in questi casi, a qualcosa di assai diverso di un’opera: piuttosto un procedere per tentativi, con fughe in avanti e improvvisi arretramenti, sperimentazioni e episodi convenzionali, rimescolamenti e ossessioni.

Tratto da SEMIOTICA DEI MEDIA di Nicola Giuseppe Scelsi
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