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I musei etnografici


Molti musei etnografici d’Europa e America sono nati dai furti di oggetti sacri perpetrati ai danni delle popolazioni: nel peggiore dei casi l’unico fine era il lucro, nel migliore dei casi c’era il desiderio di conoscenza e la volontà di preservare dall’usura del tempo oggetti che sarebbero andati distrutti. I più noti sono il Museum of Mankind di Londra, il Quai Branly a Parigi o l’American Museum of Natural History a N.Y. I musei stessi possono diventare campo di ricerca per un antropologo: ogni percorso espositivo è un racconto in cui l’autore rivela il proprio pensiero, riflettendo su come siano gli occidentali a fare musei sugli altri, e non il contrario.
I musei di inizio ‘900 erano organizzati in modo da raffigurare le varie tappe dell’evoluzione umana, secondo le teorie dell’epoca. Gli oggetti esposti erano presentati come il frutto di artisti ingenui e naturali, e all’arte etnica si attribuiva una carica sessuale forte, unita al potere di raffigurare idee collettive che nascevano da pulsioni primitive. Mettendo in mostra solo l’arte tradizionale, si da l’idea che la primitività sia relegata nel passato, quando invece è stato proprio grazie a ciò che l’arte contemporanea ha avviato dei processi che l’hanno rigenerata. Tanto per i musei etnografici quanto per le esposizioni temporanee si pone un problema di fondo: quanto sono arte questi oggetti, e quanto è giusto esporre arte proveniente da altri posti, dove magari non è considerata da esposizione. La valorizzazione dell’arte primitiva consiste nel trasferire i manufatti in un contesto artistico, come se diventasse arte solo trasferendosi in Occidente.
Un oggetto etnografico diventa opera d’arte solo attraverso lo sguardo selezionatore dell’osservatore occidentale, e il valore di un’opera d’arte si basa sull’utilizzo di categorie predeterminate culturalmente. Lo studio dell’arte si incentra sulla vita e l’opera di individui che hanno un nome e sulla successione storica di distinti movimenti artistici. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, l’artista primitivo viene considerato anonimo, un individuo privo di individualità che rappresenta idee collettive, ispirate da forze al di fuori di lui: siccome non si conosce nulla di un autore, la sua opera viene considerata il prodotto di una cultura. Quando diciamo di un’opera che è un falso, presupponiamo che esista un originale autentico, ma questo è un concetto solo occidentale: può capitare che un artista faccia 3 maschere identiche per 3 ballerini diversi. Inoltre, "deportando" gli oggetti, spesso subiscono una de umanizzazione, vengono ridotti a merci, privati dei loro legami sociali: vengono fatti per un motivo, non per essere esposti. Altro problema è la non contestualizzazione degli oggetti: dal momento che ogni opera del genio umano è legata alla cultura che l’ha prodotta, ogni esposizione sarà fuori luogo, mentre invece, intendendo l’arte come un valore universale, l’oggetto può vivere una sua vita indipendentemente dal luogo in cui si trova. Esporre oggetti etnografici è un po’come tradurre un testo da una lingua straniera: non esiste un modo giusto, qualunque sia la scelta, sarà sempre il frutto di una interpretazione personale. Se si espone una maschera con molte informazioni, la si trasforma in un oggetto etnografico; lasciandola senza informazioni, la si trasforma in un’opera d’arte che parla da sola, da ammirare per il suo valore estetico e non per la sua funzione sociale.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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