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La transizione demografica

Come già accennato, gli elevati tassi di crescita oggi rilevabili in molti paesi sottosviluppati non dureranno per sempre. Ciò può essere confortato, pur con le dovute cautele, dall’osservazione del trend europeo nel corso degli ultimi due secoli. La popolazione del Vecchio Continente passava infatti da un regime secolare di relativa stabilità ad una fase di forte sviluppo demografico per mostrare successivamente, pur in termini assai differenti da quelli di partenza, un’ulteriore fase di scarsa crescita demografica. Questo passaggio da un regime demografico antico ad un regime demografico moderno, caratterizzato da una situazione caratterizzata da forti variabili nel tasso di mortalità ed ancor più in quello di natalità, ad una certa stazionarietà è normalmente chiamata transizione demografica. Bisogna specificare che la transizione demografica europea ha presentato caratteristiche che non sono confrontabili con una presunta transizione demografica dei paesi sottosviluppati. Se qualche analogia si può riscontrare questa riguarda l’abbattimento del tasso di mortalità, il conseguente aumento di quello di natalità e quindi un consistente incremento demografico, almeno sino ad un certo punto, ma il modello demografico europeo è stato concomitante con un particolare sviluppo economico a sua volta causa di determinati comportamenti demografici (come la forte riduzione della natalità). A partire dagli inizi del diciannovesimo secolo una serie di innovazioni in campo sanitario (vaccinazione contro le malattie epidemiche), igienico (sistemazione delle reti fognarie, diffusione dell’acqua per uso personale), alimentare o comunque relative al welfare, determinavano un sensibile abbassamento dell’indice di mortalità e specialmente di mortalità infantile. Conseguenza diretta, dopo un necessario lasso di tempo, un discreto aumento della natalità. Il divario tra i due indici, dapprima assai modesto, raggiungeva così livelli notevolmente elevati. Tradotto in termini numerici questo significava un fortissimo aumento della popolazione che quadruplicava nel corso di circa un secolo e mezzo, passando dai circa 150 milioni degli inizi dell’Ottocento ai 600 milioni della metà del secolo successivo. Se teniamo conto che all’interno dello stesso lasso di tempo si verificarono forti correnti migratorie dall’Europa verso altri continenti (e particolarmente verso le Americhe) quantificabili intorno ai 50/60 milioni di individui e se si considera che questi flussi erano costituiti da popolazione giovane, si può facilmente dedurre che tipo di incremento demografico il Vecchio Continente avesse vissuto. 
Tali vicende demografiche furono però accompagnate da uno sviluppo economico senza precedenti, fattore che determinava eccezionali rivolgimenti nelle strutture sociali e quindi in una lunga serie di modelli culturali. La conseguenza demografica più rilevante fu l’abbassamento dell’indice di natalità legato ad una serie di concause di ordine socioeconomico (urbanizzazione, costi sociali dell’individuo, inserimento delle donne nei sistemi economici produttivi) e demografici (generale invecchiamento della popolazione). 
Nei paesi in via di sviluppo quello che possiamo individuare come primo momento o fase di transizione è collocabile introno alla metà del secolo scorso, quando la tecnologia, specialmente in campo sanitario, dei paesi sviluppati in qualche misura aveva effetti sull’indice di mortalità. Questo fatto determinava ovviamente un conseguente aumento della natalità, al quale non ha fatto però seguito una modificazione di comportamenti demografici giustificata da spinte di ordine economico. In altre parole la popolazione di questi paesi registrava forti tassi di natalità legati prima di tutto ad un generale abbassamento della mortalità specialmente infantile, ma non raggiungeva livelli economici tali da provocare incidenze sulle nascite. L’abbassamento dell’indice di fertilità infatti pare piuttosto imputabile, almeno in molti casi, a politiche di pianificazione governative ed a interventi di controllo internazionale, piuttosto che da ragioni socioeconomiche intrinseche alla stessa popolazione. 
I demografi, pur con talune differenze, sono soliti ripartire la transizione in quattro fasi di cui la prima e l’ultima rappresentano il regime iniziale e quello finale, detti stazionari o di crescita demografica scarsa, la seconda e la terza scandiscono invece in maniera quasi simmetrica il momento espansivo e quello regressivo, ovvero di passaggio da uno stadio demografico di aumento ad uno stadio demografico di diminuzione. 

Tratto da GEOGRAFIA POLITICA ED ECONOMICA di Filippo Amelotti
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