La sicurezza dell'impero ateniese
Le pagine dedicate alle cause della guerra sono dunque più comprensibili alla luce di quanto detto fino ad ora. In particolare, possiamo scomporre la domanda Perché la guerra? in 3 sotto-domande:
1. Perché gli Ateniesi hanno costruito l’impero?
2. Perché Sparta e gli altri Stati sono ostili ad Atene?
3. Perché Atene preferisce la guerra piuttosto che accettare l’ultimatum spartano?
Ebbene, la risposta a tutte e 3 queste domande è sempre la stessa: PER MOTIVI DI SICUREZZA:
1. nelle Storie viene spesso ripetuto che, dopo la sconfitta dell’impero persiano, Atene per prima cosa si fortifica e come questo, fin da subito, turbi gli Spartani e i loro alleati (I.90) ⇒ una misura difensiva diventa il primo passo dell’espansione territoriale dei decenni successivi. Successivamente, le città dell’Asia Minore passano dalla parte di Atene, proclamandola alla propria guida, ma, in pochi decenni, l’alleanza diventa una tirannia.
2. in ben 3 punti, nel Libro I, Tucidide dice molto chiaramente che Sparta ha paura della potenza ateniese, che minaccia di ridurre ad un ruolo secondario la politica di Sparta: Sono convinto che la motivazione più autentica fosse la formidabile potenza conseguita da Atene e l’apprensione che ne derivava per Sparta (I.23); La votazione spartana sui patti da considerarsi sciolti e sulla guerra da intraprendere, non è scaturita dall’opera di convinzione degli alleati, quanto dall’apprensione suscitata dalla potenza ateniese, in costante sviluppo (I.88); Gli Spartani avvertivano questa crescita pericolosa della potenza ateniese: perfino la sfera d’influenza e d’alleanza tradizionalmente legata a Sparta non era immune dai suoi attacchi (I.118) ⇒ Sparta reagisce per difendere la propria sicurezza.
3. nel suo primo discorso (Libro I), Pericle afferma che l’alternativa è tra l’impero – con tutti i rischi che esso comporta – e la sottomissione = la perdita dell’autonomia ⇒ Atene preferisce la guerra per difendere la propria sicurezza, proprio come Sparta.
Inoltre, questa spiegazione aiuta a spiegare il comportamento degli Stati anche in alcuni episodi durante la guerra. Ad esempio, una volta scoppiata la guerra i neutrali adottano una posizione filo-spartana: il generale favore degli uomini propendeva più verso Sparta, soprattutto in quanto proclamava che avrebbe reso l’indipendenza alla Grecia. Così acuto odio Atene ispirava ai più: chi voleva sciogliersi dal suo dominio, chi temeva di dovervi soggiacere (II.8) ⇒ i neutrali temono Atene e temono di dover soggiacere al suo dominio ⇒ si muovono su posizioni filo-spartane per motivi di sicurezza.
Anche gli alleati di Atene si comportano in un modo spiegabile attraverso questo bisogno di sicurezza. Ad esempio, la defezione di Mitilene viene giustificata dal suo timore di essere lasciata per ultima. Essi ricordano come i rapporti con Atene si siano guastati nel corso del tempo, tanto che si era arrivati al punto che la parte più audace avrebbe violato i patti per primo (III.12, Sta a loro aggredirci in qualsiasi istante? Ci sia dunque concesso predisporre una difesa) ⇒ la defezione è una strategia difensiva (= per non essere distrutti in futuro), ma anche una strategia offensiva (= distruggere preventivamente il nemico).
Anche le reazioni alla pace di Nicia sono comprensibili alla luce di questa generalizzata ricerca di sicurezza. In particolare, possiamo analizzare le reazioni all’interno del Peloponneso, dove questa clausola (= il fatto che Atene e Sparta potessero rivedere il trattato a loro piacimento, senza interpellare i rispettivi alleati) rendeva inquieto il Peloponneso, e gli incuteva il sospetto che Sparta trafficasse con Atene, spinta da ambizioni dispotiche sull’intero paese (V.29) ⇒ gli alleati, sia di Sparta sia di Atene, temono per la propria autonomia ⇒ per la propria sicurezza.
Un altro esempio è il discorso di Ermocrate a Camarina, per convincere la città ad allearsi dalla parte di Siracusa contro Atene: egli afferma che bisogna evitare che Atene li sottometta uno dopo l’altro (VI.77, Intendiamo tardare, e cadere, città dopo città, nella rete ateniese?). Ad Ermocrate rispose subito dopo Eufemo, affermando che il vero nemico è Siracusa ⇒ bisogna tener d’occhio soprattutto Siracusa. Poiché essa brama di dominarvi e vuol stringervi in una lega, sollevando sospetti nei nostri confronti (VI.85).
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Tutto il dibattito a Camarina si concentra su chi rappresenti la maggiore minaccia ⇒ il tutto verte su un bisogno di sicurezza, che si estende anche ad Atene, in quanto motivazione principale alle base dell’azione ateniese.
Come visto in De Romilly, molti critici insistono soprattutto sull’ambizione di Atene, il che renderebbe l’imperialismo ateniese un caso unico, un’eccezione, pertanto non generalizzabile. In ogni caso, comunque, se vogliamo definire un minimo comune denominatore tra le esigenze della grande potenza egemone e quelle degli altri Stati, di certo è lo stesso affermato fino ad ora = l’esigenza di sicurezza. Del resto, non dobbiamo dimenticare che Tucidide parla della politica estera non solo ateniese, ma anche degli altri Stati: da qui possiamo trovare alcuni punti di contatto, dei quali la volontà di potenza e l’ambizione ateniese non sono che una particolare manifestazione.
Finora abbiamo analizzato la nascita dell’impero in chiave di sicurezza. Un’analisi simile può essere fatta sul mantenimento dell’impero. Nel discorso agli Spartani in cui giustificano la nascita del loro impero, gli Ateniesi giustificano anche la loro politica di repressione attuata contro chi defezionava, ricordando agli Spartani che non avreste adottato meno rigide misure con gli alleati e vi sareste visti costretti o a governare con sistemi ferrei, o a rischiare voi stessi di perder l’impero (I.76) ⇒ una volta costruito un impero, l’inevitabile alternativa – senza scelta – è mantenerlo e comandare con la forza, oppure correre un pericolo. Eufemo a Camarina afferma più o meno lo stesso concetto, chiedendo Si può criticare qualcuno se s’ingegna per apprestare all’incolumità propria un fidato riparo? Anche ora, preoccupandoci della nostra sicurezza, ci presentiamo in questo paese e ci rendiamo conto che i nostri interessi collimano con i vostri… Abbiamo asserito che la nostra egemonia in Grecia è una misura preventiva (VI.83).
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La sicurezza porta a creare e conservare l’impero.
Come osservato in precedenza da De Romilly, alcuni critici tendono a vedere l’impero di Pericle molto più sensibile a questioni di giustizia e morale, sia più consapevole della legittimità del suo dominio (in virtù del ruolo giocato contro i Persiani), rispetto all’impero dei demagoghi (Cleone principalmente) dopo di lui. Tra le molle dell’espansionismo ateniese, Pericle annovera anche la ricerca della gloria (basti pensare all’orazione funebre di Pericle o ai capitoli I.76-77, in cui gli Ateniesi si vantano di aver usato il loro potere con moderazione). Dopo Pericle, non c’è alcuna traccia di questi argomenti.
Eppure tutti ammettono e sono consapevoli che l’impero ateniese fa paura, il che dovrebbe portare a non esagerare le affermazioni di moderazione sopra citate. A conferma, basta ricordare che Pericle afferma, per prima cosa, che l’impero è necessario: la gloria è una componente secondaria della sua concezione imperialistica, che da sola non può giustificare né la costruzione né il mantenimento dell’impero né tanto meno la guerra contro Sparta. Con gli stessi toni, dopo la seconda invasione dell’Attica, ricorda che si tratta in realtà di perdita dell’impero e di esporvi all’immenso odio che avete sollevato dominando (II.63) ⇒ abbandonare l’impero sarebbe rischioso per motivi di natura sia militare (Atene dovrebbe far fronte a nemici vicini – Sparta – e a nemici lontani – la Persia) sia economica (il commercio ateniese ne risentirebbe, in particolare l’approvvigionamento di grano). E questo vale con o senza Pericle.
Secondo alcuni storici, quando gli Ateniesi parlano di sicurezza, in realtà lo fanno con un pretesto (si pensi ad Eufemo a Camarina). Questa critica è però poco convincente, dal momento che gli Ateniesi nel loro discorso più schietto – il dialogo con i Meli – affermano che con la vostra conquista, renderete più solida la nostra posizione (= ci fornireste la sicurezza), considerando il fatto che non riuscirete mai voi, forza isolana non certo tra le più potenti, a soverchiare i dominatori del mare (V.97). Per il fatto di essere isolani, i Meli cadono sotto la sfera di influenza ateniese, perché gli isolani, in uno scatto folle e senza speranza, potrebbero coinvolgerci in una caduta verso ben prevedibili abissi (V.99).
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Molto direttamente, gli Ateniesi stanno dicendo che la conquista di Melo è necessaria per la sicurezza del loro impero.
Secondo L. Canfora, il dialogo che Tucidide immagina svolgersi tra i legati dell’esercito invasore ateniese ed i magistrati di Melo è un dialogo fittizio incentrato sul tema della violazione del neutrale.
L’antecedente di Temistocle ad Andro, e più in generale la sua pressione sugli isolani, sembrano prefigurare la situazione poi usuale durante l’impero = la vessazione degli alleati per il tributo ed il “rapporto speciale” con gli isolani.
Tucidide sembra sviluppare, nel dialogo melio-ateniese, il motivo che è alla base del dialogo tra Temistocle e gli Andri: da una parte l’offerta di 2 alternative, entrambe di sottomissione, dall’altra il rifiuto di adattarsi alla logica dei rapporti di forza.
Un dialogo che prende spunto da un episodio della vicenda contemporanea, ma ne considera soprattutto le implicazioni etiche e politiche generali: un dialogo di filosofia della politica, in cui il concreto caso di Melo diventa un pretesto, una situazione-simbolo, e viene perciò drasticamente semplificato, così come semplificato – anzi deformato – è il contesto fattuale: e ciò al fine di approdare alla situazione-tipo desiderata = quella della grande potenza che impone la sottomissione ad un piccolo Stato neutrale, nella sostanziale indifferenza dell’altra grande potenza “nemica” e rivale.
Tucidide nel dialogo appare essenzialmente dominato dal problema della logica di potenza e della sua possibile giustificazione: un problema che aveva costituito uno dei terreni di riflessione più intensa per il pensiero sofistico, approdato alla radicale distinzione tra legge (convenzionale) e natura (unica vera).
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Tucidide “mette alla prova” questo modo di pensare e di argomentare in una concreta contingenza storica: nel caso, appunto, della repressione di Melo.
Sebbene faccia in modo che ciascun dialogante si esprima “al meglio”, ogni volta, con i più efficaci e persuasivi argomenti – un gioco intellettuale tipico della sofistica – non resta tuttavia neutrale. Un primo e fondamentale segno della “presa di posizione” di Tucidide è nell’aver rimosso ogni altro aspetto giuridico della disputa tra Atene e Melo, e nell’aver attribuito ad Atene come unici, “veri” e dichiarati moventi dell’attacco quelli riconducibili appunto alla volontà di potenza, alla volontà di affermare un dominio sotto la spinta di una logica inerente al dominio. È qui la prima e fondamentale forzatura: Atene si è mossa contro Melo per esplicare compiutamente il proprio dominio, un dominio che non cerca se non occasionalmente e propagandisticamente motivazioni e giustificazioni, ma che in realtà si manifesta per una sua intima logica che finisce col rendere necessari (⇒ inevitabili e dunque non giudicabili col metro morale del giusto/ingiusto) determinati comportamenti.
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Nel dialogo melio-ateniese, Tucidide ha voluto spiegare – non certo giustificare – la politica imperiale degli Ateniesi, provando a ragionare dal loro punto di vista, un punto di vista che è però lo stesso Tucidide a coniare ⇒ il ruolo degli Ateniesi nel dialogo è analogo a quello dell’oligarca intelligente = essi si esprimono alla luce di una logica condannabile, ma sono comunque coerenti con essa, e quello che dicono non riguarda soltanto Melo, ma vale più in generale per l’impero. L’impero c’è e per funzionare deve, tra l’altro, eliminare lo scandalo della neutralità in un’area sotto stretto controllo ateniese (= le isole), anzi, deve esercitare una repressione esemplare che tenga in rispetto anche gli altri isolani. Gli Ateniesi sanno che, in prospettiva, al termine di un tale percorso ci può essere la catastrofe (V.91, i soggetti piuttosto devono incutere l’angoscia quando, se mai, con spontaneo slancio rovesciano il potere di chi li tiene a freno), ma non possono tirarsi indietro, non possono abdicare oggi dal vostro potere, come crudamente si esprime Pericle (II.63), anche se sanno bene che il vostro impero, di fatto, è una tirannide (II.63).
Ecco dunque Tucidide rappresentare nel dialogo il vero pensiero degli Ateniesi, le vere ragioni della loro condotta: in realtà la sua concezione dell’impero. Tucidide non ha dubbi sulla natura immorale e prevaricatrice dell’impero: ha però la lucidità di studiarlo mettendosi nell’ottica dell’impero. Certo, Pericle è ammirato da Tucidide come lucido conoscitore e all’occorrenza schietto esegeta, dinanzi all’assemblea, delle ragioni vere ancorché sgradevoli dell’impero. È anche ammirato perché capace di concepire la migliore strategia possibile per difendere e tenere il più a lungo in vita l’impero. MA Tucidide non si identifica col suo pensiero, e tanto meno con quello dei legati ateniesi posti al cospetto dei magistrati di Melo.
In questa ottica, possiamo spiegare anche la spedizione in Sicilia. Tucidide afferma che il vero motivo era che gli Ateniesi volevano conquistare tutta l’isola. Questo tuttavia non deve essere letto in una logica esclusivamente di dominio fine a se stesso.
Infatti Segesta, quando chiede l’aiuto ateniese, insinua il sospetto secondo cui i Siracusani si decidessero a fornire al Peloponneso il rinforzo di una macchina bellica poderosa (VI.6): non si sa quanto gli Ateniesi abbiano dato peso a questa minaccia, ma è comunque significativo che Segesta l’abbia avanzato come elemento di convincimento degli ateniesi.
Un secondo motivo va ricercato nel discorso di Alcibiade: egli porta alle estreme conseguenza quella stessa logica indicata da Pericle, da Cleone e dagli ambasciatori ateniesi a Melo = una logica ineluttabile che, una volta entrata in azione, non può più essere fermata ⇒ anche per Alcibiade, l’espansione è condizione di sicurezza, e una volta instaurata l’egemonia, non ci è concesso di misurare un anticipato bilancio dei confini entro cui intendiamo stringere il nostro dominio, poiché è sempre vivo il pericolo di cader noi sotto il potere di altri, se non li precorriamo piegandoli (V.18).
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