Quali sono le difficoltà per gli Stati minori di acquisire armi nucleari?
Quali sono le difficoltà per gli Stati minori di acquisire armi nucleari?
− La prima difficoltà riguarda il rischio di un attacco preventivo = i nuovi potenziali Stati nucleari potrebbero indurre le vecchie potenze nucleari ad attuare un attacco preventivo distruggendo i loro “embrioni nucleari” prima che le loro capacità diventino reali. Il primo caso di attacco preventivo di questi tipo è quello israeliano contro il reattore iracheno nel 1981.
Per meglio comprendere questo problema, Waltz distingue 2 fasi nello sviluppo di forze nucleari:
1. il paese si trova nella fase iniziale dello sviluppo ⇒ è incapace di produrre effettivamente armi nucleari;
2. il paese si trova in una fase avanzata del programma nucleare ⇒ non è possibile stabilire con precisione se esso sia o no effettivamente in possesso di armi nucleari.
Detto questo, è ovvio che un attacco preventivo sarà più efficace nella prima fase, dal momento che l’attaccante non dovrà temere rappresaglie nucleari da parte della vittima. TUTTAVIA, l’attaccante potrebbe condurre un attacco non così distruttivo, lasciando alla vittima un minimo di capacità che le permetteranno di continuare o di ricominciare in futuro il suo programma nucleare.
È questa la difficoltà che Israele ha in effetti incontrato nel 1981: pur avendo dimostrato l’effettiva realtà degli attacchi preventivi, l’attacco contro il reattore iracheno ha però ottenuto l’effetto contrario da quello atteso, dal momento che ha accelerato la determinazione dei paesi arabi a munirsi di bombe nucleari.
Molti temono che il rischio di attacchi preventivi sia particolarmente diffuso tra gli Stati nucleari minori: essi, infatti, piuttosto di correre il rischio di perdere quelle poche armi nucleari che hanno, sarebbe infatti inclini ad usarle. Ma, afferma Waltz, questo timore può essere notevolmente ridimensionato se si pensa che oggi le armi nucleari sono anche molto piccole ⇒ possono essere nascoste e spostate piuttosto facilmente.
− Per essere efficaci, le forze deterrenti – siano essere grandi o piccole – devono rispettare 3 condizioni:
1. almeno una parte delle forzi nucleari di uno Stato deve sembrare in grado di resistere ad un attacco e lanciarne uno;
2. la sopravvivenza di tali forze non richiede il loro immediato impiego in risposta nel caso di un falso allarme;
3. il comando e il controllo delle armi nucleari deve essere costante ⇒ non devono verificarsi casi di uso accidentale o non autorizzato di tali armamenti.
Una volta rispettati questi criteri, uno Stato minore sarà in grado di opporre una valida deterrenza ad un altro Stato alla pari. MA HA CAPACITÀ DETERRENTI ANCHE CONTRO UNA GRANDE POTENZA? Waltz riporta a riguardo il caso della Cina, che fu effettivamente in grado di rallentare l’Unione Sovietica. Ma, per avere tale successo, non era necessario che la Cina avesse effettivamente tale capacità, bastava averlo almeno in apparenza.
E qui si collega la questione della credibilità.
− La credibilità della deterrenza di un piccolo Stato ha 2 aspetti:
- aspetto fisico = il paese è in effetti in grado di costruire e proteggere forze deterrenti?
- aspetto psicologico = una minaccia deterrente fisicamente fattibile è anche psicologicamente plausibile?
Gran parte della letteratura sulla deterrenza enfatizza proprio la questione della sua credibilità. Una soluzione che è stata avanzata a tale problema è quella avanzata da T. Schelling, che ha formulato il concetto di “minaccia che lascia qualcosa al caso” = nessuno può sapere con sicurezza se l’altro Stato non farà rappresaglia in caso di attacco, neanche qualora tale decisione sarebbe puramente irrazionale.
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In un mondo nucleare, è indispensabile l’incertezza, non la certezza, della risposta per rendere credibile la deterrenza, dato che, in caso di rappresaglia, uno Stato potrebbe perdere tutto ⇒ se possiede la capacità di secondo colpo, uno Stato non deve preoccuparsi di chi è il più forte, dal momento che le forze di secondo colpo devono essere valutate in termini assoluti, non relativi.
− Un’altra problematica relativa alla deterrenza riguarda la sua estensione. Ne derivano quindi alcune questioni:
- il potenziale attaccante deve aver chiaro cosa costituisce per il deterrente un “interesse vitale”;
- nell’area che il deterrente intende coprire deve esserci un certo grado di stabilità politica.
Molti temono che i piccoli Stati nucleari saranno i primi a rompere il tabù nucleare, usando irresponsabilmente il loro arsenale. Ma Waltz ritiene più plausibile la situazione opposta = gli Stati deboli riescono a costruire la loro credibilità facilmente, dal momento che non hanno intenzione di attuare una deterrenza estesa. L’eventuale uso di armi nucleari, poi, avverrebbe solo in caso di questioni di sopravvivenza, il che non può essere definito “uso irresponsabile”, ma, anzi, è decisamente responsabile.
Un ulteriore timore, forse il più comune, circa la diffusione delle armi nucleari, è che i nuovi membri del club nucleare possano ritrovarsi in una situazione come quella vissuta da USA ed URSS durante la Guerra Fredda = una corsa agli armamenti, che vede il continuo accumulo di armi nucleari e fianco di un arsenale convenzionale sempre più grande.
Ma ancora una volta, Waltz ritiene che questo timore possa, a ben guardare, essere rimarginato. Infatti, in un mondo in cui le potenze nucleari sono molte, è difficile stabilire realmente chi è in testa, e chi è indietro. La logica stessa della deterrenza elimina la possibilità che si verifichi una corse agli armamenti. Infatti, una volta raggiunta almeno la capacità di secondo colpo, è inutile sprecare risorse per costruire ulteriori armamenti (sia nucleari che convenzionali) ogni volta che l’avversario spende per aumentare i propri. Sarebbe una spesa pressoché inutile e gli Stati minori dovrebbero capire questa logica meglio delle 2 superpotenze durante la Guerra Fredda, dal momento che le loro condizioni economiche non sono tanto ottimali.
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Di certo, dunque, le armi nucleari hanno contribuito a mantenere una certa stabilità internazionale durante la Guerra Fredda: la pace sembra dunque essere diventata un privilegio solo di chi possiede armamenti nucleari. E gli Stati minori hanno indubbiamente osservato questo fatto ⇒ ecco perché si è diffusa la tendenza tra gli Stati minori che si sentono minacciati di avere un proprio arsenale nucleare ⇒ ovviamente, gli Stati nucleari “vecchi” hanno reagito a questa tendenza tentando, inutilmente, di bloccarne la diffusione.
In ogni caso, però, Waltz conclude sostenendo che, secondo lui, una diffusione graduale delle armi nucleari è decisamente la situazione migliore rispetto ad una diffusione rapida o alla non diffusione. L’alternativa, infatti, sarebbe peggiore: infatti, restando in un mondo convenzionale, il rischio di guerra sarebbe decisamente maggiore, dal momento che il dilemma della sicurezza spingerebbe gli Stati minori che si sentono in pericolo ad innescare corse agli armamenti che possono conflagrare in una guerra. Viceversa, le armi nucleari rendono meno probabile questa situazione.
In risposta al saggio di Waltz, S. D. Sagan presenta un’analisi decisamente più pessimista circa lo scenario della diffusione delle armi nucleari.
I punti presentati da Sagan sono fondamentalmente 2:
1. le organizzazioni militari producono comportamenti che hanno un’alta probabilità di sfociare nel fallimento della deterrenza o in una guerra, voluta o accidentale che sia. Alla teoria della deterrenza razionale presentata da Waltz, Sagan oppone la teoria delle organizzazioni, i cui assunti principali sono così riassumibili:
a. le grandi organizzazioni funzionano entro un campo ristretto di razionalità = esse utilizzano dei meccanismi di semplificazione per meglio comprendere e gestire il mondo esterno, il che le porta a sviluppare delle azioni di routine, procedure operative standardizzate, basate spesso su esperienze passate e limitate ad un particolare campo di ricerca, e non decisioni prese e ragionate singolarmente di volta in volta;
b. le organizzazioni complesse spesso hanno molteplici obiettivi, spesso in conflitto tra loro, la cui scelta spesso si basa sugli interessi di particolari gruppi o autorità che dirigono l’organizzazione stessa.
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Adottando un’analisi “organizzativa” dunque, Sagan giunge a vedere sotto un’altra luce le 3 condizioni proposte da Waltz per la validità della deterrenza razionale:
1. guerra preventiva: secondo Sagan, i leader militari sono più inclini di quelli civili ad intraprendere un attacco preventivo contro le strutture nucleari del potenziale nemico, per i seguenti motivi:
− i militari sono più inclini del resto della popolazione a vedere la guerra come probabile nel breve periodo ed inevitabile nel lungo periodo;
− i militari tendono a preferire la dottrina dell’offensiva rispetto a quella della difesa, perché permette loro di creare le condizioni migliori per attuare i loro piani operativi;
− i militari tendono a progettare solo piani immediati ⇒ non tengono conto delle conseguenze e dei problemi di gestione del mondo post-bellico;
− i militari tendono a “concentrarsi sul loro lavoro” = dal momento che la gestione del mondo post-bellico è compito dei politici, essi tendono a mantenere una visione di breve periodo, incuranti delle conseguenze politiche e diplomatiche che una attacco preventivo potrebbe avere.
2. capacità di secondo colpo: secondo Sagan, le organizzazioni militari potrebbero benissimo scegliere di non sviluppare un arsenale militare invulnerabile, per i seguenti motivi:
− le burocrazie militari sono in genere interessate ad avere sempre più risorse ⇒ esse sono portate ad allargare il loro arsenale nucleare, ma siccome svilupparlo sarebbe molto costoso, si potrebbe verificare una situazione in cui aumenta il numero di armi disponibili, ma non necessariamente quelle invulnerabili;
− se i loro piani operativi non prevedono lo sviluppo di un arsenale nucleare invulnerabile ⇒ i militari non hanno incentivi a svilupparli.
3. uso accidentale o non autorizzato: se le organizzazioni fossero altamente razionali, esse adotterebbero 3 strategie per gestire e controllare al meglio le loro tecnologie, evitando così il rischio di incidenti:
1. costruire sistemi molto articolati con numerosi dispositivi di sicurezza
2. usare tecniche di prova per risolvere i problemi non appena essi emergono
3. sviluppare una “cultura della serietà” tra i membri dell’organizzazione.
MA, dato che stiamo assumendo che le organizzazioni siano attori solo limitatamente razionali, Sagan propone a questo punto la teoria dei normali incidenti di C. Perrow, secondo la quale ognuna delle 3 strategie risulta particolarmente problematica:
1. la notevole articolazione dei sistemi li rende al tempo stesso complessi e poco chiari, aumentando il rischio di errori
2. i leader delle organizzazioni tendono ad assumere operatori di basso livello pur di non cambiare le loro procedure
3. un’eccessiva socializzazione può mettere a rischio la serietà stessa dell’organizzazione, dal momento che potrebbe incoraggiare comportamenti di eccessivo attaccamento all’organizzazione stessa.
2. i futuri Stati nucleari saranno privi dei meccanismi civili di controllo ⇒ diversamente da quanto affermato da Waltz, Sagan ritiene che i nuovi Stati nucleari dovranno affrontare difficoltà ben più gravi di quelle incontrate da USA e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Questo perché:
a. alcune potenze nucleari emergenti mancano delle risorse organizzative e finanziarie necessarie per procurarsi dispositivi di sicurezza adeguati;
b. la natura covert della proliferazione nucleare contemporanea aggrava ulteriormente i problemi legati alla sicurezza degli arsenali. Israele, India, Sudafrica, Pakistan, Nord Corea: tutti questi paesi hanno sviluppato i loro programmi nucleari in segreto ⇒ la segretezza di questi programmi porta a temere che non ci siano le risorse per sviluppare adeguati dispositivi di sicurezza o di condurre i necessari test di verifica;
c. nelle società in cui i rapporti tra civili e militari sono altalenanti, il rischio di incidenti è più alto, dato che, preoccupati a mantenere un elevato grado di preparazione, gli ufficiali militari saranno meno preoccupati dei civili alle questioni legate alla sicurezza. Il Pakistan rappresenta l’esempio più lampante di questa situazione;
d. dato che le nuove potenze nucleari tendono a sorgere in coppie di vicini rivali (Russia e Ucraina, India e Pakistan, le 2 Coree) il margine di errore di valutazione è notevolmente ridotto rispetto a quello della Guerra Fredda;
e. un grave pericolo è rappresentato dagli Stati che si sono ritrovati nuclearizzati da un giorno all’altro, senza passare attraverso un graduale processo di ricerca, studio e test. È questo il caso dell’Ucraina una volta dissolta l’Unione Sovietica;
f. anche il rischio di detonazioni nucleari in caso di disordini interni, rifiutato da Waltz, è per Sagan una possibile realtà, soprattutto se si pensa che disordini civili possono spingere i militari a promuovere trasporto, esercitazioni e test nucleari in condizioni di scarsa sicurezza.
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In base alla teoria delle organizzazioni, Sagan conclude che gli Stati Uniti, oggi, fanno molto bene a mantenere una politica di non proliferazione del nucleare, dato che un mondo più nuclearizzato sarebbe un vero e proprio disastro.
Inoltre, dall’analisi di Sagan, si potrebbe affermare, a prima vista, che, data comunque la presenza di nuovi Stati nucleari, gli Stati Uniti sarebbero portati a collaborare con loro, condividendo informazioni e risorse, in modo da ridurre i rischi della proliferazione. TUTTAVIA, un’analisi più approfondita porta all’esito, ben più negativo, che tale cooperazione non si verificherà, per timore di rendere vulnerabile il loro arsenale.
La superiorità americana oggi è senza precedenti: nella storia nessuna altra potenza ha raggiunto un tale formidabile livello di potere, nella realistica assenza di effettivi competitori. Le campagne aeree in Kosovo hanno intensificato la percezione generale di un’egemonia americana incontrollata, tanto che alcuni diplomatici europei parlano di “iperpotenza” americana. Come abbiamo già potuto vedere, molte teorie delle relazioni internazionali avanzano ipotesi anche molto diverse circa il carattere e la longevità dell’ordine mondiale costruito da tale straordinaria concentrazione di potere. Abbiamo visto che realisti come Waltz affermano, in base alla teoria dell’equilibrio di potenza, che l’attuale ordine mondiale è estremamente instabile ⇒ la resistenza al dominio americano comincia già a farsi vedere, ed è destinata a crescere.
Eppure, replica G. J. Ikenberry, è curioso notare che le maggiori potenze non hanno ancora reagito come prescritto dalla teoria dell’equilibrio.
Considerando che sia la NATO sia l’alleanza USA-Giappone vengono continuamente riaffermate e rinnovate, potremmo concludere che in realtà la vera preoccupazione dei paesi europei ed asiatici non riguarda come resistere alla superpotenza americana, ma piuttosto a come prevenire il suo ritiro, tanto che G. Lundestad ha parlato di “impero su invito” nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Perché?
Per alcuni realisti, come Waltz, è solo questione di tempo: la politica estera di uno Stato unipolare è decisamente pericolosa per tutti gli altri ⇒ è inevitabile che questi, prima o poi, reagiscano.
La teoria realista (e neorealista) offre 2 immagini dell’ordine che può assumere la politica mondiale:
− equilibrio di potenza: secondo questa teoria, l’ordine è il risultato di un continuo processo di bilanciamento e aggiustamento tra gli Stati in condizioni di anarchia. Poiché la sicurezza (= sopravvivenza) è l’obiettivo fondamentale degli Stati, essi saranno particolarmente sensibili alla loro posizione relativa di potere ⇒ gli Stati deboli opporranno resistenza e cercheranno di controbilanciare lo Stato predominanante.
− egemonia: l’ordine è creato e mantenuto da uno Stato egemonico che usa il suo potere per organizzare l’intera rete di relazioni tra gli Stati. La sua superiorità gli permette di produrre incentivi – sia positivi sia negativi – tali da portare gli altri Stati ad accettare l’ordine egemonico loro imposto. Col passare del tempo, la distribuzione del potere cambia, portando alla rottura del sistema e a conflitti, a guerre egemoniche e ad un’eventuale nuovo ordine mondiale che rifletta la nuova distribuzione di potere.
L’ordine egemonico può essere costruito sia in maniera forte, attraverso il dominio coercitivo dei più deboli da parte del più forte, sia in maniera più benevola, attraverso rapporti reciproci, consensuali ed istituzionalizzati.
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Si possono distinguere 3 possibili meccanismi per il mantenimento dell’ordine egemonico:
1. dominio coercitivo = la distribuzione di potere è tale da garantire capacità insufficienti agli Stati subordinati per poter sfidare concretamente lo Stato dominante ⇒ ordine imperiale informale
2. minima convergenza di interessi = lo Stato dominante fornisce alcuni servizi agli Stati subordinati, i quali vedono tali servizi come sufficientemente utili a trattenerli dal formare una coalizione controbilanciante. Ad esempio: l’impegno militare americano in Europa e in Asia è utile agli Stati di queste regioni a risolvere i loro dilemmi della sicurezza regionali ⇒ la domanda per l’egemonia americana è molto alta
3. istituzionalizzazione = l’ordine egemonico si sviluppa attraverso alcune istituzioni che ne garantiscono il consenso reciproco e processi di interazione politica ⇒ il carattere benigno e limitato della potenza egemonia istituzionalizzata riduce gli incentivi per gli Stati deboli a controbilanciare l’egemonie ⇒ egemonia liberale.
Sebbene Waltz riconosca che, in certi casi, l’egemonia possa impedire il formarsi dell’equilibrio (ad esempio, l’egemonia americana in Europa ha impedito che l’equilibrio di potenza si formasse sul vecchio continente), ciò non toglie che l’ordine unipolare sia comunque instabile, e destinato a crollare. Le cause identificate per il crollo possono essere riassunte così:
− lo Stato egemone si troverà inevitabilmente coinvolto in troppi campi, il che, nel lungo periodo, lo indebolirà. È quanto affermato da P. Kennedy, secondo il quale gli Stati Uniti seguiranno la strada di tutte le altre potenze = cadranno.
Potrebbe però succedere anche che siano gli Stati Uniti stessi a decidere di ritirarsi. Questo ritiro potrebbe verificarsi sia nella forma di ritiro delle truppe e abbandono del proprio impegno in Europa e in Asia, sia nella forma di ritiro dalle istituzioni multilaterali internazionali, come il FMI o il WTO. In ogni caso, il ritiro potrebbe portare alla frantumazione delle alleanze di sicurezza esistenti e al ritorno di un sistema multipolare in cui vige l’equilibrio di potenza;
− a causa dell’anarchia, anche se lo Stato egemone agisce con moderazione, gli altri Stati comunque temeranno una simile concentrazione di potere.
Invece, secondo Ikenberry, oggi la diffusione delle armi nucleari, la diffusione del capitalismo e delle democrazia e nuovi aspetti dell’egemonia americana hanno complicato la logica dell’equilibrio di potenza, rendendolo molto meno probabile. L’autore arriva a questa conclusione ponendosi fondamentalmente 3 domande:
1. il potere americano è diverso e meno minaccioso per gli altri Stati rispetto a quanto necessario per far scattare l’equilibrio?
Partendo dalla teoria dell’equilibrio della minaccia di S. Walt, Ikenberry ritiene che gli Stati Uniti non siano così minacciosi agli occhi degli altri Stati, il che diminuisce il rischio di un ritorno all’equilibrio di potenza. Infatti, gli Stati Uniti non presentano tutte le componenti della minaccia descritte da Walt:
− la loro incredibile concentrazione di potere è innegabile, ma è attenuata dagli altri elementi:
− la prossimità geografica: la posizione isolata dell’America la rende molto meno minacciosa agli occhi delle altre potenze (storicamente, gli USA hanno agito come offshore balancer = distaccamento dallo scenario europeo, intervenendo solo in certi momenti critici per riportare l’equilibrio – è quanto è successo nelle 2 guerre mondiali oppure l’operato americano come pacificatore in Medio Oriente tra Israele e gli Stati arabi);
− le capacità offensive: le forze nucleari deterrenti rendono il potere americano meno offensivo agli occhi delle altre potenze;
− le intenzioni: anche questo elemento è ridimensionato dal fatto che gli Stati Uniti non abbiano ambizioni territoriale aggressive e, in generale, cercano di condurre una politica estera cooperativa e rassicurante per gli altri.
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Gli Stati Uniti, per quanto potenti, non rappresentano in questo senso una vera minaccia per gli altri Stati.
2. il potere unipolare americano risolve i problemi degli altri Stati, in modo da renderli meno inclini a controbilanciare gli Stati Uniti?
A questo proposito, Ikenberry ricorda l’analisi di J. Joffe (di cui si è già parlato), secondo cui gli Stati Uniti avrebbero adottato una straordinaria strategia neo-bismarckiana per il mantenimento della loro egemonia = la strategia del “mozzo e dei raggi” = gli Stati Uniti hanno costruito una fitta rete di alleanze nelle principali regioni del mondo, provvedendo al “bene pubblico” della sicurezza in quelle regioni, risolvendo i loro dilemmi della sicurezza regionali ⇒ rimuovendo gli incentivi che porterebbero alla creazione di una coalizione antiegemonica.
Ma tale strategia è comunque destinata a vedere la sua fine, come è successo a Bismarck? Secondo Ikenberry, questo rischio è meno probabile nel caso degli Stati Uniti, dal momento che essi presentano alcune differenze rispetto alla Germania di Bismarck:
− gli Stati Uniti sono stati un “institution-builder”, il che ha permesso loro di rendere la leadership americana sia più longeva sia più accettabile per gli altri Stati;
− inoltre, gli Stati Uniti hanno sviluppato, oltre al loro hard power anche il soft power che ha permesso loro di frustrare ulteriormente la formazione dell’equilibrio.
3. cosa significa realmente “equilibrio” nel mondo contemporaneo?
Anche la teoria della pace democratica, secondo Ikenberry, è particolarmente utile per spiegare la mancanza della formazione di un equilibrio antiamericano. Infatti, in base a questa teoria, le asimmetrie di potere sono meno minacciose quando si manifestano tra democrazie ⇒ l’Europa e l’Asia sono più inclini a fare bandwagoning con gli Stati Uniti perché questi sono una democrazia.
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L’egemonia americana è meno minacciosa perché è
− riluttante = assenza di un forte impulso a dominare direttamente gli Stati più deboli;
− aperta = il sistema democratico aperto, decentralizzato e trasparente degli Stati Uniti fa sì che ci siano delle opportunità per gli altri Stati a far sentire la loro voce nelle decisioni dell’egemone;
− fortemente istituzionalizzata = coinvolgendosi nel dopoguerra in una fitta rete di alleanze ed impegni multilaterali, gli Stati Uniti sono stati capaci di proiettare la loro influenza all’esterno e di creare un ambiente relativamente sicuro, nel quale curare i propri interessi. Tuttavia, tale ordine li ha resi anche un partner più congeniale anche per gli altri Stati.
NB: le dispute sul commercio, la difesa e altre tematiche rimangono e, anzi, con l’aumentare dell’interdipendenza, sono aumentate anche queste problematiche. TUTTAVIA, esse sono in un certo modo mitigate dalla presenza di istituzioni condivise e dalla convinzione diffusa che essere difficilmente verranno risolte per mezzo dell’uso della forza.
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Joffe afferma che lo stesso concetto di equilibrio viene messo in discussione. Oggi, infatti, il balancing potrebbe presentarsi sotto forma di protezionismo commerciale selettivo, oppure di emulazione delle tecniche commerciali americane (⇒ aumentando la concorrenza), oppure sotto forma di “regionalismo economico”.
TUTTAVIA non è chiaro se e quali effetti tali nuove forme di balancing possano avere a livello sistemico sull’unipolarismo contemporaneo.
Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno ricordato al mondo che gli attacchi contro l’unipolarismo americano non arrivano necessariamente solo dalle grandi potenze. Sebbene l’apertura dell’unipolarismo americano l’abbia reso meno minaccioso agli occhi degli altri Stati, allo stesso tempo, però, l’hanno reso più vulnerabile al terrorismo.
Le conseguenze della lotta al terrorismo avranno effetti più che altro indiretti sull’unipolarismo americano, ma, nel lungo periodo, potranno sia rinforzarlo sia indebolirlo:
− un primo possibile scenario vede il rafforzamento dell’unipolarismo attraverso una stretta cooperazione delle grandi potenze nella lotta contro il terrorismo, dal momento che, comunque, gli Stati Uniti hanno bisogno di partner che li supportano.
Inoltre, potrebbero cambiare anche i termini della cooperazione tra grandi potenze. La Russia del Presidente Putin ne è un chiaro esempio: offrendo il proprio supporto alla causa americana, Putin ha aperto la strada a rapporti reciproci di sostegno e accomodamento, anche su temi di cruciale importanza per la politica russa – come aiuti economici, la questione della Cecenia, l’allargamento della NATO, la difesa missilistica.
− Ma la lotta al terrorismo potrebbe anche indebolire l’unipolarismo americano. Potrebbe infatti accadere che gli USA decidano che la lotta contro regimi terroristici, come in Iraq, sia più importante del mantenimento della coalizione ⇒ gli USA potrebbero scegliere di agire unilateralmente anche in altri campi, creando un profondo risentimento e un latente antagonismo negli alleati.
In effetti, nel gennaio 2001 gli Stati Uniti hanno unilateralmente abbandonato gli accordi di Kyoto, rifiutato la loro partecipazione alla Corte Penale Internazionale e si sono ritirati dagli Accordi ABM ⇒ nonostante gli attacchi dell’11 settembre abbiano creato una certa simpatia diffusa verso l’America, l’Amministrazione Bush ha comunque deciso di dare una svolta unilaterale alla conduzione della politica estera, tanto da accettare solo un alleato (la Gran Bretagna) nella guerra in Afghanistan. Poi, nel 2002, l’Amministrazione ha annunciato di voler deporre il regime ba’th in Iraq, anche a costo di usare la forza, unilateralmente, se necessario.
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