La strategia di Bush
La strategia di Bush
La strategia di Bush è decisamente la più aggressiva che gli USA abbiano mai avuto e questo avrà sicuramente importanti ripercussioni a livello internazionale.
Anche R. A. Pape analizza la possibilità che si formi una coalizione a controbilanciare la potenza americana, possibilità che, diversamente da quanto affermato, ad esempio, da Ikenberry, appare invece molto reale.
Questo perché un mondo unipolare, afferma Pape, è comunque un sistema in equilibrio di potenza, non è la stessa cosa di un sistema egemonico. Infatti, per quanto potente sia, il leader unipolare non è completamente immune dalla formazione di una controalleanza formata dalle potenze minori. Certo, la creazione di una simile alleanza è particolarmente difficile, dato che richiederebbe la partecipazione di quasi tutte le potenze minori, nonché una complessa cooperazione delle loro politiche.
Nel mondo egemonico, invece, la nascita di questa alleanza è pressoché impossibile.
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Le potenze minori dovranno temere fondamentalmente 3 cose:
− la minaccia di un attacco diretto da parte della grande potenza
− la minaccia di danni indiretti, causati dalla politica della grande potenza
− la possibilità che la grande potenza diventi un egemone.
In generale, Pape avanza 3 argomenti a sostegno della sua ipotesi che vede la prossima formazione dell’equilibrio di potenza:
1. la strategia aggressiva di Bush ha notevolmente ridotto la buona reputazione di cui gli USA hanno goduto fino a questo momento ⇒ gli Stati hanno ragione di temere maggiormente la potenza americana. Infatti, poiché un leader unipolare è già il più forte, saranno i cambiamenti delle sue intenzioni, non del suo potere relativo, a preoccupare particolarmente gli altri Stati.
2. nel breve periodo è poco probabile che Francia, Germania, Russia, Cina, Giappone e le altre importanti potenze regionali rispondano con le tradizionali misure di hard balancing (= misure prevalentemente militari5). È invece molto più probabile che esse adottino quello che Pape chiama soft balancing = azioni che non sfidano direttamente la superiorità militare americana, ma che utilizzano strumenti non militari per trattenere, frustrare e indebolire le politiche militari unilaterali americane. Ad esempio, il soft balancing per mezzo delle istituzioni internazionali, di dichiarazioni economiche e di accordi diplomatici hanno già avuto alcuni effetti in opposizione alla campagna militare degli Stati Uniti in Iraq.
I meccanismi attraverso cui opera il soft balancing sono i seguenti:
− negazioni territoriali = spesso la grande potenza beneficia dell’accesso nei territori di parti terze per il passaggio o l’accampamento di aiuti e forze militari ⇒ negando l’accesso a questi territori si riducono le prospettive di vittoria della grande potenza;
− legami diplomatici = gli Stati possono usare le istituzioni internazionali e manovre diplomatiche ad hoc per bloccare i piani di guerra della grande potenza;
− misure economiche = per riportare l’equilibrio nel lungo periodo gli Stati possono sfruttare i blocchi commerciali regionali, aumentando i rapporti commerciali e la crescita economica tra i membri, escludendo i non membri ⇒ se si riesce ad escludere la superpotenza, la sua situazione economica potrebbe ridimensionarsi notevolmente. Un modo potrebbe essere quello di cambiare la valuta di riserva mondiale: oggi, infatti, il petrolio viene acquistato in dollari, cosa che va a tutto vantaggio degli Stati Uniti ⇒ una decisione coordinata da parte degli altri Paesi ad acquistare il petrolio in euro trasferirebbe gran parte di tali benefici in Europa, diminuendo allo stesso tempo il PIL degli Stati Uniti.
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Se gli Stati minori riescono a mettere in pratica le misure appena descritte riusciranno a costruire un efficace meccanismo di soft balancing, il cui obiettivo, lo ricordiamo, non è di impedire alla superpotenza di agire, ma di dimostrare la risolutezza degli Stati minori ad opporsi alle sue ambizioni future.
3. il soft balancing diventerà sempre più intenso se gli Stati Uniti persisteranno con la loro politica aggressiva. Sebbene infatti il soft balancing non abbia immediati effetti militari, esso comunque farà aumentare notevolmente i costi del potere americano, riducendo il numero di Stati disposti a cooperare con l’America e modificando l’equilibrio economico a sfavore degli americani. Inoltre – cosa più importante – il soft balaning può col tempo evolversi in hard balancing (ad esempio, l’Europa e la Cina potrebbero avvicinarsi sempre di più alla Russia, la quale può continuare a sostenere il programma nucleare iraniano, un segnale, questo, della già iniziata trasformazione verso l’hard balancing contro gli USA).
Pape precisa che, ovviamente, il soft balancing non è inevitabile. Infatti, la reputazione degli Stati Uniti potrebbe tornare ai livelli passati, diminuendo gli incentivi all’equilibrio, se solo l’amministrazione americana abbandonerà le sue politiche di unilateralismo aggressivo, e partecipando ad iniziative multilaterali in problematiche internazionali particolarmente delicate, quali
− programma nucleare iraniano
− l’inclusione della Germania e di altre grandi potenze tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
− il trasferimento della gestione delle riserve petrolifere irachene a compagnie internazionali.
Rimane comunque il fatto che oggi gli Stati Uniti rappresentano la più grande eccezione alla teoria dell’equilibrio.
Perché?
Molte sono le risposte date dai vari studiosi. Abbiamo già visto Waltz (è solo questione di tempo) e Walt (gli Stati Uniti non sembrano particolarmente minacciosi). Ad esse, Pape aggiunge la risposta di Mearsheimer, che parla della strategia di offshore balancing adottata dagli americani nel XX secolo, che ha permesso loro di assicurare l’Europa, la Russia, il Giappone, la Cina del fatto che le loro intenzioni non siano minacciose (cosa riuscita fino alla dottrina Bush).
Pape preferisce evitare di discutere su quale di queste risposte sia la più corretta. Secondo lui, infatti, tutte hanno un fondo di verità ⇒ insieme offrono una spiegazione migliore di quella offerta singolarmente.
È chiaro a questo punto che il punto di svolta è la dottrina Bush, che arroga il diritto degli Stati Uniti a sferrare attacchi preventivi unilaterali contro gli Stati canaglia – Iraq, Iran, Siria, Libia, Nord Corea – , a sviluppare un avanzato sistema nazionale di difesa missilistica, e a mantenere la supremazia del potere militare americano, impedendo che altri Stati “superino, o eguaglino, la potenza degli Stati Uniti”: scelte queste, che hanno notevolmente danneggiato la reputazione americana a livello internazionale. Il problema, sia chiaro, non sono gli obiettivi in sé, ma i mezzi, e soprattutto la volontà ad agire anche unilateralmente, per raggiungere obiettivi che sarebbero, dopo tutto, accettabili anche per gli altri Stati. Tra i mezzi in discussione, Pape ricorda i seguenti:
− guerra preventiva: l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003 è stata la prima guerra preventiva sferrata dagli Stati Uniti, andando a violare una delle più rispettate norme del diritto internazionale = le democrazie non combattono guerre preventive. La giustificazione di Bush si è basata in particolare sull’uso (manipolazione?) dei 2 termini inglesi che significano “preventivo”: preventive e preemptive. Bush ha dichiarato di agire per preemption = l’Iraq aveva già iniziato a mobilitare le proprie forze armate per sferrare un attacco imminente (generalmente è una questione di pochi giorni) ⇒ la guerra preemptive è servita per negare al nemico il vantaggio della prima mossa.
Viceversa, una guerra preventive viene combattuta per impedire al nemico di acquisire capacità militari ancora prima che inizi la mobilitazione.
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Chiarita questa distinzione, è più che evidente come in realtà l’attacco americano sia stato preventive, diversamente da quanto dichiarato dal Presidente Bush.
Poiché Bush sta tentando anche di legittimare l’uso di questo strumento come “normale” mezzo di condotta della politica americana, è inevitabile che gli altri paesi tremino di fronte a questo cambio di politica.
− politica del petrolio: la conquista dell’Iraq ha messo gli Stati Uniti in una posizione strategica invidiabile, con il controllo virtuale di tutte le riserve petrolifere del Golfo Persico, aumentando così il rischio che possano usare tale risorsa come “arma di ricatto” contro l’Europa e l’Asia.
Sebbene molti americani neghino che questo possa verificarsi, nella realtà è già accaduto: per mesi, gli Stati Uniti hanno minacciato di negare contratti petroliferi alla Francia, alla Russia e ad altre compagnie se i loro paesi non avessero collaborato con l’America in Iraq.
− armi nucleari: sebbene il progetto di scudo spaziale sia condotto principalmente per difendere il suolo americano da minacce missilistiche provenienti dagli Stati canaglia, gli altri Stati hanno letto in questo programma un ulteriore segnale delle cattive intenzioni degli Stati Uniti, soprattutto se consideriamo che nessuno degli iscritti alla lista degli Stati canaglia ha al momento la reale capacità di sferrare un attacco missilistico contro gli Stati Uniti.
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Afferma Pape che il sistema di difesa missilistica americana sta creando un classico dilemma della sicurezza tra gli Stati Uniti e le altre potenze, soprattutto Russia e Cina, che temono il raggiungimento della netta superiorità nucleare da parte degli americani, incrementando ulteriormente i dubbi circa le loro intenzioni.
A tutt’oggi, comunque, riconosce Pape, non è ancora chiara la formulazione stessa di questo nuovo concetto di soft balancing ⇒ è difficile stabilire se questi meccanismi siano già in atto oppure no. Si possono comunque fare alcune osservazioni: il 26 agosto 2002, il Vice Presidente Dick Cheney annunciò l’intenzione americana di lanciare un attacco preventivo contro il regime iracheno di Saddam Hussein. La strategia americana venne annunciata a settembre. Poco dopo, le potenze in Europa, Medio Oriente e Asia hanno intrapreso delle misure che, secondo Pape, sono un chiaro segnale dell’inizio del soft balancing:
− Francia, Svezia e altri Stati europei hanno impugnato le regole e le procedure istituzionalizzate delle Nazioni Unite per limitare, se non bloccare completamente, l’attacco preventivo contro l’Iraq. In passato, infatti, gli Stati Uniti hanno spesso fatto ricorso al Consiglio di Sicurezza per legittimare il proprio operato. Nel 2002, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno rischiato di vedersi imporre per la prima volta il veto dal Consiglio di Sicurezza (più precisamente, dalla Francia), se non avesse rispettato alcune condizioni:
1. l’Amministrazione Bush doveva sforzarsi e tentare di risolvere la situazione per mezzo di ispettori sul luogo
2. l’Amministrazione avrebbe dovuto attendere una risoluzione autorizzativa per intervenire, una volta concluse le ispezioni.
− La Turchia e l’Arabia Saudita hanno fermamente negato agli Stati Uniti l’autorizzazione ad utilizzare il loro territorio per le truppe di terra, e si sono dimostrate anche titubanti nell’offrire il loro appoggio logistico ed aereo. Questi rifiuti sono stati molto importanti, soprattutto quelli della Turchia. Infatti, gli Stati Uniti avevano pianificato di invadere l’Iraq partendo simultaneamente proprio dalla Turchia a nord e dal Kuwait al sud.
− La Cina e la Corea del Sud hanno incrementato i loro sforzi diplomatici nei confronti del programma nucleare della Corea del Nord, rendendo difficile per gli Stati Uniti l’eventualità di utilizzare la forza anche contro quello Stato canaglia.
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Come è evidente, nessuna di queste mosse ha minacciato direttamente la potenza militare americana, ma hanno comunque reso più difficile l’esercizio di tale potenza da parte degli americani, imponendo loro costi, restrizioni, aumentando il rischio di perdere il consenso internazionale, nonché di vedere gli Stati canaglia accelerare i loro programmi nucleari ⇒ è logico attendersi che, se gli Stati Uniti proseguiranno con la loro politica unilaterale, gli altri Stati continueranno ad attuare – e, anzi, le aumenteranno – tali misure di soft balancing.
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