Moïsi, l'Occidente e la paura
Riguarda noi, l’Occidente, che siamo il continente della paura. Un Occidente non geografico ma concettuale, che abbraccia Europa occidentale, Usa, Giappone. Ovvero le società industrializzate avanzate. La paura è una reazione agli avvenimenti che hanno luogo altrove. Abbiamo paura innanzitutto del diverso, paura degli immigrati, soprattutto quelli che vengono dal nostro Sud, che può essere di volta in volta il Marocco, l’America Latina, i Paesi arabi. Abbiamo paura che qualcuno, affamato e prepotente, venga a rubarci quello che ormai abbiamo consolidato, ma di cui ci siamo resi conto l’equilibrio è precario. E abbiamo paura di perdere competitività sul lavoro, sostituiti da manodopera più fresca, brillante e a basso costo. Ognuno di noi dovrà ammettere di aver sperimentato sulla propria pelle questa paura sotterranea ma continua che ci attraversa mentre percorriamo le nostre città, di essere derubati, colpiti, violentati, e che si traduce nell’ossessione dominante, nei Paesi occidentali e negli Stati Uniti pre-Obama, della Sicurezza. La sicurezza come arma elettorale, la sicurezza come parola che mette fine ad ogni dibattito, come valore bipartisan. E nell’ossessione per la sicurezza perdiamo le energie che ci fanno sperare: nel difendere la nostra roccaforte-museo creiamo un ambiente asfittico, irrespirabile, che non lascia
spazio alla circolazione delle idee. E perdiamo la creatività. Gli Stati uniti e l'Europa, sostiene Moisi, sono divisi, più che uniti, da una comune cultura della paura. Mentre negli Stati uniti del dopo-11 settembre essa ha preso le note sembianze dell'ossessione securitaria all'interno e della preempive war all'esterno, in Europa si manifesta più sottilmente come paura dell'altro, paura del futuro, paura di perdere un'antica identità: l'incubo di essere invasi dall'emigrazione, la fantasia che l'Europa si trasformi in Eurabia, la scoperta che le città europee sono non solo obiettivi ma anche basi del terrorismo internazionale, si mescolano negli europei a paure più endogene che riguardano la crisi dello stato sociale, la stasi economica e la possibilità di trasformarsi nel museo del mondo. E se per gli Stati uniti l'ossessione securitaria e guerra in Iraq si sono risolti in una disfatta d'immagine e di credibilità, in Europa queste micro e macro paure diffuse rischiano di
riportare in auge antichi spiriti nazionalisti. Che fare in Occidente, e dell'Occidente, in questa situazione? Negare che il sentimento di umiliazione arabo-islamico sia per gli occidentali un problema e una minaccia è sbagliato tanto quanto affrontarlo con la guerra e la degenerazione della democrazia come fanno gli Usa. Né la soluzione può consistere solo nel sostenere l'Islam moderato contro quello fondamentalista: si tratterebbe piuttosto di instillare nelle società musulmane un sentimento di speranza e di fiducia nella crescita capace di contrastare rabbia e disperazione. Con la consapevolezza che senza soluzione dei problemi del mondo islamico, non può esserci dissoluzione della sindrome fobica in Occidente.
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