La tuta di sopravvivenza in Dune
Il romanzo di Herbert ci porta in un futuro molto lontano, in cui lo spazio è annullato e la distanza tra i pianeti conosciuti e popolati risulta tranquillamente enorme: la tuta spaziale non ha più molta ragione d’essere, almeno rispetto ai pochi problemi posti dal viaggio interstellare “sul posto”. Inoltre, il processo di demacchinizzazione che informa l’epoca degli Harkonnen e degli Atreides, svilisce anche il compito della tuta di entrare in relazione con il trattamento dei materiali e la logica ostinata dei meccanismi. Rimane l’ostilità del pianeta Dune che, guarda caso, è di gran lunga anche il più prezioso.
Questa ri-territorializzazione del confronto restituisce un volto allo spazio, che riassurge a paesaggio e a teatro del valore. I vermi diventano tante Moby Dick in un mare di sabbia e la sopravvivenza in un ambiente così ostile esige l’opportuna tuta. Proprio su tale dettaglio, solo apparentemente marginale, Lynch decide di attenersi in parte al romanzo, ma anche di prendersi qualche piccola licenza. Chiede a Ringwood di concepire delle specialissime stillsuits, vale a dire delle tute in grado di estendere al massimo le possibilità di sopravvivenza nel deserto e, rispetto al romanzo, decide che tali tute siano i soli indumenti a ricoprire il corpo dei protagonisti a partire dall’avanscoperta nel deserto di Dune. Persino il Duca Leto deve rinunciare a qualsiasi forma di uniforme e vestire la sola tuta. Nel romanzo si evince invece che la tuta viene indossata sotto dei vestiti specifici per il deserto, a loro volta ricoperti dalla jubba, un mantello polifunzionale (può trasformarsi persino in un’amaca o in una tenda). Inoltre, sotto la tuta, i due Atreides (padre e figlio) portano delle cinture scudo, degli storditori a carica lenta, trasmettitori miniaturizzati di emergenza nonché pugnali ai polsi infilati in specifici foderi6. La tuta viene accettata dal Duca e dal giovane Paul solo se ripensata come vestito in grado di assurgere anche a protesi armamentaria e telecomunicativa.
Nel film, come nel romanzo, l’illustrazione del modo di funzionamento è fornita da Kynes, colui che per conto dell’imperatore ha coordinato la raccolta di spezie su Arrakis. Schieratosi con gli Atreides, Kynes verrà catturato dagli Harkonnen; il massimo sfregio della sua identità (è un Fremen) è proprio la lacerazione della sua tuta lungo tutto il petto, cosa che provoca la fuoriuscita di tutti i liquidi, quasi fossero l’analogo dei suoi vasi sanguigni. Difatti, Kynes geme di dolore malgrado non sia ancora ferito nella carne; il suo destino è morire nel deserto senza tuta.
La tuta assurge allora a una sorta di mimesi materiale con il pianeta, anche se mantiene una forte caratterizzazione traduttiva della morfologia del corpo. Essa è infatti alquanto aderente e enfatizza le proprietà contenitive del suo fungere da involucro secondo. Contemporaneamente, essa è costruita da una rete di elementi strutturali che si interconnettono fornendo l’idea di involucro cenestetico (ogni azione esercitata su un punto della tuta finisce per mettere in variazione lo stato di tutti i punti d’articolazione tra i suoi elementi). Ma il fatto più rilevante è che questi elementi tendono a ricalcare, enfatizzandola, la struttura di sterno e costole, come se portassero alla luce una composizione delle viscere attorno alla struttura ossea. In realtà, questi avvallamenti all’altezza del petto sono adibiti a apparato di sfruttamento dell’energia prodotta dalla respirazione e a tasche di raccolta della sudo razione.
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