Lo screening dei corpi dei rifugiati cambogiani negli USA
Dopo il primo screening, i rifugiati cambogiani scelti per essere inseriti negli Stati Uniti ne subivano un secondo, volto alla ricerca di eventuali malattie, e venivano trasformati così in corpi sani pronti per l’America. A tutti i rifugiati venivano somministrati vaccini a seconda dell’età: tutte le persone di più di due anni venivano passate ai raggi X per individuare un’eventuale tubercolosi infettiva. Quanti risultavano avere una tubercolosi attiva erano posti in quarantena, e veniva impedito loro di partire per gli Stati Uniti fino a quando non fossero stati certificati come guariti. Il processo di screening durava due mesi.
Nel corso dei primi due mesi i rifugiati compivano così i loro primi passi nel processo che li avrebbe trasformati in soggetti ben adattati, apprendendo quanto fosse importante fornire tutte le informazioni necessarie e sottoporsi agli esami indicati, e imparando altresì a riconoscere l’importanza di rituali quotidiani come la pulizia dei denti. I medici che li assistevano consideravano il proprio lavoro una sorta di educazione sanitaria, sottolineando in particolare I ‘importanza degli esami fisici, della prevenzione e di una docile sotto missione alle medicine.
Oltre ad apprendere questo genere di pratiche, i rifugiati imparavano però anche che l’accesso all’assistenza sanitaria dipendeva in modo sostanziale dal fatto di poter fruire del programma di assicurazione statale.
Una così stretta assistenza medica, però, fece sì che cambogiani non riuscissero più a scrollarsi di dosso l’immagine secondo cui i loro corpi sarebbero stati portatori di esotiche e misteriose malattie tropicali.
I cambogiani finirono per essere considerati un popolo affetto da varie “malattie mentali”.
Si riferiva a un insieme di sintomi che andavano dalla depressione all’isolamento, dagli incubi ai flashback e indicava, più in generale, un malessere generico e cronico. Dal punto di vista medico, il solo essere cambogiani finì per significare essere depressi.
Per molti rifugiati, l’essere depressi o l’ottenere un qualche certificato di malattia divenne a volte l’unico modo per avere un minimo di assistenza sanitaria e per poter fruire dei benefici del welfare. L’industria dell’assistenza ai rifugiati si intrecciò così con la burocrazia del welfare e i rifugiati-pazienti finirono per capire che i servizi per i rifugiati e i paletti impliciti nelle etichette mediche utilizzate a scopi sanitari non erano che un aspetto particolare di una più ampia regolamentazione della loro vita quotidiana e del loro accesso a una molteplicità di risorse.
Al momento dell’arrivo i rifugiati adulti ricevevano una guida delle competenze sociali necessarie per navigare nella società americana. Dopo essersi soffermato sullo status giuridico dei rifugiati, il testo si dilungava sulle norme igieniche e di sicurezza da seguire in privato e in pubblico, le istruzioni su come imparare i modi con cui gli americani perseguivano una vita sana. La cosa interessante era che, parlando di come e quando i corpi potessero diventare inavvertitamente molesti, ci si soffermava a lungo sulla questione degli odori. Tra le altre istruzioni c’era poi quella di ventilare bene la casa in modo tale che odori di cucina particolarmente forti non disturbassero i vicini.
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Dettagli appunto:
- Autore: Anna Bosetti
- Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
- Facoltà: Scienze dell'Educazione
- Corso: Scienze dell’Educazione
- Esame: Antropologia
- Titolo del libro: Da rifugiati a cittadini
- Autore del libro: A. Ong
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