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La “sensibilità culturale” nelle cliniche dei rifugiati cambogiani in California


La California del nord è la meta di rifugiati provenienti da ogni parte del mondo e le cliniche del posto sono molto fiere del loro approccio “culturalmente sensibile” all’assistenza sanitaria. Vi sono, per esempio, cliniche che non forniscono ai pazienti asiatici cure tradizionali dei loro paesi, ma trattamenti di tipo biomedico, e che dichiarano tuttavia di avere una “sensibilità culturale” molto maggiore di altre cliniche; personale medico particolarmente attento alle loro differenze culturali, e quindi un ambiente quasi familiare in cui i rifugiati potevano sentirsi più a loro agio.
L’approccio biomedico alla malattia e la pressione esercitata dai carichi di lavoro fece sì, però, che chi curava avesse assai poco tempo per “conoscere” i propri pazienti, e potesse solo diagnosticare “dove avevano male”. Inoltre, molti medici sembravano davvero convinti della bontà dei loro metodi biomedici. Dal momento che erano ormai americani di prima o seconda generazione, gli operatori sanitari di origine asiatica (soprattutto di origine cinese) erano fra i più ardenti sostenitori della razionalità, e tendevano ad accantonare le pratiche e le “superstizioni” premoderne. Forse per il fatto di essere stati figli di immigrati asiatici che avevano subito forti discriminazioni, alcuni di questi operatori sanitari ritenevano che estirpare le credenze culturali non occidentali fosse una strategia necessaria al fine di essere accettati e raggiungere l’assimilazione. Vi era insomma l’idea che ripulirsi dalla propria cultura — o semplicemente perderla — fosse una parte necessaria e inevitabile del diventare americani.
La loro presunta sensibilità culturale forniva loro alcune abilità sociali nell’approccio a un altro altrimenti impenetrabile, ma non portava certo a un sostanziale cambiamento nella loro fiducia di fondo nella medicina e nella razionalità occidentali.
Così, per quanto gli operatori Fossero ben intenzionati e realmente vicini ai rifugiati, la spinta a “fare qualcosa” per i pazienti fece sì che in Pratica questa “sensibilità culturale” venisse spesso usata solo in modo limitato e strategico allo scopo di ottenere la collaborazione dei pazienti, di facilitare la diagnosi e di rafforzare l’autorità dei medici.

Tratto da DA RIFUGIATI A CITTADINI di Anna Bosetti
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