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Il giudicato amministrativo


Il passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo si ha quando nei suoi confronti non è più ammessa un’impugnazione c.d. ordinaria: l’appello al Consiglio di Stato, il ricorso alla Corte di Cassazione per motivi di giurisdizione, la revocazione nei casi previsti dall’art. 395 n. 4-5 c.p.c.
Nei confronti della sentenza del giudice amministrativo passata in giudicato sono proponibili solo il ricorso per revocazione nei casi previsti dall’art. 395 n. 1-2-3-6 c.p.c. e l’opposizione di terzo.
Si suole distinguere tra un giudicato solo interno e un giudicato anche esterno: nel primo caso la sentenza comporta un vincolo (nel senso che la questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in discussione) solo rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio, mentre nel secondo caso la sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che possano instaurarsi tra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima questione.
Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli “interni”; le sentenze di merito, invece, si caratterizzano per la loro idoneità a comportare vincoli “esterni”.
Appare invece controversa la collocazione di altri tipi di sentenze.
Rispetto alle sentenze sulle condizioni dell’azione (interesse a ricorrere e legittimazione a ricorrere) è stato osservato che esse in realtà farebbero applicazione di regole di diritto sostanziale.
Ciò varrebbe in modo particolare per la legittimazione a ricorrere, dato che essa viene identificata con la titolarità dell’interesse qualificato che venga fatto valere in giudizio.
Di conseguenza, la sentenza che dichiarasse inammissibile un ricorso per mancanza di legittimazione a ricorrere non avrebbe per oggetto solo un fatto processuale, ma riguarderebbe l’insussistenza della situazione sostanziale dedotta nel giudizio.
Analoghe considerazioni varrebbero per la cessazione della materia del contendere, che viene dichiarata dal giudice amministrativo se l’Amministrazione, nel corso del giudizio, abbia annullato o riformato l’atto impugnato “in modo conforme all’istanza del ricorrente”.
Anche in questo caso si sostiene che l’accertamento compiuto dal giudice non riguarderebbe un mero fatto processuale ma si estenderebbe a profili di ordine diverso.
Queste tesi sono svolte soprattutto alla luce di preoccupazioni di diritto sostanziale, avendo di mira l’incidenza della sentenza sull’attività amministrativa successiva.
Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi del giudicato, la giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo, di regola, valga solo tra le parti, i loro successori e aventi causa, ma che nel caso di annullamento dell’atto impugnato, se si tratta di un atto amministrativo con contenuto “indivisibile”, il giudicato varrebbe nei confronti di tutti i soggetti destinatari degli effetti dell’atto annullato (non si potrebbe ammettere la vigenza degli effetti del provvedimento con riferimento ad alcuni soggetti e non con riferimento agli altri).
Coerentemente con questa premessa, il Consiglio di Stato riconosce anche a terzi la legittimazione a promuovere il giudizio per l’ottemperanza.
A questa giurisprudenza si oppone una parte della dottrina, che cerca di risolvere i problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione fra effetti della sentenza e autorità del giudicato.
I primi travolgerebbero tutte le utilità assegnate dall’atto annullato, mentre la seconda riguarderebbe solo le parti processuali.
Di conseguenza, a quanti non siano anche stati parti nel giudizio, non potrebbe essere opposto il giudicato: essi risentirebbero, però, degli effetti dell’annullamento.
In un successivo giudizio, la questione inerente alla legittimità del provvedimento potrebbe senz’altro essere riproposta da essi.

Tratto da GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA di Stefano Civitelli
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