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APPROFONDIMENTI

La presenza del crocifisso nei luoghi pubblici - I parte

18/01/2005

La presenza del crocifisso nei luoghi pubblici - I parte

Scegliendo di laurearmi in Giurisprudenza con una tesi di Diritto Ecclesiastico non avrei mai creduto di affrontare tematiche così profondamente legate al vivere quotidiano e soprattutto alle “grandi” questioni della convivenza interreligiosa, della tolleranza, delle radici storiche e culturali dell’Italia e più in generale dell’Europa. Erroneamente si tende a pensare al Diritto ecclesiastico come ad una materia puramente teorica, quasi ad un diritto più ipotetico che pratico, ma è la stessa realtà che si incarica di mostrarci il contrario. Ho discusso la mia tesi avente come oggetto il crocifisso nei luoghi pubblici e, più in generale, il ruolo dei simboli religiosi nel bel mezzo di note vicende di cronaca riguardanti crocifissi spostati a forza e a forza riammessi da aule scolastiche o stanze di ospedale, presepi “addomesticati” a fronte della forte presenza di allievi di culto diverso da quello cristiano e così via.

Da allora, benché siano trascorsi vari mesi, tali vicende continuano ad occupare le pagine di giornale, al punto che pare quanto mai azzeccato il titolo di un editoriale pubblicato dal “Corriere della Sera” (e da me riportato nella tesi) che commentando tali vicende parlò di “calvario dei simboli”. Dalla sua stesura, sulla spinta dell’attualità, la mia tesi di laurea ha suscitato grande interesse, e per questo, stimolata da amici e familiari, ho continuato a seguire le vicende dei simboli religiosi nel nostro Paese (e altrove), con grande interesse, predisponendo l’aggiornamento continuo del mio lavoro. L’anno che si è appena chiuso, il 2004, è stato senz’altro l’anno della legge francese sul divieto di ostentazione dei simboli religiosi; raccomandata da una commissione mista composta da giuristi, storici, filosofi e esponenti di culti religiosi. La legge è entrata in vigore lo scorso 1 settembre in concomitanza con la riapertura delle scuole francesi. In concreto, essa ha stabilito il divieto di indossare nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado qualsiasi segno religioso distintivo (velo o foulard islamico, kippà o zuccotto ebraico, crocifisso o medaglie di grandi dimensioni ecc.), ammettendo solo l’utilizzo di simboli di piccole dimensioni da parte di allievi e insegnanti.

La legge ha suscitato notevoli polemiche, che si sono intrecciate all'attualità internazionale (in particolare al sequestro in Irak di due giornalisti francesi per la cui liberazione era stata richiesta l'abrogazione della legge), e la cui eco è giunta anche in Italia dove non esiste alcun divieto in tal senso, e dove la materia è tuttora regolata da una serie di disposizioni del Ministero dell’Interno di epoca fascista che avevano disciplinato la posizione delle monache che per secolari disposizioni degli Ordini religiosi di appartenenza si coprivano il capo: tali disposizioni stabiliscono che non è vietato coprirsi il capo, ma che per ragioni di ordine pubblico il viso deve essere scoperto ed essere riconoscibile sulle fotografie destinate a comparire sui documenti. Quanto alla questione del crocifisso, è dello scorso 15 dicembre la pronuncia della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata “manifestamente inammissibile sotto ogni profilo” la questione di legittimità sollevata dal Tar del Veneto in ordine alla vigenza delle disposizioni che prevedono l'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, con ciò confermando la vigenza di tale normativa e autorizzando indirettamente la permanenza del simbolo cristiano nelle scuole italiane. La sentenza, pur se accompagnata dai consueti toni polemici da parte dei politici, in realtà ha un carattere eminentemente tecnico: la Corte infatti non esprime opinione sull’opportunità o meno di avere il simbolo della croce in aula, ma si limita a statuire l’inammissibilità del quesito posto dal Tar del Veneto.

Infatti il Tar ha impropriamente trasferito la questione di legittimità di norme regolamentari su norme legislative. La Consulta quindi avrebbe dovuto pronunciarsi su un regolamento; ma i suoi pronunciamenti sono sulle leggi e non su norme regolamentari (giova ricordare che la Corte è chiamata a controllare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione e se il loro contenuto sia conforme ai principi costituzionali). Oggetto del suo esame sono dunque leggi dello Stato, decreti legislativi delegati e decreti legge, leggi delle Regioni e delle province autonome. Non sono invece soggetti al controllo gli atti normativi subordinati alle leggi, come i regolamenti, quali quelli contenenti la previsione del crocifisso. La Corte può accogliere la richiesta se la questione è fondata, rigettarla se la questione è infondata ovvero dichiarare la manifesta inammissibilità se mancano i requisiti necessari per sollevarla. Ed è questo il caso del Tar del Veneto, ed è per questo che la Consulta ha risposto optando per la non ammissibilità. Si ricordi inoltre che il regolamento in questione era già stato giudicato dal Consiglio di Stato che lo aveva ritenuto legittimo, pertanto il ricorso è stato “bocciato” in quanto non doveva neanche essere presentato.

La parola ora torna al Tar perché le norme impugnate si rifanno ai decreti del 1924 e del 1928 sugli arredi scolastici e quindi a disposizioni prive di forza di legge sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità anche perché non dispongono sull’affissione del crocifisso. Si potrebbe dire che la sentenza costituisce una tregua tra le opposte fazioni, e che nulla esclude una diversa decisione da parte dei tribunali regionali. E' stato notato che l'unico modo per sottoporre al vaglio di costituzionalità la questione sarebbe di emanare una legge con la previsione dell'obbligo di affissione del crocifisso, così da sottoporla all'esame della Corte; solo una legge infatti non sarebbe, come i regolamenti, un presupposto erroneo per mettere in discussione la presenza del simbolo cristiano. Accanto a questi interventi di tipo legislativo e giudiziario, negli ultimi mesi si sono verificati fatti che, pur avvenuti in contesti diversi, sono legati tra loro da un “filo rosso” che li unisce sottotraccia: l’uccisione da parte di un integralista islamico del regista olandese Theo van Gogh, “colpevole” di avere realizzato un cortometraggio offensivo della religione islamica, le riforme in discussione in Spagna, con la proposta di introdurre nelle scuole pubbliche lezioni di religione islamica, il dibattito sull’inserimento nella Carta Costituzionale dell’Unione Europea di un riferimento alle radici cristiane del continente.

Cosa unisce eventi così apparentemente diversi nella loro gravità e nel diverso allarme sociale suscitato? Si tratta evidentemente di fatti che chiamano in causa le ragioni sulle quali le persone professanti culti diversi decidono di fondare la propria convivenza ma anche le modalità con cui regolare i rapporti con i nuovi gruppi etnici e sociali; soprattutto, riguarda le caratteristiche e l’atteggiamento che uno Stato deve possedere e mantenere di fronte al fenomeno religioso e il ruolo delle proprie radici storiche e culturali nell'assetto sociale futuro contraddistinto da fenomeni di convivenza tra cittadini e popoli dei fede diversa. A complicare le cose è un dato che ormai appare consolidato: la mancata esistenza di un progetto o formula in grado di porsi come risolutore del latente conflitto sociale; il multiculturalismo di stampo olandese o francese ha in realtà prodotto una frattura laddove ha trovato applicazione, poichè ha provocato la creazione di una “società dentro la società”, senza alcuna fusione tra le culture. Permettere alle minoranze di vivere una vita separata dal resto del corpo sociale, con proprie scuole, luoghi di culto, festività ecc. non ha reso i suoi esponenti “più” francesi o olandesi o, auspicabilmente, cittadini francesi e olandesi di religione islamica ma ha in sostanza impedito la loro assimilazione nella società ospitante.

Così, in Francia come in Olanda (specie nelle grandi città), si assiste alla diffusione di “ghetti”, o comunità separate, con elevati livelli di delinquenza, specie giovanile, alienazione e povertà. Il modello statunitense, con la separazione tra affari religiosi e civili e la libertà di culto proclamata nella Costituzione come cardine della convivenza appare di poca utilità per la società europea. Se infatti gli Stati Uniti si configurano come una società fondata non sulla nazionalità ma sulla cittadinanza (lo Stato americano non è nato come comunità fondata sulla nazionalità ma come comunità di cittadini provenienti da diverse nazioni, e ancora oggi l’appartenenza è data dalla comune cittadinanza, non importa se acquisita da pochi anni o da diverse generazioni; anche con le restrizioni post-11 settembre, migliaia di “nuovi”americani giurano ogni anno sulla bandiera, assumendo l’obbligo di rispettare i valori su cui si fonda l’appartenenza alla federazione di stati americani), l’Europa è il prodotto di una storia plurisecolare, della faticosa nascita degli stati nazionali: le successive rinunce alla sovranità cui essi acconsentirono furono il frutto di un compromesso seguito a sanguinosi conflitti.

Oggi, il problema della conciliazione fra tutela della laicità, attributo cardine della società italiana repubblicana e la piena enunciazione del principio di libertà religiosa che comporta il divieto di ogni discriminazione per motivi religiosi ma anche di ogni impedimento all’esercizio del proprio culto investe il dibattito politico e culturale, e rappresenta fuor di dubbio la chiave di volta della futura regolamentazione dei rapporti con cittadini italiani praticanti culti diversi da quello dominante e stranieri residenti in territorio italiano. Personalmente, dopo aver esaminato nella mia tesi la situazione dei singoli Paesi europei e degli Stati Uniti, sono giunta alla conclusione che il progetto di multiculturalismo “nudo”, cioè praticato senza una reale inserimento degli immigrati nella società di accoglienza, sia sostanzialmente fallito. Permettere l’insediamento di comunità separate, con caratteristiche culturali molto marcate, considerare o fingere di farlo, tradizioni, usi e costumi opposti come perfettamente equivalenti quando non interscambiabili con i propri, ha in sostanza reso più difficile la vita dei nuovi arrivati, così come dei cittadini residenti. La soluzione, probabilmente, sta in una sorta di “terza via”, ovvero nell’adozione di una via intermedia tra l’atteggiamento di chi pretende di annullare le proprie consuetudini (non dimentichiamo che i culti religiosi con ciò che è loro connesso in termini di riti e simboli fanno parte della cultura di un popolo al pari della lingua, delle abitudini alimentari, della cosiddetta religiosità civile prodotta dagli eventi che plasmano la storia di una Nazione, e tutti questi elementi si influenzano a vicenda, basti considerare l’influsso del Cristianesimo o dell’Islam sulle lingue, sui cibi, sulle leggi e altro ancora dei vari popoli che hanno accolto l’una o l’altra fede monoteista) in nome dell'accoglienza o peggio di una presunta forma di tolleranza che in realtà è annientamento (basti rileggere quanto scrive a proposito della tolleranza un qualsiasi dizionario di lingua italiana: “disposizione d’animo per la quale si ammette senza dimostrarsi contrariato che un altro professi un’idea, un’opinione, una religione diversa o contraria dalla nostra”; Sant’Agostino scriveva che la tolleranza o è reciproca o non è tale: infatti, chi meglio di colui che vede compreso e rispettato il proprio credo religioso da parte di chi è in minoranza è più adatto in quanto parte della maggioranza a difenderne e sostenerne i diritti e il sentimento religioso qualora questi fossero limitati o impediti?) e la posizione di chi, all’opposto propugna una forma di doppia cittadinanza per praticanti fedi diverse da quella della maggioranza, con la creazione di una società separata nella quale è possibile praticare la bigamia, l'insegnamento in scuole clandestine di corsi di cultura e storia arabe di orientamento integralista, o constatare la presenza di cittadini che alla seconda generazione non sono ancora in grado di parlare la lingua del luogo (fatti questi riportati dagli organi di stampa e riferiti alle periferie delle maggiori città francesi).

La strada intermedia a cui si faceva riferimento dovrebbe invece mantenere fermo il principio del rispetto di usi e costumi e leggi locali da parte di chiunque si trovi a risiedere, in modo temporaneo o permanente, sul suolo nazionale, e dall'altro lato permettere l'esercizio del culto nel rispetto dei limiti costituzionali di ordine pubblico. Il mantenimento, anzi il potenziamento, della scuola pubblica è uno degli strumenti con cui conseguire tale obiettivo: nelle aule scolastiche si seguono programmi ministeriali e il crocifisso che vi si trova è parte dell’arredo scolastico così come previsto dai decreti e dalle circolari del Ministero della pubblica Istruzione oltre che il prodotto della storia della Nazione italiana; fa cioè parte di quella religiosità civile di cui si parlava, anche se ovviamente conserva pure il suo intrinseco significato religioso che però in quanto simbolo passivo e “muto” non può farlo associare ad alcun tentativo di proselitismo o indottrinamento religioso.

Un’importante sentenza emessa dalla Corte Costituzionale tedesca a proposito dell’ordinamento scolastico bavarese, stabilì che il crocifisso non rispettava il sentimento religioso di tutti gli allievi, ovvero anche di coloro che ne erano privi perché atei, ma a margine enunciava l'opinione dissenziente di tre giudici i quali scrissero che il “sacrificio” imposto dalla presenza del crocifisso ad allievi e maestri atei o di religione diversa era tollerabile in quanto il crocifisso è un simbolo passivo; inammissibile sarebbe l’obbligo di preghiera o saluto al crocifisso ma la semplice presenza del crocifisso costituisce un peso sopportabile e ciò perché diversamente dalla preghiera, gli allievi non cristiani non sono costretti a rivelare a causa della loro non partecipazione le loro divergenti convinzioni etico-religiose.

Per i giudici tedeschi la presenza della croce in classe non comporta una propagazione del convenuto del credo cristiano, nel senso che esso non ha un’influenza diretta sul contenuto dell’insegnamento e sugli scopi dell’educazione. Se a questo si aggiunge la storia del continente europeo (basta guardarsi attorno nelle nostre città) si può convenire che la croce nelle aule scolastiche conserva un carattere usuale, senza avere alcuna portata missionaria. Trovare l’equilibrio con cui percorrere tale strada intermedia non è facile anche perché diversi sono i contesti: così, una scuola di un piccolo paese di provincia non dovrà affrontare le problematiche che si presentano nelle grandi città o nelle zone industriali con un alto numero di immigrati e cittadini stranieri. Comunque, appare chiaro che alla fine l’accoglienza e l’inserimento con partecipazione effettiva alla vita del Paese in cui si vive, con la comprensione delle regole che sovrintendono il vivere sociale e il loro rispetto, con l’apprendimento della lingua del luogo, non possono che migliorare la convivenza e in definitiva rappresentare l’occasione per un autentico scambio culturale dal quale ricavare un reciproco arricchimento.


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