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La politicizzazione dell'arte in Adorno e Benjamin

Nella postilla al saggio L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica Benjamin contrappone al pericolo dell’estetizzazione della politica la chance positiva della politicizzazione dell’arte. La tecnica, quasi come pharmakon, può rendere l’arte ancella della dittatura fascista oppure prospettare una nuova alleanza tra l’estetico e il politico. Il cinema, arte/non arte di riferimento in questo saggio, manifesta in sé le due tendenze: attraverso il montaggio è in grado di creare una natura di secondo grado che può inventare un mondo fantastico o mostrare le contraddizioni inespresse del nostro. Benjamin rintraccia nel fenomeno di perdita dell’aura, come hic et nunc dell’opera, la possibilità per l’arte di caricarsi di un valore politico. L’autonomia, conquistata dopo secoli di servitù (alla religione e alla bellezza), mette in pericolo la sussistenza dell’arte stessa. Anche Adorno, all’inizio della sua Teoria Estetica, pone l’accento sulla perdita dell’ovvietà dell’arte. Per entrambi, è necessario che l’arte sfondi nel politico per poter continuare a vivere. I due, però, si dividono proprio sulla funzione dell’aura: per Benjamin l’aura scompare con la riproducibilità tecnica ed offre all’opera (il film) l’uscita dal paradigma estetico-tradizionale; Adorno, invece, crede che questa sia necessaria all’arte proprio per evitare una confusione arte-vita che non gli permetterebbe di esplicare la sua funzione critica. In altre parole, contesta all’amico la mancanza di rapporto dialettico tra opera auratica e opera riproducibile. Ciò sembra derivare anche dal fatto che Adorno non aveva compreso le potenzialità del cinema ma lo aveva sbrigativamente liquidato come strumento dell’Industria Culturale. Tuttavia la sua critica coglie nel segno e solo mettendo in rapporto il saggio sull’opera riproducibile con quello Di alcuni motivi in Baudelaire, possiamo meglio comprendere la portata della transizione dell’arte nell’era della riproducibilità tecnica. In quest’ultimo saggio Benjamin abbandona l’ottimismo che aveva pervaso il primo, per soffermarsi sugli aspetti negativi della perdita dell’aura. La riproducibilità della foto allargherebbe il raggio d’azione della memoria volontaria a scapito di quella involontaria condannando il piacere estetico della rievocazione. L’opera d’arte non offrirebbe più all’uomo una contemplazione associativa ma lo sottoporrebbe a stimolazioni percettive “shockanti”, decretandone un inevitabile impoverimento dell’esperienza in senso proprio. Il Bello perde il suo posto all’interno dell’arte e qui ritroviamo Adorno. Quest’ultimo, sempre nella Teoria Estetica, afferma che l’arte deve rinunciare al bello in quanto esso è diventato un strumento di seduzione per le masse utilizzato da Hollywood. All’arte, a cui preme la propria sussistenza, è affidato il compito politico di mostrare la sofferenza di quanti non possono parlare. L’opera, come negazione determinata del mondo, rifiuta la conformazione operata dalla ratio e fa emergere nel mondo amministrato quell’alterità soffocata. Tuttavia all’artista non è data la possibilità di salvare il mondo. L’opera, che può offrirsi come valido antidoto all’Industria Culturale, nega se stessa come utopica e dichiara irraggiungibile la propria promessa di felicità. Nell’estetica di Adorno non c’è spazio per Brecht. La mimesis negativa dell’artista adorniano conduce ad una via solitaria. Il rifiuto della tecnica moderna, in quanto inevitabilmente massificante, porta al “silenzio” di Beckett, alla “dodecafonia” di Schönberg. Ma proprio quando non c’è più speranza, ci è dato sperare. La speranza del testimone risiede proprio nei dispositivi di registrazione moderni: la memoria volontaria si offre all’artista come incancellabile e sempre disponibile.

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2 1. L’AURA 1.1 L’AURA NEL SAGGIO L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA. Nel saggio Piccola storia della fotografia Benjamin definisce l’aura: «un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione; tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo.» 1 L’aura, in altre parole, viene intesa come la percezione dell’hic et nunc di un oggetto o di una situazione. L’uomo, di fronte a un panorama, coglie di esso un’immagine unica e irripetibile, legata al luogo in cui l’ha vissuta, che si trasforma in un’esperienza altrettanto unica e irripetibile. L’inavvicinabilità e l’intangibilità di tale immagine ne costituiscono l’aura. L’esperienza auratica riguarda l’oggetto immerso nel contesto spazio-temporale in cui vive, che lascia un segno indelebile nell’uomo. Tuttavia, secondo Benjamin, c’è nell’uomo la tendenza ad avvicinarsi a quegli oggetti, a bruciare quella lontananza che ne garantisce la fluorescenza. La tecnica moderna risponde a questa tendenza. Con la nascita della fotografia possiamo finalmente raggiungere l’oggetto, racchiuderlo in un rettangolo di carta e renderlo fruibile alla maggior parte degli uomini; in ultima istanza, toccarlo (e ciò che viene toccato perde il suo valore). Lo scatto fotografico libera, così, l’oggetto dalla sua guaina, supera la sua unicità e predispone il meccanismo riproduttivo. 1 W. Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 (trad. it. Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, 2000, p. 70).

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