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Come sul luogo del delitto. Realismi traumatici tra pittura e fotografia

La prima parte della tesi sarà indirizzata ad una comprensione generale dei rapporti che hanno animato il dibattito fondamentale tra pittura e fotografia riguardante lo statuto attribuibile o meno a quest’ultima e le riflessioni semiotiche che hanno animato la questione. Nel primo capitolo una sintesi storica si articolerà attraverso le differenti teorie riguardanti lo “stato dell’arte” a partire dall’effetto destabilizzante che il medium fotografico ha avuto nella società (Benjamin), nei meccanismi di percezione (con Panowfsky, Gombrich e Arnheim) e nei processi di mediazione con la realtà stessa, a partire dall’apertura alla prospettiva dell’Altro, lacanianamente inteso, come oggetto altrimenti dotato di una ricchezza simbolica culturalizzata con cui viene a patti la mia apprensione illusoriamente neutra. Il capitolo si conclude con una trattazione generica degli elementi specificanti l’eventuale artisticità dell’opera: in tal senso sono utili le nozioni di “sintomi dell’estetico”, “implementazione” (Goodman), di “costanti stilistiche” ed “idioletto estetico” (Eco), fino alla chiusura, riprendendo il filo cronologico, della storia di un’arte moderna e l’apertura alla questione dell’intermedialità, nell’era della “tecnoimmaginazione” (Flusser) con le conseguenze che da essa derivano.
Il secondo capitolo intende porre le basi minime per una comprensione delle teorie che sono alla base della nostra tesi nonché dei concetti che ne sono la premessa. La semiotica di stampo peirciano è il punto di partenza per illustrare la teoria successiva, da Bazin, Dubois e Barthes che concepisce un tipo di pragmatica prima di tutto produttiva. Ad essa segue la riflessione di Schaeffer che sposta l’attenzione alle pratiche di ricezione dell’immagine e la questione riguardante la problematica dell’iconismo attraverso i contributi di Eco e Maldonado. Un’introduzione, questa, alla parte conclusiva del capitolo che affronta, più specificatamente, la questione del realismo, della mimesi, e la relazione, spesso naturale, che sovviene nella considerazione dell’immagine fotografica. In ultimo verranno illustrati i concetti che ci guideranno nell’analisi delle opere al centro della seconda parte: le considerazioni messe a confronto di Barthes e Lacan faranno da apripista alla comprensione degli elementi che la stessa mitologia, letteratura, e cinematografia utilizzano nel trattare la Fotografia, ratificando spesso la teoria ontologizzante del discorso sull’immagine fotografica concepita a partire dall’atto della sua produzione. Si propone infine un’affinità fra alcuni dei concetti fin qui illustrati che orienteranno la nostra pratica di analisi anche a partire da una riconfigurazione di quegli stessi alla luce dei nuovi processi di interpretazione e ricezione delle immagini.

La seconda parte, per concludere, sarà dedicata all’ analisi di tre opere, tutte parte di una serie per ogni autore, Andy Warhol, Gerhard Ricther e Andres Serrano. Le opere in questione affrontano l’idea di Morte e la morte stessa, evento/idea, invisibile nella rappresentazione, e presenza concreta, corpo cadavere visibile e riconoscibile. La pratica di analisi è introdotta da una parziale indicazione degli strumenti metodologici di cui ci avvarremo ed è svolta a partire da un approccio che, a differenza di quello più soggettivo che ha guidato Barthes nella sua Le chambre claire (1980), riprende la semiotica plastica di Floch e si apre ad una ricerca dell’eventuale dialogo fra gli studi teorici sull’immagine fotografica e quelli della semiotica stessa. L’approccio ai testi nasce dunque, prima di tutto, dal concetto di una negoziazione sociale dei sensi inscritti nell’immagine, dipendente dalla grammatica del dominio che tale immagine ingloba (quello artistico in questo caso), e una ricerca dell’eventuale coerenza, o anche contraddizione, che essa trattiene a partire dall’elemento plastico; questo saprà dirci qualcosa di più sulla “vita dell’immagine” stessa e al limite ridefinire la medesima pratica di ricezione che l’aveva prima sostanziata.

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Introduzione A partire da una considerazione quanto mai attuale, l’interrogativo Quando è l’arte? a cui si deve la riflessione di Goodman (1968), ha saputo guidarci nella scelta di un campo, come quello dell’immagine “fotografica” alla luce delle nuove modalità di fruizione e in rapporto all’accoglienza che in anni recenti è stata data a questo tipo di immagini nelle gallerie d’arte. L’arte contemporanea, se assumiamo come riferimento cronologico un punto di partenza effettivo nel secondo dopoguerra, ha definitivamente smarrito il suo carattere affermativo monumentale, scegliendo di ripiegarsi su di sé, in un monologo riflessivo che già a partire dagli inizi del Novecento ha caricato le pratiche artistiche moderne di quel plus concettuale, che la semiotica classica del linguaggio applicata alle arti ha faticato a sistematizzare (Calabrese 1985). Si tratta, dunque, di prendere atto di un nuovo linguaggio estetico-espressivo che viene ridefinendosi durante tutto il XX secolo e deve in parte la sua origine al secolo ad esso precedente. Il 1839 è infatti l’anno della scoperta ufficiale della fotografia ad opera, e forse non è questo un caso, di un pittore: Jacques Louis Daguerre. La pittura stessa va perdendo quello statuto di rappresentazione realistica del sensibile, il suo essere “finestra sul mondo” tradotto nel tecnicismo (come messa in forma semiotica) della prospettiva rinascimentale, ciò che Greimàs individuerebbe come dispositivo atto a produrre un “effetto di realtà” o “illusione referenziale”. La pittura cede la sua egemonia documentaria alla fotografia. Ne sono conseguenti i dibattiti critici e teorici che da Baudelaire arrivano sino alle riflessioni attuali. Nostra intenzione è partire dalle questioni rilevanti che hanno alimentato il dibattito dell’epoca e tentare di risolverne alcune delle aporie potendo contare su di un concreto sfondo sociale di ridefinizione degli statuti delle immagini artistiche stesse, e delle pratiche che articolano esperienze visive, o più propriamente nei termini utilizzati da Fontanille (2004), sinestetiche. In tal senso la prospettiva in cui intendiamo porre il nostro lavoro è prima di tutto figlia di quella inaugurata dal saggio di 7

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