Floch, Les formes de l’empreinte (1986), considerato fondativo
della teoria del discorso. Per la teoria classica greimasiana, infatti,
una retorica generale del discorso non classifica le diverse
testualità attraverso i differenti media produttivi o i canali
sensoriali attraverso i quali l’informazione testuale viene
prelevata: sarebbe improponibile una catalogazione delle varie
semiotiche (pittura, fotografia, cinema, etc.) a partire dalle
sostanze dell’espressione. Ci proponiamo dunque, al pari di Floch,
una volontà di deontologizzare il discorso sull’immagine
fotografica; un discorso, questo, che si è nutrito delle
considerazioni filo-peirciane inerenti ad una pragmatica di tipo
produttivo: una tassonomia paralizzante dell’immagine ridotta
all’atto della sua produzione, un asfissiante rapporto type/token
che non consente all’immagine fotografica di poter vivere di vita
propria, poiché sempre ricondotta alla prassi genetica che la
fonderebbe. Il rischio denunciato di approcci di questo tipo è di
utilizzare la fotografia solo come un mezzo di riflessione più
generale, perdendo di vista la capacità di tali immagini di poter
mettere in atto strategie di senso, poter significare
autonomamente e infine poter essere, al pari di altre, investite di
assiologie valoriali che chiamano in campo un tipo di pragmatica
che è anche quella della ricezione.
Se è indubbiamente l’analisi plastica, di stampo generativo,
quella di cui ci siamo valsi per lo studio pratico delle opere qui
riportate abbiamo voluto anche, e soprattutto, rendere conto delle
pratiche fruitive sottintese alla questione stessa che concerne
l’esposizione di queste specifiche opere in uno spazio come quello
di una galleria e di un museo, facenti dunque parte di un universo
artistico e non documentario o di altro profilo. Questo perché è
pressoché impossibile prendere in considerazione solo le
costrizioni testuali che modellano un osservatore possibile; è
necessario aprirsi anche alle “costrizioni socioculturali” legate alle
pratiche, in quanto l’immagine fotografica, riprendendo Rastier
(2001), è un testo che vale all’interno e per una data cultura.
L’immagine fotografica esiste a partire dalla pratica che la
ingloba, così l’informazione sulla sua genesi può diventare più o
meno pertinente all’interno delle differenti pratiche di
semantizzazione. Se il sapere sulla produzione guida i percorsi
interpretativi è senza dubbio un radicato luogo comune quello che
considera la fotografia come “ripresa automatica e priva di filtri”
del reale stesso. La pretesa veridicità dell’immagine è sicuramente
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“altro”, fattore secondario, per ciò che riguarda la foto artistica
rispetto a quella documentaria e, tuttavia, ancora risulta capace di
rendersi pregiudiziale del suo valere o meno come opera d’arte.
La particolarità della fotografia, l’appartenere al mondo delle
cose (indice, traccia) quanto al mondo delle rappresentazioni
(immaginari della cultura visiva) è anche il suo limite più evidente.
L’ambiguità ontologica di questa fa sì che Picaudé (cit. Dondero,
Basso Fossali 2006) possa chiedersi, e noi con lui, se vedere la
fotografia è più prossimo a vedere la cosa fotografata o al vedere
un’immagine.
Di qui, la nostra scelta del tema fondativo di una certa teoria
della Fotografia, quale la Morte. Ancora: la questione del trauma e
dello shock che abbiamo voluto prendere in considerazione a
partire dal contributo di Jacques Lacan coevo, negli anni sessanta,
ad un primo utilizzo evidente delle immagini fotografiche per
scopi artistici. Se il concetto di Morte è, sin dalla sua origine,
applicato all’atto stesso della fotografia (Dubois, Sontag),
immobilizzante la dinamicità del reale, hic et nunc smarrito per
sempre, se è alla Morte come un qualcosa che “è stato” che si
riconduce il noema barthesiano, la rappresentazione stessa di
questa, come idea di morte o come materia (corpo-oggetto,
cadavere) in un’immagine, priva di ogni apparente criterio
documentaristico, alimenta una sorta di saturazione del
significato; percuote il soggetto che lo riceve dal godimento
pacifico a cui l’arte solitamente lo destinava. Parlare di “realismi
traumatici” ci consente di definire il “trauma” nell’accezione che
Hal Foster (1996) riprende da Lacan come paradossale “mancato
incontro con il reale”: ciò che ci ricorda che il reale, di per sé, è
“irrappresentabile” - “Intrattabile” direbbe Barthes – rendendoci
consapevoli dello scarto che incorre fra la posa (l’evento shock,
immediato, temporaneo) e lo sguardo che si sofferma su di essa
(elaborazione del trauma). Più chiaramente: ciò che ci induce ad
oscillare nella valutazione di quanto sia inerente al “vero” e
quanto sia generato dall’immagine intesa come testualità. Un
precario equilibrio che si pone tanto più in maniera evidente per
le immagini fotografiche complici di quel “realismo” che il più
della teoria considera loro connaturato. Se abbiamo parlato di
“immagini fotografiche” e non più propriamente di “fotografie” è
perché, preso atto della compenetrazione e della connivenza, fra
le diverse espressioni artistiche, proprio la pittura, alla quale
aderisce l’idea della manipolazione della tela-superficie, che mette
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in primo piano una sintassi manuale senso-motoria (Fontanille
2004), può risultare il banco di prova effettivo, nel suo
confronto, per tentare di scoprire quanto di questo effetto
traumatico - stato tensivo dell’osservatore che non è in grado di
cogliere l’essenza, identificare le forme, riconoscere e “credere”
nell’immagine - sia o meno attribuibile alla prensione
dell’immagine fotografica frutto di una vulgata che la giudica
aprioristicamente soggetta alla pratica documentaria o, appunto,
alla capacità del testo di mettere in atto delle strategie
enunciazionali, di natura anche intertestuale, che sappiano
proporsi ad un dialogo con il fruitore. Riprendendo l’interrogativo
d’apertura di Goodman non possiamo non tirare a sostegno della
nostra tesi le prospettive critiche, da Bourdieu, con Greimàs, Eco,
Schaeffer, sino a Floch secondo cui la rappresentazione
“realistica” è il prodotto di processi di stereotipizzazione,
attitudini a concepire come “naturale” un’immagine che è
risultante di una serie di strategie a cui siamo culturalmente
abituati: così l’iconicità è prima di tutto un fenomeno
intraculturale e non universalistico e altrimenti, citando ancora
Goodman, “il ‘realismo’ è un fatto di abitudine”. Alla domanda
iniziale, a cui si è data più volte risposta in questi anni, preso atto
dell’effettiva dinamicità che hanno i testi attraverso le pratiche di
appropriazione sociale (da statuto artistico a testimoniale e
viceversa per esempio) vogliamo tentare di dare ulteriori risposte,
provocando il fruitore anche a fronte di immagini che, per
soggetto che potremmo definire come estremo a livello turbativo
(cadavere, evento drammatico) e trattamento di questo, invocano
una presa di coscienza della propria prassi di giudizio spesso
ancorata a criteri che muovono l’interpretazione e l’eventuale
comprensione esclusivamente a partire dal mezzo che genera
l’immagine e ne attribuisce qualità ed effetti unicamente
conseguenti a questo.
La prima parte della tesi sarà indirizzata ad una comprensione
generale dei rapporti che hanno animato il dibattito fondamentale
tra pittura e fotografia riguardante lo statuto attribuibile o meno a
quest’ultima e le riflessioni semiotiche che hanno animato la
questione. Nel primo capitolo una sintesi storica si articolerà
attraverso le differenti teorie riguardanti lo “stato dell’arte” a
partire dall’effetto destabilizzante che il medium fotografico ha
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avuto nella società (Benjamin), nei meccanismi di percezione
(con Panowfsky, Gombrich e Arnheim) e nei processi di
mediazione con la realtà stessa, a partire dall’apertura alla
prospettiva dell’Altro, lacanianamente inteso, come oggetto
altrimenti dotato di una ricchezza simbolica culturalizzata con cui
viene a patti la mia apprensione illusoriamente neutra. Il capitolo
si conclude con una trattazione generica degli elementi
specificanti l’eventuale artisticità dell’opera: in tal senso sono
utili le nozioni di “sintomi dell’estetico”, “implementazione”
(Goodman), di “costanti stilistiche” ed “idioletto estetico” (Eco),
fino alla chiusura, riprendendo il filo cronologico, della storia di
un’arte moderna e l’apertura alla questione dell’intermedialità,
nell’era della “tecnoimmaginazione” (Flusser) con le conseguenze
che da essa derivano.
Il secondo capitolo intende porre le basi minime per una
comprensione delle teorie che sono alla base della nostra tesi
nonché dei concetti che ne sono la premessa. La semiotica di
stampo peirciano è il punto di partenza per illustrare la teoria
successiva, da Bazin, Dubois e Barthes che concepisce un tipo di
pragmatica prima di tutto produttiva. Ad essa segue la riflessione
di Schaeffer che sposta l’attenzione alle pratiche di ricezione
dell’immagine e la questione riguardante la problematica
dell’iconismo attraverso i contributi di Eco e Maldonado.
Un’introduzione, questa, alla parte conclusiva del capitolo che
affronta, più specificatamente, la questione del realismo, della
mimesi, e la relazione, spesso naturale, che sovviene nella
considerazione dell’immagine fotografica. In ultimo verranno
illustrati i concetti che ci guideranno nell’analisi delle opere al
centro della seconda parte: le considerazioni messe a confronto di
Barthes e Lacan faranno da apripista alla comprensione degli
elementi che la stessa mitologia, letteratura, e cinematografia
utilizzano nel trattare la Fotografia, ratificando spesso la teoria
ontologizzante del discorso sull’immagine fotografica concepita a
partire dall’atto della sua produzione. Si propone infine
un’affinità fra alcuni dei concetti fin qui illustrati che
orienteranno la nostra pratica di analisi anche a partire da una
riconfigurazione di quegli stessi alla luce dei nuovi processi di
interpretazione e ricezione delle immagini.
La seconda parte, per concludere, sarà dedicata all’ analisi di
tre opere, tutte parte di una serie per ogni autore, Andy Warhol,
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Gerhard Ricther e Andres Serrano. Le opere in questione
affrontano l’idea di Morte e la morte stessa, evento/idea,
invisibile nella rappresentazione, e presenza concreta, corpo
cadavere visibile e riconoscibile. La pratica di analisi è introdotta
da una parziale indicazione degli strumenti metodologici di cui ci
avvarremo ed è svolta a partire da un approccio che, a differenza
di quello più soggettivo che ha guidato Barthes nella sua Le
chambre claire (1980), riprende la semiotica plastica di Floch e si
apre ad una ricerca dell’eventuale dialogo fra gli studi teorici
sull’immagine fotografica e quelli della semiotica stessa.
L’approccio ai testi nasce dunque, prima di tutto, dal concetto di
una negoziazione sociale dei sensi inscritti nell’immagine,
dipendente dalla grammatica del dominio che tale immagine
ingloba (quello artistico in questo caso), e una ricerca
dell’eventuale coerenza, o anche contraddizione, che essa
trattiene a partire dall’elemento plastico; questo saprà dirci
qualcosa di più sulla “vita dell’immagine” stessa e al limite
ridefinire la medesima pratica di ricezione che l’aveva prima
sostanziata.
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