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Gadamer e Derrida in dialogo. Testo, metafisica, alterità.

Fra i momenti più problematici ed ambigui della filosofia contemporanea, l'incontro "improbabile" a Parigi del 1981 fra Hans-Georg Gadamer e Jacques Derrida rappresenta il punto di partenza inaggirabile attraverso cui dipanare il filo capace di tessere un confronto critico tra ermeneutica filosofica e decostruzione. Senza indulgere nel comodo rilevamento di affinità e comunanze, il presente elaborato intende piuttosto insistere sulle faglie di rottura tra le posizioni teoretico-prassistiche di questi due grandi pensatori. La questione della metafisica, la nozione di testo e il problema del dialogo costituiscono i tre momenti principali attraverso cui strutturare (e circoscrivere, trattandosi pur sempre di una tesi di laurea triennale) un confronto serrato ma tutt'altro che definitivo.

Si farà costante riferimento al background condiviso da Gadamer e Derrida (Heidegger, Hegel, Platone, la fenomenologia), marcando tuttavia i differenti innesti che hanno condotto allo sviluppo di due filosofie solo superficialmente prossime (l'idealismo tedesco e la tradizione umanistica per Gadamer; lo strutturalismo e la psicoanalisi per Derrida). La nozione di testo e il suo rapporto con il senso, la scrittura, il contesto, l'interpretazione, emergerà come snodo cruciale a partire dal quale rivisitare il concetto stesso di dialogo: pratica non più a-metafisica che consiste nello scongiurare il monologismo del Logos, come per Gadamer, ma pienamente metafisica in quanto implica la riduzione dell'alterità ad un terreno di scambio mai equilibrato e trasparente e la sua sottomissione all'economia del senso.

L'atteggiamento refrattario e apparentemente ostile di Derrida nei confronti di Gadamer al convegno del 1981 apparirà in conclusione come il tentativo di mostrare la portata non solo concettuale ma anche prassistica della decostruzione.

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- 4 - Introduzione Accostarsi agli atti di un convegno che ha avuto come protagonisti due figure come Hans-Georg Gadamer (1900 – 2002) e Jacques Derrida (1930 – 2004) pone fin da subito un problema: per poter giudicare se effettivamente un dialogo abbia avuto luogo, biso- gnerebbe prima di tutto avere in mente che cosa il dialogo sia, quali siano le precondizio- ni e quali i sintomi che ne attestino la riuscita. Ma quando è proprio la nozione di dialogo ad essere, fra le altre al centro del contendere, un punto di divergenza insuperabile fra i due filosofi, il quadro inevitabilmente si complica. Stando alle testimonianze, l’incontro del 24 e 25 aprile 1981 al Goethe-Institut di Pari- gi fu un autentico fallimento. Di un tale esito furono individuate molte cause: dall’atteggiamento elusivo di Derrida fino a difficoltà ed incomprensioni legate al parlare lingue diverse. Con questo elaborato intendo in primo luogo unirmi a coloro che sosten- gono che il problema fu sì principalmente linguistico, ma non nel senso inteso da Gada- mer in una sua lettera a Fred Dallmayr 1 . Come giustamente ha sottolineato Rorty, seppure forse un po’ “rozzamente”, filosofi come Derrida forgiano «nuovi modi di parlare, piutto- 1 «My encounter with Derrida in Paris three years ago […] involved special difficulties. First of all, there was the language barrier. There is always a great difficulty when thinking or poetizing strives to leave tradi- tional forms behind, trying to draw out of one’s own mother tongue new ways of thinking» (H.-G. Gadamer, Letter to Dallmayr, in Dialogue and Deconstruction. The Gadamer-Derrida Encounter, a c. di R. Palmer e D. Michelfelder, State University of New York Press, Albany 1989, p. 72). Tale testo, disponibi- le solo nella traduzione inglese, è stato la base per il saggio Dekonstruktion und Hermenutik del 1988, in- cluso nel decimo volume dei Gesammelte Werke (pp. 138 e ss.) e tradotto come Decostruzione ed ermeneu- tica in H.-G. Gadamer, Ermeneutica. Uno sguardo retrospettivo, trad. it. a cura di G. B. Demarta, Bompia- ni, Milano 2006, p. 269 e ss. La frase citata si trova, rielaborata, proprio in apertura, a p. 269: «Il colloquio tra autonomi prosecutori di impulsi heideggeriani, che il mio incontro parigino con Derrida di qualche anno fa voleva essere, ebbe a che fare con particolari aggravanti. Tra queste soprattutto la barriera linguistica. Quest’ultima s’innalza sempre quando il pensare e il poetare aspirano ad abbandonare forme tradizionali e mirano a trarre nuove direttive dall’ascolto della propria lingua madre» (traduzione modificata).

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