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Introduzione
Accostarsi agli atti di un convegno che ha avuto come protagonisti due figure come
Hans-Georg Gadamer (1900 – 2002) e Jacques Derrida (1930 – 2004) pone fin da subito
un problema: per poter giudicare se effettivamente un dialogo abbia avuto luogo, biso-
gnerebbe prima di tutto avere in mente che cosa il dialogo sia, quali siano le precondizio-
ni e quali i sintomi che ne attestino la riuscita. Ma quando è proprio la nozione di dialogo
ad essere, fra le altre al centro del contendere, un punto di divergenza insuperabile fra i
due filosofi, il quadro inevitabilmente si complica.
Stando alle testimonianze, l’incontro del 24 e 25 aprile 1981 al Goethe-Institut di Pari-
gi fu un autentico fallimento. Di un tale esito furono individuate molte cause:
dall’atteggiamento elusivo di Derrida fino a difficoltà ed incomprensioni legate al parlare
lingue diverse. Con questo elaborato intendo in primo luogo unirmi a coloro che sosten-
gono che il problema fu sì principalmente linguistico, ma non nel senso inteso da Gada-
mer in una sua lettera a Fred Dallmayr
1
. Come giustamente ha sottolineato Rorty, seppure
forse un po’ “rozzamente”, filosofi come Derrida forgiano «nuovi modi di parlare, piutto-
1
«My encounter with Derrida in Paris three years ago […] involved special difficulties. First of all, there
was the language barrier. There is always a great difficulty when thinking or poetizing strives to leave tradi-
tional forms behind, trying to draw out of one’s own mother tongue new ways of thinking» (H.-G.
Gadamer, Letter to Dallmayr, in Dialogue and Deconstruction. The Gadamer-Derrida Encounter, a c. di R.
Palmer e D. Michelfelder, State University of New York Press, Albany 1989, p. 72). Tale testo, disponibi-
le solo nella traduzione inglese, è stato la base per il saggio Dekonstruktion und Hermenutik del 1988, in-
cluso nel decimo volume dei Gesammelte Werke (pp. 138 e ss.) e tradotto come Decostruzione ed ermeneu-
tica in H.-G. Gadamer, Ermeneutica. Uno sguardo retrospettivo, trad. it. a cura di G. B. Demarta, Bompia-
ni, Milano 2006, p. 269 e ss. La frase citata si trova, rielaborata, proprio in apertura, a p. 269: «Il colloquio
tra autonomi prosecutori di impulsi heideggeriani, che il mio incontro parigino con Derrida di qualche anno
fa voleva essere, ebbe a che fare con particolari aggravanti. Tra queste soprattutto la barriera linguistica.
Quest’ultima s’innalza sempre quando il pensare e il poetare aspirano ad abbandonare forme tradizionali e
mirano a trarre nuove direttive dall’ascolto della propria lingua madre» (traduzione modificata).
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sto che fare scoperte filosofiche sorprendenti su quelli vecchi. Di conseguenza, è impro-
babile che riescano bene nell’argomentare»
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.
L’esito improbabile di quel dialogo fu infatti determinato principalmente
dall’inconciliabilità tra due idiomi filosofici molto diversi fra loro, senza che con questo
si voglia sminuire il peso di un determinato sfondo storico che ha senz’altro avuto la sua
incidenza: gli anni Ottanta erano appena iniziati, Gadamer era un filosofo tanto celebrato
quanto aspramente criticato
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, ma la sua ricezione in Europa era meno travagliata rispetto
a quella di Derrida, che proprio in quel periodo cercava di prendere le distanze da chi ve-
deva nella decostruzione una pratica letteraria estetizzante e, per dirla con Foucault, oscu-
rantista, oppure ancora una psicoanalisi della filosofia, una teologia negativa, un postmo-
dernismo qualunque o, appunto, una forma più radicale ed ambigua di ermeneutica. Non
sono pochi, infatti, i punti di contatto fra queste due correnti di pensiero. Entrambe non
sarebbero state possibili senza Martin Heidegger (1889-1976) ed entrambe sono assidue
frequentatrici di orizzonti comuni: il pensiero hegeliano, più in generale l’idealismo tede-
sco, e quello greco, Platone in primis, fino a poeti come Paul Celan e Mallarmé.
L’esigenza di Derrida, in quegli anni, era dunque quella di fare chiarezza su cosa la
decostruzione non fosse, dal momento che, per su sua stessa ammissione, era praticamen-
te impossibile, oltre che teoreticamente improprio, elaborarne una definizione univoca.
Questo strappo iniziale venne poi ricucito privatamente, come spesso avviene, negli
anni che seguirono, man mano che la vocazione etica e prassistica della decostruzione si
manifestava con sempre maggior vigore. È infatti proprio a partire dagli anni Ottanta che
2
R. Rorty, Deconstruction and Circumvention, in Id., Essays on Heidegger and Others Philosophical Pa-
pers. Vol. 2, Cambridge University Press, New York 1991, p. 92 (il testo, sotto il titolo Decostruzione e
circonvenzione, è incluso negli Scritti filosofici, vol. 2, trad. it. di . B. Agnese, ed it. a c. di A. Gargani, La-
terza, Roma-Bari 1993, pp. 117-145, qui p. 127).
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Risale al 13 giugno 1979 l’atto finale della polemica con Jürgen Habermas (iniziata oltre dieci anni prima
con la famosa controversia sul rapporto fra ermeneutica e critica dell’ideologia) con la laudatio di
quest’ultimo in onore di Gadamer intitolata L’urbanizzazione della provincia heideggeriana.
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Derrida sposa apertamente cause di carattere civile, arrivando a ricoprire nei due decenni
successivi un ruolo di intellettuale engagé non troppo dissimile da quello sdoganato una
generazione prima da Jean-Paul Sartre (1905-1980), ma in fondo proprio dell’intera tra-
dizione intellettuale francese. È indicativa, in questo senso, la scelta di farsi fotografare
dai giornalisti per la prima volta durante le riunioni degli Stati Generali della Filosofia, da
lui co-indetti nel 1979 in reazione ad una riforma scolastica promossa da Giscard
d’Estaing che prevedeva un sensibile ridimensionamento dell’importanza della filosofia
all’interno dei programmi ministeriali. Da quel momento in poi le sue pubblicazioni si fe-
cero sempre più numerose, arrivando a toccare temi quali la pena di morte, la tecnica (e la
tecnologia), il razzismo, l’apartheid, la sovranità, l’ebraismo, l’amicizia, il marxismo,
l’ospitalità e la globalizzazione – oggetti di riflessione largamente condivisi da Gadamer
–, con prese di posizione talvolta piuttosto nette, come quella contro la politica repressiva
del governo cecoslovacco che nel 1981 lo portò ad essere arrestato a Praga mentre teneva
un seminario clandestino per alcuni intellettuali dissidenti.
Il ponte che si venne a creare tra ermeneutica e decostruzione fu quindi motivato da
comuni esigenze etiche e pratiche, capaci di far passare in secondo piano le differenti ela-
borazioni teoretiche che le avevano rese possibili, mentre fra i due filosofi si creò un le-
game di amicizia rafforzato dagli impegni che li videro assieme in Germania, in Francia e
in Italia (qui attorno alle iniziative dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli).
Ci resterà per sempre ignoto quanto si dissero in privato, a che conclusioni fossero
giunti circa le loro posizioni e che cosa avessero compreso ed apprezzato l’uno dell’altro
– ed è giusto così. Sotto il profilo pubblico, la storia è dunque ferma a quell’aprile del
1981; a chi si metta sulle tracce di questi due grandi pensatori spetta il difficile compito
di seguire sentieri che facilmente si rivelano interrotti. Talvolta si ha l’impressione che lo
stesso Derrida sia rimasto spiazzato dall’interruzione occorsa fra lui e Gadamer e, in fon-
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do, da lui stesso provocata. Nel suo ricordo pubblicato sull’edizione del 23 marzo 2003
della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Derrida scrive:
Confesso anche un’altra cosa, che può apparire come un alibi: pensavo che la sua immortalità ci avreb-
be permesso di rimandare in modo pressoché indefinito, come già avevamo fatto così a lungo, il momento
di un reale «confronto», questa discussione a cui amici comuni negli Stati Uniti e in Europa ci incitavano
sempre. Alcuni si lamentavano, altri mi accusavano di non essere mai entrato davvero in questo dialogo che
Gadamer aveva inaugurato nel 1981 al Goethe-Institut di Parigi e al quale mi era sembrato di sfuggire. So-
no propenso a credere che non avessero tutti i torti. Si deve sapere che tra Gadamer e me si era sviluppata la
discussione più stretta, più seria e meglio informata, ma senza che noi fossimo lì […]. Si è sviluppata, se
posso dire, dentro di noi senza di noi, grazie alla mediazione dei suoi numerosi allievi e successori, in par-
ticolare negli Stati Uniti e in Italia
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.
La morte di Gadamer ha certo vanificato la possibilità di un confronto diretto, ma non
ha impedito al dialogo di continuare, come dialogo interiore, dentro Derrida; e, scompar-
so anche lui, senza di loro, tra i loro allievi. È questo il punto di fuga della prospettiva che
andrò elaborando: un’altra forma di dialogo capace di perdurare attraverso il tempo so-
pravvivendo agli interlocutori iniziali, che non si attua più nella presenza a tu per tu, gra-
zie ad un’interazione faccia a faccia o a distanza fra due persone, dove centrale è la voce,
bensì grazie ad una produzione potenzialmente infinita di scrittura.
Questo dialogo continua proprio perché, a causa di un’interruzione originaria, è rima-
sto incompiuto, compromesso da una violenta frattura che secondo l’ermeneutica non po-
trà mai essere definitivamente ricomposta e che nella prospettiva di Derrida è tale fin
dall’origine, non essendo mai derivata da un tutt’uno compatto.
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J. Derrida, Comme il avait raison! Mon Cicérone Hans-Georg Gadamer (l’originale francese è apparso
per la prima volta nel volume «Il y aura ce jour... ». A la mémoire de Jacques Derrida, a c. di G. Leroux,
C. Lévesque e G. Michaud , A l’impossible, Montréal 2005, p. 53-56).
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Di questa frattura dovremo rendere conto, più che di ogni possibile congiunzione.
Troppe volte infatti si è cercato di rimarcare le zone di prossimità fra Gadamer e Derrida,
trascurando le insanabili divergenze che, nel corso della trattazione, sarà nostro dovere
mettere in luce prima di trarre qualsivoglia conclusione. Se da un lato questo scritto in-
tende infatti riprendere il filo interrotto trent’anni fa, cercando di ricostruire un’ideale
palcoscenico di confronto, dall’altro non può esimersi dal rispettare quell’interruzione
che sembrò vanificare ogni possibilità di dialogo, senza considerarla un accidente dovuto
all’indisposizione di uno dei partecipanti
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.
Ma prima di poter delineare la posizione «filosoficamente impossibile»
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di Derrida
sopra accennata, sarà necessario impostare un confronto critico tra ermeneutica e deco-
struzione, a partire dalla relazione che Gadamer scrisse appositamente per inaugurare
l’incontro del 1981, Testo e interpretazione, la quale ci introduce ad una serie di proble-
matiche che sarà nostro compito sciogliere, estendendo il confronto oltre il convegno
stesso, cercando nell’opera dei due autori un tracciato su cui tessere una ricostruzione per
lungo tempo rinviata dagli studiosi o tentata attraverso aspetti, mi sembra, di secondaria
importanza se non talvolta trascurabili.
Testo, metafisica e alterità saranno i tre condotti principali attraverso cui giungere alla
formulazione di una risposta. Le domande che solleveremo, a partire dai testi,
sull’essenza stessa del testo, circa i suoi confini e a proposito della possibilità di un senso,
non avranno un carattere strettamente regionale, limitato cioè al solo ambito letterario o
linguistico. Interrogarsi sul senso equivale a interrogarsi sulla verità, interrogarsi sulla ve-
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«Questo primo incontro […] non fu un successo. Derrida era febbricitante per un’influenza e invidiava la
formidabile salute di Gadamer, all’epoca già ottantunenne» (M. Ferraris, Innamorato della vita, in Id., Ja-
ckie Derrida. Ritratto a memoria, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 66(n)).
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G. B. Madison, Gadamer/Derrida: The Hermeneutics of Irony and Power, in Dialogue and Deconstruc-
tion. The Gadamer-Derrida Encounter, cit., p. 193.