Altro, identità e linguaggio: riflessioni su l'Espèce Humaine di Robert Antelme
Il Dolore, Marguerite Duras
Marguerite Duras è una fonte preziosa di notizie sia a proposito di Antelme che della Resistenza francese nella quale aveva militato insieme con lui e con molti componenti di quello che veniva chiamato "il gruppo di via Saint-Benoît". Inoltre, caso davvero unico, la sua testimonianza si incrocia temporalmente ma sotto un'angolatura differente proprio con quella di Antelme.
Sono entrambi scrittori, compagni di vita e di lotta: Antelme ci rende partecipi non solo della vita nel campo ma anche del pensiero nostalgico, così doloroso da non poter quasi essere nominato, del "là-bas", il luogo mitico, il "laggiù" dove vivono -liberi -gli altri; Duras, invece, ci mostra l'altra faccia del vagheggiato "là-bas": un luogo tragico, pieno di paura, di rabbia, della costante immagine dei morti tra i quali potrebbe trovarsi il marito deportato.
Siamo della razza dei bruciati nei crematori, dei gasati di Maidanek, della razza dei nazisti, anche. Funzione livellatrice dei crematori di Buchenwald, della fame, delle fosse comuni di Bergen-Belsen. Una parte di noi sta in quelle fosse, quegli scheletri straordinariamente uguali appartengono a una sola famiglia europea.
Il racconto Il Signor X, detto qui Pierre Rabier che fa parte della raccolta Il Dolore narra in forma diaristica i giorni in cui, con Antelme imprigionato a Fresnes, la Duras frequentava l'uomo che lo aveva tratto in arresto, il poliziotto tedesco membro della Gestapo, che, assumendo l'identità di un cugino morto, era diventato "procacciatore di morti". Apprendiamo all'inizio del racconto che Antelme è stato arrestato il primo di giugno del 1944. La Duras si reca a Fresnes tutti i giorni per portargli pacchi di viveri. Lì ha conosciuto il funzionario Rabier, presentato nella prefazione come emblematico di quel modo illusorio di esistere in funzione della sanzione e solo di questa, che per lo più supplisce l'etica o la filosofia o la morale, e non solo nella polizia.
Duras lo frequenta: spera in questo modo di aiutare il marito e di ottenere informazioni utili ai compagni. Rabier è fin da subito condannato a morte dal gruppo di partigiani in cui opera la stessa Duras. Si tratta di decidere quando e dove. Loro, i partigiani, vogliono giustiziare l'uomo che
(…) aveva già effettuato ventiquattro arresti nel periodo che precede il nostro incontro, ma avrebbe voluto avere più mandati d'arresto. Avrebbe voluto arrestare un numero quattro volte più grande di gente e soprattutto gente importante. Vedeva la sua funzione poliziesca come una promozione.
Sarà invece fucilato durante l'inverno 1944-45, (…) nel cortile della prigione di Fresnes, probabilmente, come tutti gli altri.
Rabier, evitato dai colleghi, si trova a parlare solo con quelli della cui vita disponeva, quelli che mandava nei forni crematori o nei campi i concentramento o quelle rimaste là, senza notizie, le mogli. (…) Ha trovato in me un uditorio che certamente non aveva mai avuto, instancabile.
Uomo privo di passato per aver rubato quello di un altro, era allo stesso tempo privo di lingua, non potendo impiegare la propria, il tedesco.
Duras lo definisce un imbecille: in lui ogni cosa rientra nell'ambito di questa imbecillità, i sentimenti, la fantasia e la peggior specie di ottimismo.
Rabier appartiene a quella tipologia che Hannah Arendt descrive così:
Sono padri di famiglia, cittadini diligenti, usi a compiere in ogni professione il loro dovere, che, con lo stesso senso del dovere, hanno ucciso e hanno commesso, in base a ordini ricevuti, le altre scelleratezze nei campi di concentramento.
Anche Il Dolore è scritto in forma di diario. Ripercorre il mese dell'attesa, aprile 1945, al cui termine Antelme sarà di ritorno.
Gli alleati stanno liberando i campi di concentramento: Bergen-Belsen, Buchenwald…
La Duras attende l'apparizione del marito o la più probabile comunicazione della sua morte. Il dolore è immaginare di non sapere mai più nulla.
Chi aspetto io, qualcuno l'avrà forse visto, come io ho visto quello, in una fossa, le mani che facevano un ultimo cenno, gli occhi che non vedevano più. Qualcuno che non saprà mai chi era per me quell'uomo, dunque chi è.
Poi, i primi di maggio, una telefonata di Mitterrand dalla Germania annuncia che Robert Antelme è a Dachau in fin di vita per la denutrizione e il tifo e che occorre portarlo via immediatamente. Il giorno stesso Beauchamp e Mascolo partono; a Dachau fanno indossare ad Antelme una divisa da ufficiale francese, escono dal campo sostenendolo come fosse ubriaco.
Antelme iniziò a parlare appena lasciato Dachau.
Allora ha cominciato a raccontare perché ciò che era da dire fosse detto prima della sua morte. Robert L. non ha accusato nessuno, nessuna razza, popolo, ha accusato l'uomo. All'uscita dall'orrore, sul punto di morire, in delirio, Robert L. aveva ancora questa capacità di non
accusare nessuno, fuorché i governi, che sono effimeri nella storia dei popoli.
Arrivano a Parigi, in rue Saint-Benoît. Antelme è irriconoscibile.
Si lascia guardare. Una fatica soprannaturale nel suo sorriso, la fatica di essere arrivato a vivere fino a quel momento. E' un sorriso che improvvisamente riconosco, ma lontano, come lo vedessi in fondo a un tunnel. Un sorriso confuso. Si scusa di essere ridotto così, un rifiuto. Poi il sorriso scompare, torna a essere uno sconosciuto. Ma ora so che quello sconosciuto è lui, Robert L., nella sua interezza.
Passeranno diciassette giorni prima che sia dichiarato fuori pericolo. Diciassette giorni senza quasi mangiare, ancora e di nuovo, stavolta non per farlo morire ma per salvarlo. Pesava trentotto chili per un metro e settantotto. Aveva l'aspetto, ma la Duras non ce lo dice, che dovevano avere quelli che nei campi venivano chiamati musulmani26, esseri simili a fantasmi che si aggiravano piegati in due per la fame, spenti, in equilibrio instabile tra vita e morte.
Non ci siamo mai abituati a vederlo. Impossibile abituarsi. L'incredibile era che vivesse ancora. Quando la gente entrava nella camera e vedeva la forma sotto il lenzuolo non riusciva a sopportarla, volgeva altrove gli occhi. Molti uscivano, non tornavano più. Lui, non si è mai accorto del nostro spavento. Era felice, non aveva più paura. La febbre lo teneva su.
Poi inizia la guarigione e con essa la fame. Ancora la descrizione di un dolore, quello di Antelme, ora. Un dolore inimmaginabile che dobbiamo ad ogni costo immaginare, perché questo, la partecipazione per mezzo dell'immaginazione, ê ciò che ci domanda Antelme nel suo magnifico lascito letterario.
Lui è scomparso, al suo posto la fame. Un vuoto al suo posto. Butta giù in un buco, empie quello che era svuotato, le viscere rinsecchite. (…) Quando c'q il sole le sue mani sono trasparenti. Ieri raccattava le briciole cadute per terra dai pantaloni con uno sforzo enorme, oggi ne trascura qualcuna. (…) Quando i piatti ritardano piange, e dice che non lo capiamo. Ieri pomeriggio è andato a rubare pane nel frigorifero. Ruba. Gli diciamo di fare attenzione, di non mangiare troppo. Allora piange.
Qualche tempo dopo lo informano che sua sorella Marie Louise, anch'essa arrestata dai tedeschi, è morta. E' morta, ci dice la Duras, il giorno dell'armistizio, mentre la trasportavano in aereo dal campo di Ravensbruck a Copenhagen. Aveva ventiquattro anni, era diventata cieca, tisica all'ultimo stadio, i piedi congelati.
A lei è dedicata L'espqce humaine.
Del libro di Antelme la Duras scrive qualche cosa di sconcertante.
Ha scritto un libro su quello che crede (grassetto mio) di aver vissuto in Germania: La Specie Umana. Una volta il libro scritto, stampato, uscito, non ha più parlato dei campi di concentramento tedeschi. Mai queste parole. Mai più. Mai più neanche il titolo del libro.
Che cosa sta a significare quel "crede"? Un'imprecisione linguistica? Sì, anche. Ma soprattutto, è la mia interpretazione, un dubbio sulla testimonianza di Antelme. Ma non, come può sembrare a una lettura distratta del Dolore, una testimonianza troppo carica di orrore, bensì esattamente il contrario, come se quell'uomo (… ) eternamente in viaggio nel cuore di una sua assoluta bontà avesse potuto eccedere in generosità.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Altro, identità e linguaggio: riflessioni su l'Espèce Humaine di Robert Antelme
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Informazioni tesi
Autore: | Alessandra Comerio |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Filosofia |
Corso: | Filosofia |
Relatore: | Monica Serrano |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 50 |
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