3
INTRODUZIONE
Lo scopo dell’elaborato è quello di fornire un quadro sintetico del dibattito che riguarda il
neoliberalismo, partendo dalle analisi di Foucault fino ad arrivare al dibattito
contemporaneo. Le motivazioni che mi hanno spinto all’interesse verso questa tematica sono
molteplici, ma possono essere tutte riassunte nella volontà di approfondire l’origine storica
e la struttura di alcuni fenomeni che interessano la condizione umana, nelle sue diverse
sfaccettature, all’interno della società contemporanea. Il punto di partenza è la genealogia
storico-filosofica del neoliberalismo offerta da Michel Foucault in Nascita della biopolitica
1
,
che può essere considerata il nucleo delle teorie qui esaminate. L’elaborato prosegue con
l’esposizione delle principali argomentazioni contenute ne La nuova ragione del mondo
2
,
opera nella quale gli autori, Pierre Dardot e Christian Laval, esaminano dettagliatamente le
premesse teoriche e gli sviluppi del neoliberalismo a partire da una disamina del liberalismo
classico. Nel capitolo finale, vengono esaminati due testi riguardanti il dibattito attuale sul
neoliberalismo, ovvero Il rovescio della libertà
3
, di Massimo De Carolis, e Crisi come arte
di governo
4
, di Dario Gentili. I due autori, pur condividendo un punto di vista critico sul
neoliberalismo, affrontano in modo diverso la tematica: De Carolis ricerca i motivi della
crisi nella dottrina neoliberale, Gentili offre un’analisi approfondita della nozione di “crisi”.
Ho scelto di condividere l’impostazione “genealogica” di Foucault (ripresa anche da Dardot
e Laval) perché ritengo che sia quella più adatta a fornire al lettore gli strumenti critico-
analitici necessari per un’adeguata comprensione. Nel primo capitolo sono infatti esaminate
le caratteristiche principali del liberalismo classico, le radici teoriche, le implicazioni
politiche ed i suoi interpreti principali. In particolare, vengono approfonditi i dibattiti sulla
libertà d’azione individuale, sui diritti naturali e sull’idea dell’uomo “egoista” che agisce per
il proprio interesse. Viene inoltre messo in luce il legame tra queste tematiche e la nuova
concezione dello Stato e del suo ruolo nella dottrina liberale. Infine, si pone l’accento sul
ruolo decisivo che assumono il libero scambio e le dinamiche di mercato all’interno della
formulazione delle teorie economiche, per poi evidenziare sia gli aspetti che fanno del
liberalismo una dottrina nuova rispetto alle precedenti, sia gli elementi problematici che lo
porteranno alla crisi nei primi decenni del XX secolo. Il secondo capitolo è invece
interamente dedicato al complesso fenomeno del neoliberalismo: sempre attraverso la lente
di Foucault, Dardot e Laval, vengono descritte le fasi primordiali delle teorie neoliberali ed
il contesto storico all’interno del quale emergono. Esibendo poi le differenze tra le varie
correnti interne al filone neoliberale, in particolare per quanto riguarda il ruolo dello Stato e
del mercato, si arriva ad analizzare se e quanto il neoliberalismo riprenda le tematiche del
liberalismo classico. L’ultima fase di questa parte dello scritto riguarda la diffusione delle
dottrine neoliberali all’interno dei singoli governi nazionali e delle organizzazioni
internazionali e le loro conseguenze politiche, economiche, sociali e psicologiche. Il terzo
ed ultimo capitolo vede affiancate due diverse interpretazioni della crisi del modello
neoliberale: la prima, offerta da De Carolis, analizza la parabola neoliberale nella specifica
cornice della crisi della civiltà occidentale: qui si delinea la nascita del modello di civiltà
neoliberale in contrapposizione a quello della legittimazione sovrana storicamente legato al
Leviatano di Hobbes
5
. L’autore mette in evidenza l’incapacità della dottrina neoliberale di
1
Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2004.
2
P. Dardot-C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013.
3
M. de Carolis, Il rovescio della libertà, tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet,
Macerata 2017.
4
D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018.
5
Filosofo e matematico britannico (1588–1679), fu sostenitore del giusnaturalismo e promotore di
un’antropologia pessimistica per la quale lo stato di natura è caratterizzato da un conflitto di tutti contro tutti.
4
riconoscere i propri limiti interni ed il fatto che essa, pur volendo opporsi al paradigma
dell’istituzione coercitiva e situarsi al livello del libero scambio e della libera azione creativa,
finisca per riprodurre i rapporti di potere dell’età feudale. La seconda interpretazione della
crisi, di Gentili, si sofferma invece sul ruolo attivo dello strumento governamentale della
crisi, specificatamente votata a costruire una forma di vita che ruota intorno alla nozione di
esistenza come precarietà, e prova a proporre un rapporto diverso tra il giudizio e la
decisione.
Grazie a questo lavoro è stato possibile giungere ad una critica del modello neoliberale inteso
come un modello di gestione dell’intero cosmo umano e non come una semplice
“estensione” delle dottrine economiche in campi che non le riguardano. Una critica non
esclusivamente decostruttiva, ma in grado piuttosto di riconoscere l’importanza storica e
dottrinale di un fenomeno che comunque ha rappresentato una risposta (in alcuni casi, la
risposta) alle dinamiche dei tempi recenti.
5
CAPITOLO 1: SVILUPPO E CRISI DEL LIBERALISMO
1.1 La nascita dello Stato moderno.
Foucault rintraccia le origini dello Stato liberale nel fenomeno della «ragion di Stato», che
si sviluppa nel XVI secolo.
Ciò che avevo cercato di individuare era l’emergere di un certo tipo di razionalità nella pratica di
governo, un tipo di razionalità che avrebbe permesso di regolare il modo di governare su qualcosa
che si chiama stato e che, rispetto a tale pratica di governo, rispetto al calcolo della pratica di governo,
svolge ruolo di un dato […] ma insieme anche di un obiettivo da costruire.
6
Il concetto di Stato indica perciò già qualcosa, ma soprattutto un dover essere, che l’arte di
governare si pone come fine del proprio agire. Il governo dello Stato è tenuto a rispettare dei
princìpi esterni, come le leggi divine e la morale, ma non si propone di garantire la salvezza
ultraterrena ai suoi sudditi, come accadeva nel medioevo, dove il sovrano era concepito come
una sorta di figura paterna. Lo Stato è una realtà specifica, autonoma e plurale, non è più
obbligato a sottomettersi ad una struttura imperiale concepita come teofania del divino nel
mondo: lo Stato esiste in quanto esistono tanti Stati.
Durante i primi secoli della costituzione statale, sul piano economico dominava il
mercantilismo, non solo una dottrina economica, ma «una particolare organizzazione della
produzione e dei circuiti commerciali, basata sul principio secondo cui uno Stato deve
innanzitutto arricchirsi accumulando moneta; deve inoltre rafforzarsi attraverso l’aumento
della popolazione; e infine deve mettersi e mantenersi in una condizione di concorrenza
permanente con le potenze straniere».
7
La gestione interna era affidata alla polizia, un organo
molto diverso da ciò che oggi indica questa parola, e che potremmo accostare a ciò che
chiamiamo “politica interna”; essa operava una regolamentazione “indefinita” del paese
secondo il modello di una rigida e serrata organizzazione urbana. L’attività rivolta all’esterno
riguardava la creazione di un esercito e di un corpo diplomatico permanenti allo scopo di
preservare la pluralità degli Stati contro le ambizioni imperialiste.
Il governo della ragion di Stato ha una particolarità: la sua politica estera è limitata al
mantenimento della bilancia europea, ovvero dell’equilibrio tra gli Stati europei che
impedisca il prevalere di uno Stato sugli altri, mentre nel Medioevo i governanti volevano
occupare un posto centrale tramite politiche imperialistiche. Ogni Stato ha dei propri
interessi, deve autolimitarsi nei suoi obiettivi e mantenere la propria indipendenza; per
contro, l’oggetto della politica interna (polizia) è quasi illimitato, perché comporta un
controllo fino ai minimi dettagli di gruppi ed individui.
In questo contesto, sostiene Foucault, assistiamo ad un mutamento della funzione del diritto:
nel Medioevo esso costituiva, insieme all’esercito, lo strumento di incremento e
mantenimento del potere regio. Nell’età moderna invece, la rotta viene invertita, perché il
diritto assume il ruolo di argine dello Stato di polizia; l’esempio più lampante è dato dai
numerosi dibattiti sulle leggi fondamentali del regno (o dello Stato), le quali sono concepite
dai giuristi come il fondamento della costituzione statuale e perciò come limite esterno della
ragion di stato.
6
Michel Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 15.
7
Ivi, p. 17.
6
1.2 Quieta non movere.
Foucault, dopo aver delineato lo Stato moderno come Stato di polizia limitato
estrinsecamente dal diritto, affronta la questione della limitazione interna all’azione di
governo, rintracciando nella frase “Non toccare ciò che se ne sta tranquillo” (quieta non
movere, appunto) l’essenza di questo principio di limitazione. Si tratta di una limitazione di
fatto, non di diritto, perciò se il governo supera i limiti ad esso imposti, non sarà considerato
illegittimo, ma semplicemente inadeguato; ciononostante, tale limitazione non si restringe
alla pura sfera dei consigli di prudenza, ma segue dei princìpi validi sempre. Essendo poi la
limitazione interna, non si dovrà di volta in volta cercarne il principio al di fuori: è il governo
stesso che calcola come e quanto limitarsi in funzione dei propri obiettivi. L’essenza
autolimitativa contiene un principio utilitaristico: essa non divide o classifica i soggetti in
base all’elemento di libertà e quello di sottomissione all’azione governativa, ma distingue
ciò che conviene o non conviene fare. A differenza del passato, dove si assisteva
all’imposizione da parte della pratica giudiziaria di leggi che il sovrano non doveva per
nessun motivo oltrepassare, intorno alla metà del XVIII secolo assistiamo ad una nuova
metodologia di limitazione: l’eccesso di governo dev’essere contrastato dall’azione e da
accordi, conflitti, relazioni presenti all’interno del governo stesso.
Il filosofo francese individua nell’economia politica
8
lo strumento intellettuale grazie al
quale l’autolimitazione della ragione di governo ha invaso ogni suo campo d’azione. Essa si
sviluppa dentro la ragione di Stato del XVI-XVII secolo, perché aveva gli stessi obiettivi
della polizia, del mercantilismo e della bilancia europea: l’arricchimento dello Stato, la
crescita simultanea di popolazione e mezzi di sussistenza e la concorrenza con gli altri Stati.
L’economia politica non si interroga sulla legittimità delle leggi o dei princìpi, ma analizza,
tra gli effetti delle pratiche di governo, processi intelligibili e regolarità; in altre parole,
scorge l’elemento naturale dietro l’artificio delle decisioni umane dei governanti. Da ciò ne
deriva che l’azione di governo debba rispettare quella natura, e se il sovrano ignora tale
natura, finirà per effettuare scelte sbagliate; da questo momento infatti, il criterio dell’azione
di governo non sarà più la legittimità, ma il successo o il fallimento di determinate politiche.
La politica non risponde più alla legge divina o alle leggi morali, ma alle leggi di natura:
essa sarà naturale, economica, scientifica. L’azione governativa risponde a tre fattori: natura
dell’individuo, ordine della società e progresso nella storia. La relazione tra questi elementi
(che approfondiremo più avanti) è diversa in ogni autore liberale, tuttavia l’elemento che li
accomuna è un discorso antropologico fondato sulle passioni e gli interessi dell’uomo, un
discorso economico fondato sul gioco meccanico delle forze in equilibrio e un discorso
storico basato sull’idea di progresso indefinito ed impronosticabile. L’economia politica
tuttavia,
non esaurisce […] il campo discorsivo all’interno del quale il liberalismo classico propaga le proprie
ramificazioni. Se è vero che l'economia politica pensa ai limiti dell’azione di governo in funzione di
un’evidenza della natura, è proprio questo naturalismo intuitivo che le impedisce di distinguere
chiaramente ciò che attiene alla scienza economica e ciò che, invece, rientra nell'ambito di un’arte
del governo. [...] Il fatto è che l'arte di governo non può essere ridotta alla mera individuazione di
leggi naturali.
9
8
Come indica Foucault stesso, l’espressione “economia politica”, che comincia ad essere utilizzata verso la
metà del XVIII secolo, ha diversi significati: da un lato può indicare un certo tipo di analisi della produzione e
delle ricchezze, dall’altro un metodo di governo che assicuri prosperità alla nazione, oppure, significato che
troviamo nella definizione rousseauiana dell’Encyclopédie, indica una riflessione sull’organizzazione, sulla
distribuzione e la limitazione dei poteri all’interno di una società.
9
P. Dardot-C. Laval, La nuova ragione del mondo, cit., p. 32.
7
Con l’economia politica nascono nuovi princìpi di razionalizzazione e analisi delle pratiche
politico-economiche, in altre parole nasce un nuovo regime di verità: se nell’era pre-
Moderna la preoccupazione maggiore del sovrano era governare conformemente alle leggi
morali, divine o naturali, e nel XVI-XVII secolo la preoccupazione era governare così
minuziosamente e profondamente da portare lo Stato al massimo delle sue forze, intorno al
XVIII secolo si comincia a regolare l’azione di governo sulla base di un massimo ed un
minimo fissati dalla natura delle cose. Questo nucleo teorico costituisce la base della
formazione del liberalismo.
1.3 Il costituirsi dell’arte di governo liberale
Con il termine “governamentalità”, Foucault delinea quella specifica arte di governo che,
attraverso un insieme di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche»,
permette il controllo della popolazione e garantisce il «governo dei viventi»
10
. La
governamentalità liberale non si sostituisce alla ragion di Stato moderna, ma pone come
finalità l’attuazione del governo minimo, o “frugale”, cioè quel governo che non perde mai
di vista la questione del troppo e del troppo poco. Il tratto principale del liberalismo sta nel
ruolo che assume ciò che si chiama “mercato”: fino alla prima parte dell’800’, il mercato era
luogo di giurisdizione ed equa distribuzione, dove la rigida regolamentazione era pensata
per proteggere il consumatore dalle frodi.
Era un luogo di giustizia, inoltre, nel senso che il prezzo di vendita fissato nel mercato veniva
considerato […] come un giusto prezzo o come un prezzo che comunque doveva corrispondere al
giusto prezzo, vale a dire un prezzo che doveva mantenere un certo rapporto col lavoro fatto, con i
bisogni dei mercanti e, ovviamente, con i bisogni e le possibilità dei consumatori. Luogo di giustizia,
al punto che il mercato doveva essere un luogo privilegiato della giustizia distributiva. Infatti le
regole del mercato, facevano sì che ci si accordasse almeno in relazione a un certo numero di prodotti
essenziali, […] in modo che, se non i più poveri, almeno alcuni dei più poveri potessero acquistare
determinati beni alle stesse condizioni dei più ricchi. […] Infine, era un luogo di giustizia perché la
condizione che soprattutto doveva essere garantita nel mercato era […] l'assenza di frode. Si trattava,
cioè, di proteggere l'acquirente. Il mercato […] era percepito all'epoca come un rischio. […] Questo
sistema – regolamentazione, giusto prezzo, sanzione della frode – faceva sì che il mercato fosse
essenzialmente, e funzionasse realmente come un luogo di giustizia.
11
Già verso la fine del 700’, tuttavia, cominciava ad emergere un cambiamento nel campo
della politica economica: in primo luogo il mercato sembrava obbedire (o dover obbedire) a
meccanismi “naturali”, cioè spontanei. In secondo luogo, sembrava che il “lasciar fare”
questi meccanismi provocasse una naturale regolazione dei prezzi. Da luogo di giurisdizione,
il mercato diveniva sempre più luogo rivelatore di verità. Se i prezzi sono conformi a dei
meccanismi naturali, costituiscono un criterio di valutazione («veridizione» è il termine
utilizzato da Foucault) delle pratiche di governo. In virtù di cosa è diventato possibile per il
mercato costituirsi come principio di veridizione? I fattori, spiega Foucault, sono da ricercare
nelle dinamiche economiche che si sviluppano a partire dal XVII secolo: grande disponibilità
di oro e moneta grazie all’importante afflusso di oro americano, crescita economica e
demografica sostanziale, intensificazione della produzione agricola, ingresso di tecnici nel
campo governativo e teorizzazione dei problemi economici.
10
M. Foucault, La governamentalità, «Aut-aut», 167-168 (1978), 28.
11
Michel Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 38.
8
Emergeva così una forte linea di pensiero, per la quale esiste un ambito nel quale il non
intervento dell’autorità pubblica è maggiormente efficace, non per ragioni di diritto, ma per
ragioni di verità: questo ambito è quello del mercato. La questione si formulava ora nella
forma della traduzione giuridica dell’autolimitazione della governamentalità: come fare in
modo che essa non paralizzi l’attività di governo e non soffochi le attività di mercato? A tale
problematica, il liberalismo classico ha tentato di rispondere essenzialmente attraverso due
serie di argomenti: la prima si rifaceva ai diritti dell’individuo, la seconda agli interessi. Nel
primo caso il fondamento della limitazione era giuridico: ogni singolo individuo è
depositario di diritti naturali inalienabili, che l’autorità sovrana non deve ignorare. Nel
secondo caso il fondamento era di tipo scientifico-naturalistico: a porre i limiti
dell’intervento statale sarebbe «l’azione di forze che rispondono a leggi conoscibili»
12
:
l’esistenza di una natura dell’uomo, di un certo ordine della società civile, di un progresso
storico universale. Le due linee argomentative confluiscono o divergono a seconda degli
autori o delle correnti, ma Foucault individua due vie principali di discussione: la prima è
quella «giuridico-deduttiva», che è chiamata anche «rivoluzionaria» per via del fatto che la
Rivoluzione francese costituisce un esempio applicativo di tale via (con le dovute
relativizzazioni del caso). Lo schema di questa via era quello della costituzione del patto
sociale che troviamo in Rousseau
13
: vengono identificati i diritti naturali di ogni individuo,
si dividono quelli “incedibili” (o «inalienabili») e quelli invece a cui è permesso rinunciare
in vista di un bene maggiore; tramite questa rinuncia si costituisce un’autorità sovrana e i
limiti di diritto che tale autorità è tenuta a rispettare. La seconda via prendeva invece le mosse
dalla pratica di governo stessa, perciò dall’interno, per cogliere una serie di limiti stabiliti
non in termini di diritti, ma di utilità. La modalità appena descritta è tipica del radicalismo
utilitarista inglese, nato con Bentham
14
, perciò Foucault la definisce «via radicale
utilitarista»
15
. Le due vie implicano due concezioni diverse della legge: nella via
rivoluzionaria la legge è intesa come espressione della volontà generale, in quella radicale è
intesa come effetto di una transazione tra la sfera d’intervento dell’autorità pubblica e quella
dell’indipendenza dei singoli, transazione stabilita secondo criteri di utilità. Diversa è anche
la concezione della libertà: nella via rivoluzionaria troviamo una concezione giuridica della
libertà fondata sui diritti inalienabili, nella via radicale una concezione della libertà come
«indipendenza dei governati dai governanti».
16
Il riconoscimento di queste due vie non
comporta una loro radicale differenziazione: esse infatti si ritrovano spesso intrecciate ed
entrambe funzionanti all’interno delle logiche del liberalismo, anche se di fatto la via
radicale-utilitarista ha trionfato in Occidente. Secondo Dardot e Laval,
la via “assiomatica rivoluzionaria” deve molto più a Locke di quanto non debba al “rousseauismo”
[…]. Perché è a Locke che si deve la formulazione di una teoria del governo non appiattita su una
teoria dello Stato. All'opposto, ricominciando da zero riflessione sul problema della sovranità,
Rousseau elabora innanzitutto una teoria dello Stato, in una logica per cui principio di limitazione
12
P. Dardot- C. Laval, La nuova ragione del mondo, cit. p. 29.
13
Jean-Jacques Rousseau (1712–1778), filosofo, scrittore e musicista svizzero. Inserito nella cornice
dell’illuminismo, all’interno del quale era però una voce fuori dal coro, studiò i fenomeni della disuguaglianza
e della vita in società, rintracciando nella civiltà l’origine dei mali dell’uomo. Influenzò in maniera notevole
molti pensatori a lui successivi, ed il suo pensiero fu alla base degli ideali della Rivoluzione francese.
14
Jeremy Bentham (Londra, 15 febbraio 1748 – Londra, 6 giugno 1832) è stato un filosofo e giurista inglese,
promotore dell’utilitarismo in filosofia e importante esponente del liberalismo.
15
Michel Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 47.
16
Ivi, p. 49.