2 
Introduzione 
 
«Secondo me, Dio è una persona eccezionale». 
     Queste parole circolarono nel corso del Novecento sotto il nome di un altrimenti ignoto Marius 
Ambrosinus e costituiscono una concisa quanto irriverente concezione della divinità. Il loro autore 
riconosce la superiorità di Dio rispetto a tutti gli altri viventi e lo mette però contemporaneamente 
sullo stesso piano di un uomo, di una “persona” che non ha interessi o desideri migliori di quelli che 
animano il genere umano. Non è un caso che un poeta come Juan Rodolfo Wilcock abbia potuto 
collocare l’affermazione di Marius Ambrosinus in epigrafe al suo libro Lo stereoscopio dei solitari, 
il quale contiene un significativo racconto intitolato I numi. Interpretando la giornata-tipo del 
pensionato Bovrillo qui narrata, si comprende che essa adombra in realtà uno spaccato di vita del 
Dio concepito dall’ignoto personaggio. Bovrillo non sarebbe altro, infatti, che una divinità che ha la 
capacità “eccezionale” di costruire delle figurine d’argilla attraverso cui influenzare positivamente 
la sua esistenza (ad esempio per conservare la salute) fino a renderla beata, ma che «per il resto è un 
uomo come tutti gli altri», la cui massima ambizione consiste nel tenersi buoni i vicini e nel 
trascorrere in loro compagnia le serate davanti alla televisione
1
. Da ciò segue che per Ambrosinus 
gli dèi non sono molto diversi da noi e abitano in mezzo a noi, malgrado possiedano delle 
qualità/abilità che permettono loro di trascendere i limiti della nostra condizione mortale
2
. 
Queste parole possono funzionare altrettanto bene, mutatis mutandis, per sintetizzare la dottrina 
teologica di Epicuro, che avrebbe potuto tranquillamente dichiarare all’interno del KÖpoj «secondo 
me, dio è una persona eccezionale». Come, infatti, per Ambrosinus la divinità non è l’entità 
suprema che governa il mondo, così per il filosofo ellenistico essa non è la potente ma informe 
anima del mondo di Platone (Leg. 897c4-9) o lo spirito immanente al cosmo degli Stoici (cfr. per 
esempio SVF II 310, II 532, II 633), ma una “persona” che non aspira a niente di diverso da quello 
cui ambisce un qualunque essere umano sano: godere del piacere e trascorrere la vita senza provare 
turbamento psichico o dolore fisico. Questa sua umanità di fondo non le preclude, però, di risultare 
comunque un ente “eccezionale” che si distingue da tutti gli altri per la sua immortalità, per la sua 
immunità a tutto ciò che è sgradevole e per il suo totale inattivismo pratico-teoretico. L’obiettivo di 
                                                 
1
 J.R. Wilcock, Lo stereoscopio dei solitari, pp. 145-146. La mia interpretazione viene confermata dal confronto con 
un’indicazione riportata dallo stesso autore nel retro di copertina: «La solitudine fa fare, perchØ si rischia altrimenti 
l’inesistenza. Vale anche per Dio». Ed essendo il testo di Wilcock la descrizione dei tentativi di circa settanta 
personaggi di vincere il proprio isolamento, diventa possibile ipotizzare che le vicende di ciascuno di loro rappresenti la 
variazione su di uno stesso tema allegorico: lo sforzo di Dio di superare la sua costitutiva solitudine attraverso 
l’esercizio dei suoi poteri. 
2
 Non mi sembra dunque che sia nØ fondata nØ interessante la lettura di Vila-Matas, Bartleby e compagnia, p. 24, che 
sembra attribuire al termine “persona” l’accezione classica di persona divina. Interpretandola nel modo tradizionale, 
infatti, l’autore giunge a banalizzare l’affermazione di Martinus riducendola ad un significato noto e ad un pensiero già 
espresso dai Padri della Chiesa (cfr. per esempio Agostino, De Ag. chr. 13.15-15.17).
3 
questo lavoro di tesi sarà proprio quello di ricostruire gli aspetti che consentano di capire che cosa 
renda la divinità epicurea al tempo così simile e così diversa dall’uomo. 
In termini di contenuto, questo significa che mi occuperò principalmente di scoprire che cosa 
sono gli dèi di Epicuro e in che modo gli uomini pervengono alla loro conoscenza, ossia di 
ontologia e di epistemologia divina. Ciò è dovuto al fatto che anche la piø modesta indagine sulla 
teologia epicurea tende consapevolmente o meno a fornire sempre un resoconto storico-filosofico 
soddisfacente sotto questi due piani, che non possono essere affatto scissi se non per la comodità 
d’indagine dell’interprete. Infatti, chi desidera comprendere in che modo il dio epicureo viene 
conosciuto è costretto dal tema stesso a non prescindere da un’analisi dei suoi tratti ontologici 
fondamentali; viceversa, coloro che preferiscono concentrare l’attenzione sulle qualità essenziali 
della divinità sono portati nello stesso tempo a farsi una chiara idea dei processi di apprendimento 
che permettono all’uomo di comprenderne la natura. In altre parole, cercherò di sostenere nel lavoro 
che la divinità è un vivente identico all’uomo (e dunque una “persona”) per ciò che riguarda 
l’aspetto fisico e il possesso della ragione, ma che se ne differenzia in quanto viene conosciuto in 
maniera eccezionale, “si comporta” in modo del tutto eccezionale ed è dotato di un organismo 
assolutamente eccezionale. 
La semplicità di questa dichiarazione e l’adozione del termine apparentemente innocuo di 
“vivente” tradisce in realtà la mia decisa adesione alla corrente interpretativa materialista e alla mia 
altrettanto risoluta opposizione alla linea idealista. Quest’ultima generalmente risolve la questione 
«che cosa sono gli dèi di Epicuro» dicendo che «sono i concetti di ciò che vorremmo essere», e il 
problema «in che modo gli uomini pervengono alla loro conoscenza» affermando che «vengono 
conosciuti nel momento stesso in cui sono creati da noi». In virtø della mia preliminare scelta di 
campo, ne seguirà allora che andrò ad argomentare che «gli dèi sono dei viventi reali e composti 
d’atomi» e che «noi comprendiamo la loro essenza studiandola per mezzo dei simulacri che questa 
emana e ricorrendo ad alcune pratiche di ragionamento inferenziale». 
     Un lettore non informato sui punti controversi su cui le due correnti interpretative dibattono 
potrebbe arrivare a credere che lo scontro idealisti-materialisti interessi solo gli specialisti, perchØ – 
non importa come se ne parli – la dottrina epicurea in generale resterà comunque graniticamente la 
medesima. Gli dèi risulteranno, infatti, in ogni caso delle entità verso cui non bisogna provare 
paura, che non si interessano delle vicende umane e che fungono da modello regolativo della 
condotta individuale. In realtà, a seconda che si prenda posizione per l’una o per l’altra 
interpretazione, non solo muterà la funzione che la teologia ricopre all’interno del sistema di 
Epicuro, ma cambieranno radicalmente anche le sue implicazioni nella sfera morale, psicologica e 
cosmologica. Al fine di dare un’idea di tutto ciò, fornirò dunque a questo lettore una breve sintesi
4 
sia della veduta idealista che di quella materialista, così da chiarirgli quanto antitetiche siano le 
conclusioni a cui giungono e da esporgli quelli che ritengo siano i punti forti / i punti deboli di 
entrambe. 
     La concezione di base della linea idealista prevede che gli dèi non siano dei viventi reali, bensì 
dei costrutti mentali foggiati dall’uomo, che è disposto per propensione naturale a rappresentarsi un 
ideale di ciò che vorrebbe essere: un uomo cioè immortale e beato (\fqartoj e makárioj), 
dunque sottratto ai turbamenti / ai dolori che rendono l’esistenza pesante e penosa. Con il graduale 
trascorrere del tempo, tale raffigurazione degli inconsci desideri umani ricevette in positivo la 
sussistenza concreta ed il nome di “divinità”, non essendo stato possibile rinvenire tra le fila del 
genere umano un solo individuo capace di realizzare questo ideale di vita, ma acquisì anche molti 
attributi negativi come la suscettibilità all’invidia o ad altre passioni dannose. Ciò diede origine agli 
dèi omerici e ai falsi ideali di condotta che soggiacciono ad ogni comportamento malvagio. Infatti, 
prendendo a modello la prassi di un dio come Apollo, che punì gli Achei per il rapimento della 
sacerdotessa Cassandra (Il. A vv. 33-52), gli uomini cominciarono a ritenere desiderabile la vacua 
ricerca della vendetta, scadendo così in una serie di turbamenti senza fine. Molti secoli dopo, però, 
compresa la segreta origine del sentimento religioso, Epicuro ebbe l’intelligenza di recuperare 
quello che di originariamente buono aveva la raffigurazione degli dèi e di mostrare l’inesistenza 
della divinità omerica, in modo da privare di qualunque attrattiva la condotta immorale e di fare di 
nuovo del dio il paradigma regolativo della vita beata. All’interno della sua scuola, al riparo dalle 
orecchie indiscrete della folla, egli avrebbe infine compiuto l’ulteriore passo in avanti (che è poi un 
passo indietro rispetto alle credenze comuni) di mostrare che l’esistenza reale del qeój fosse 
un’attribuzione indebita, perchØ esso è in verità un puro concetto. 
     Strenuo sostenitore di questa corrente interpretativa è David Sedley, che assieme ad Anthony 
Long è colui a cui va riconosciuto il merito di averla inaugurata. Sebbene, infatti, i prodromi della 
stessa furono posti nell’antichità
3
 e vennero sviluppati da alcuni pensatori moderni
4
, fu soltanto con 
la pubblicazione nel 1987 dei loro due volumi del The Hellenistic Philosophers che venne 
                                                 
3
 Il caso piø emblematico è quello di Posidonio, che nel libro V del Sugli dèi avrebbe sostenuto che Epicuro non 
credeva realmente negli dèi di cui predicava l’esistenza e anzi fosse convinto del loro impossibile sussistere. La ragione 
che lo spinse a manifestare una posizione contraria al suo pensiero fu il bisogno di allontanare da sØ i sospetti di empietà 
(cfr. De nat. deor. I 44.123-124). 
4
 Per esempio da Lange, Geschichte des Materialismus bis auf Kant, pp. 76-77, secondo cui «seine [i.e. di Epicuro] 
sorgenlosen und schmerzlosen Götter in der That das wirkliche Ideal seiner Philosophie gleichsam verkörpert 
darstellten». Sembra però che gli aderenti della cosiddetta “sinistra hegeliana” avessero già avuto un pensiero del 
genere. Mansfeld, Aspects of Epicurean Theology, p. 173, e Long-Sedley, The Hellenistic Philosophers, vol. 1, p. 148, 
citano a tal proposito Feuerbach, su cui si può vedere ad esempio il § 51 de L’essenza della religione («Gli dèi, dice 
Epicuro, (…) sono esseri della rappresentazione, dell’immaginazione», p. 65). Una veduta idealista della teologia di 
Epicuro potrebbe poi anche essere quella di Marx, Differenza tra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro, p. 36, 
che riduce la divinità epicurea ad una manifestazione estetica dell’uomo: «E tuttavia questi dèi non sono un’invenzione 
di Epicuro. Essi sono esistiti: sono i plastici dèi dell’arte greca».
5 
intrapreso un primo sforzo sistematico e scientifico di argomentare l’esistenza puramente 
concettuale degli dèi. A favore di questa lettura, Sedley propone un argomento epistemologico e 
alcuni di natura pedagogico-sociale. Quello epistemologico consiste nel mostrare che un dio è un 
concetto (æpínoia) in quanto viene foggiato a partire dalla ricezione dei simulacri di alcuni uomini 
dotati di robustezza e felicità, caratteristiche che vengono poi intensificate in quelle di immortalità e 
di beatitudine attraverso i procedimenti di períptwsij, Þnalogía, ñmoióthj e súnqesij nominati 
da Diog. Laer. X 32.9-11. Non tutti i procedimenti trovano riscontro nelle fonti di/su Epicuro, ma 
Sedley è convinto, da un lato, che essi possano essere ricondotti alla dottrina epicurea della 
metábasij chiaramente descritta da Sesto Empirico (M IX 43.12-47.22), secondo la quale noi 
concepiamo una divinità «by first focusing on a series of images of men, then enlarging 
(a÷xÔsantej) the resultant mental impression»
5
, dall’altro che questo processo sia delineato anche 
nel passo De nat. deor. I 19.49. Qui, infatti, l’epicureo Velleio sosterrebbe che l’insieme delle 
immagini cosiddette divine non va dagli dèi verso di noi, ma fluisce da noi verso gli dèi (ad deos 
adfluat) che creiamo mediante i processi di transitio e di similitudo, dove sarebbero adombrate la 
metábasij sestana e l’ñmoióthj laerziana. Diversamente, gli argomenti di natura pedagogico-
sociale cercano di motivare perchØ Epicuro non avesse sostenuto al di fuori della sua scuola 
l’esistenza concettuale degli dèi. Questi avrebbe finto di riconoscere la loro realtà per mostrare 
anche agli uomini meno filosoficamente preparati che la divinità non è da temere in quanto non si 
occupa di nulla
6
 e per proteggersi dalle accuse di empietà di queste stesse persone, che il filosofo 
avrebbe ulteriormente fuorviato partecipando alle festività pubbliche in onore dei qeoí tradizionali. 
Una volta raggiunti questi due obiettivi, Epicuro non avrebbe poi piø sentito il bisogno di occuparsi 
della natura divina, appunto perchØ de facto non credeva nella sua esistenza reale, e avrebbe lasciato 
ai discepoli la libertà di studiarla nel dettaglio. Costoro però fraintesero l’insegnamento genuino del 
maestro stimando la divinità un vivente reale e di conseguenza giunsero ad assumere posizioni 
teologiche eterodosse (Filodemo le attribuì ad esempio abitudini alimentari, De dis III fr. 77 Diels), 
che furono in parte l’origine dell’interpretazione materialista di tanti critici contemporanei
7
. Nel suo 
piø recente contributo (il saggio Epicurus’ Theological Innatism del 2011), Sedley difende e 
rinforza questa sua interpretazione esplorando un punto che non aveva ricevuto (come egli stesso 
                                                 
5
 Long-Sedley, The Hellenistic Philosophers, vol. 1, p. 145. 
6
 In Epicurus’ Theological Innatism, p. 29, infatti, Sedley mostra che sia l’esistenza reale che quella concettuale degli 
dèi sono parimenti in grado di rivelare la loro totale Þpraxía (cfr. la RS I), l’una concependoli come dei viventi 
incapaci per natura di fare il bene o il male agli uomini, l’altra riducendoli ad æpínoiai che per ovvi motivi non hanno 
potenza di agire. La prima alternativa sarebbe però apparsa piø persuasiva e meno empia ad un greco medio dell’epoca 
rispetto alla seconda. Pertanto, per ragioni di convivenza sociale, Epicuro avrebbe professato di credere negli dèi reali 
all’esterno e ritenuto i qeoí dei concetti dentro il suo KÖpoj. 
7
 Long-Sedley, The Hellenistic Philosophers, vol. 1, pp. 144-149. Aggiungo in questa nota che l’orientamento esegetico 
dei due autori si profila già nell’indice dell’opera, che colloca la trattazione sugli dèi di Epicuro sotto la sezione “etica”. 
L’unica eccezione è costituita dal capitolo Cosmology without teleology della sezione “fisica” (pp. 63-65), che tuttavia 
discorre su ciò che la divinità non è, quindi non rivaluta che gli dèi esistono e influenzano in qualche maniera il cosmo.
6 
ammette) un’adeguata valorizzazione nei volumi del The Hellenistic Philosophers, ossia in quale 
senso la rappresentazione ideale di dio sia un’idea innata o una «prenozione (prólhyij)». Non 
potendo essere il risultato dell’impressione fisica dei simulacri emanati da un dio reale, l’autore lo 
concepisce come il necessario esito di un processo interno all’essere umano analogo a quello 
descritto dall’argomento della culla (cfr. Cicerone De fin. I 10.29-31, 66 e 398 Usener). Come 
secondo quest’ultimo ogni infante è animato per sua struttura atomica dalla tendenza a ricercare il 
piacere che lo può rendere felice, così ogni essere umano adulto è allo stesso modo propenso ad 
intuire «[the] conception of the best life», soprattutto sulla scia dei suoi propri sogni (Lucr. V 1169-
1182). ¨ durante il sonno, infatti, che la mente è in grado di selezionare tra le visioni oniriche quelle 
che meglio rappresentano il suo ideale di perfetta felicità e di costruire così il concetto di divinità
8
. 
     La linea idealista farebbe in sostanza di Epicuro un ateo che sfrutta la fede in dio come una sorta 
di instrumentum beatitudinis, piø che un sentito credente che cerca di depurare la religione 
tradizionale da quanto essa non contiene di pio. E questo comporta, come il lettore può ben 
avvedersi, diverse conseguenze teoriche di rilievo, la piø evidente delle quali è l’accettazione che in 
un cosmo atomista ogni aggregato è destinato a perire e che l’eternità può inerire solamente ad enti 
senza vita come i concetti o gli atomi. Meno lampanti ma piø radicali sono invece le implicazioni 
morali e psicologiche. Sul piano morale, l’idealismo giunge a stimare l’Epicureismo come lo 
strenuo nemico della religione, che a sua volta incarna tutto ciò che per Epicuro è errato o senza 
attrattive. Non vi sarebbe dunque per tale filosofo l’esigenza di indagare da un punto di vista 
teoretico la natura degli dèi per condurre una vita migliore, perchØ quello che conta è sfruttare le 
dóxai altrui per il proprio vantaggio pratico. Sul piano psicologico, l’idealismo arriva a concludere 
che Epicuro incitava i discepoli alla soppressione di ogni tipo di passione, considerando i páqh 
dannosi per loro stessa natura: nessun autore di questa corrente lo ha mai sostenuto apertamente
9
, 
ma questa è la logica conseguenza dei loro presupposti. Infatti, poichØ la divinità è la proiezione 
dell’uomo ideale, e giacchØ essa viene considerata nella RS I come esente da ira e da cárij, allora il 
dio risulterà essere l’ideale dell’uomo in perenne quiete e privo di affetti, che il saggio tenta di 
tradurre in realtà. 
     Molto piø diffusa è invece la linea interpretativa materialista, che accoglieva già numerosi 
aderenti prima della pubblicazione dei volumi di Long-Sedley. Proprio questa sua ampia diffusione 
rende però difficile trovare un’autorità di riferimento che possa rappresentare una communis opinio 
di tutti gli studiosi, le cui posizioni differiscono notevolmente tra loro. Mi limiterò dunque a 
                                                 
8
 Sedley, Epicurus’ Theological Innatism, pp. 38-39 e 44-49. La citazione è alla p. 49. L’autore stabilisce il parallelo tra 
l’argomento dei sogni lucreziano e l’argomento della culla nella p. 44: «The approach [i.e. di Lucrezio] is a kind of 
cradle argument – focused, however, in the infancy of mankind, not of the individual». 
9
 Nemmeno Long e Sedley, che nel volume The Hellenistic Philosophers non parlano affatto delle due passioni 
costruttive su cui Epicuro ebbe modo di riflettere: l’ira e la cárij.
7 
sintetizzare gli argomenti dello studio di Jaap Mansfeld (Aspects of Epicurean Theology, 1993), 
divenuto ormai classico per la sua lucidità e chiarezza. 
     L’autore in questione è soprattutto importante per essere stato tra i primi ad aver mosso delle 
cogenti e forti obiezioni alla metodologia impiegata da Long e Sedley, che come si è visto 
elaborarono la loro teoria del dio-concetto esordendo dalle testimonianze di Cicerone e di Sesto 
Empirico piuttosto che dagli ipsissima verba di Epicuro. Pur riconoscendo alla loro interpretazione 
un’innegabile profondità speculativa, Mansfeld denuncia, infatti, che essa è stata resa possibile 
dall’infrazione della semplice e sensata regola che ogni storico della filosofia dovrebbe osservare: 
dare prima il giusto risalto ai «few relatively unambiguous theological statements that survives in 
Epicurus own words», per poi arricchire in un secondo momento il magro profilo fornito da questi 
ultimi con i dettagli apportati dalle fonti posteriori
10
. Una volta mossa questa preliminare obiezione, 
l’autore rileva poi che, assecondando questo movimento d’indagine, le parole di Epicuro mettono in 
evidenza tre punti a favore dell’interpretazione materialista
11
: 
1) L’Epistola a Meneceo chiama esplicitamente la divinità uno zÐon (123.3). PoichØ Epicuro 
prendeva come assunto basilare di qualunque ricerca che «words must be used in their 
primary (…) sense» (cfr. ad esempio Ad Her. 37.5-8), e giacchØ il significato ordinario della 
suddetta parola è «animale» o «essere vivente», ne segue che il filosofo concepiva il dio 
come qualcosa di reale al pari della volpe, della gazzella o dell’uomo. 
2) La concezione del punto 1 è riportata in un testo che ha il chiaro intento di riassumere con 
semplicità i punti fondamentali della dottrina epicurea, pertanto è singolare riscontrare la 
totale assenza dell’accenno all’esistenza concettuale degli dèi. Ciò indicherebbe che questi 
ultimi non fossero intesi da Epicuro come dei costrutti mentali. 
3) Quando in Ad Men. 123.7 dichiara che qeoì mèn gár eêsín, Epicuro dice che gli dèi 
esistono simpliciter. La prova risiede nel fatto che il verbo eêsín era usato dagli atei o dagli 
agnostici come Protagora (80 B 4 DK) in una forte accezione esistenziale. 
L’accettazione di tali punti permette a sua volta di dare una lettura alternativa delle fonti che Sedley 
ha usato per sostenere la sua idea. Innanzitutto, da 1 e 3 seguirebbe che in De nat. deor. I 19.49 
Cicerone non descrive un meccanismo di formazione del concetto di dio, ma al contrario un 
processo di comprensione dei caratteri dell’essenza divina che si fa conoscere per mezzo dei suoi 
simulacri; in questo senso, l’espressione ad deos adfluat indicherebbe l’afflusso di questi e#idwla 
                                                 
10
 Mansfeld, Aspects of Epicurean Theology, p. 174. Questa metodologia consente inoltre di evitare gli eccessi a cui è 
giunto Moreschini, che nel suo articolo Due fonti sulla teologia epicurea sostiene che sarebbe opportuno «eliminare 
questi due passi [i.e., De nat. deor. I, 19.49 e lo scolio alla RS I], quando si vuol ricostruire la teologia epicurea sulla 
base delle testimonianze antiche» (p. 372). Infatti, non vi è piø alcun pericolo di ricorrere a Cicerone e allo scoliasta 
dopo lo studio accurato delle fonti principali. 
11
 Mansfeld, Aspects of Epicurean Theology, pp. 178-190.
8 
«to something that is already there» e che preesiste alla mente umana
12
. Poi, i tre punti soprastanti 
potrebbero indicare che la metábasij di Sesto Empirico delinei un procedimento attraverso cui 
l’esistenza reale di dio venne appresa per la prima volta dall’umanità. A riprova di ciò, Mansfeld 
sottolinea che un processo analogo a questo si riscontra nei riguardi dei minimi dell’atomo, dei 
quali viene riconosciuta la sussistenza concreta nel momento stesso in cui vengono conosciuti. 
Ammettere il contrario implicherebbe, infatti, concedere anche che gli ælácista sono dei costrutti 
mentali e dunque entrare in contrasto con i §§ 56-59 dell’Epistola a Erodoto, dove essi vengono 
ritenuti in maniera esplicita parti reali dell’atomo
13
. Infine, tutti i punti (ma in particolare il primo) 
mostrano che gli Epicurei seriori fossero pienamente ortodossi nel concepire gli dèi come davvero 
esistenti; il caso piø sintomatico è quello di Filodemo, che pur essendo stato un instancabile 
innovatore, non mise mai in questione la realtà dei qeoí e mosse come il maestro un feroce attacco 
contro l’ateismo
14
. 
     Da come si vede, Mansfeld non si pronunciò però sul problema dell’innatismo dell’idea di dio, 
probabilmente perchØ allora Sedley non vi aveva ancora posto il rilievo che merita così come invece 
ha fatto nel 2011. Tale vuoto viene però colmato nello stesso anno da David Konstan, che nel 
saggio Epicurus on the Gods sostiene che la formazione della prólhyij di dio non è compiuta da 
una selezione attiva della mente umana delle immagini avute in sonno, bensì attraverso una ripetuta 
ricezione passiva dei simulacri divini che sedimentano nella memoria le informazioni sui caratteri 
essenziali di questi viventi. Stando così le cose, «there is no need to posit an innate disposition to 
perceive gods as immortals and happy» e in particolare di considerare i sogni il miglior indizio 
dell’esistenza concettuale degli dèi. Il materialismo stima, infatti, le visioni oniriche come il 
risultato di una libera fantasticheria della mente, che sovra-interpreta le informazioni fornite dei 
simulacri divini che entrano nell’organismo del dormiente
15
. 
     Alla luce di queste considerazioni, risulta dunque plausibile l’alternativa che Epicuro nutrisse 
una sincera fede negli dèi e che fosse interessato a comprenderne la natura, senza però disconoscere 
mai il loro ruolo di paradigma regolativo della condotta buona e beata. Da ciò seguono conclusioni 
notevolmente divergenti rispetto a quelle idealiste. Da un lato, infatti, Epicuro sarebbe giunto ad 
elaborare una dottrina morale amica della religione, dove le credenze condivise costituiscono il 
punto di partenza per accedere ad una forma sempre piø raffinata di sapere e una sorta di collante 
sociale. La partecipazione alle feste sacre non sarebbe ad esempio lo strumento per prendere le 
                                                 
12
 Mansfeld, op. cit., pp. 192-193. Anche Konstan, Epicurus on the Gods, p. 70, è di questo stesso avviso: «if they [i.e. 
gli e#idwla] flow “to the gods”, then gods there must be». Si vedrà però infra, p. 36, che la lezione ad deos adfluat del 
manoscritto ciceroniano non dà un senso soddisfacente e perciò risulta preferibile emendarla. 
13
 Mansfeld, Aspects of Epicurean Theology, p. 173. 
14
 Sulle innovazioni di Filodemo, cfr. Mansfeld, op. cit., p. 179 n. 13, p. 201 n. 66 e p. 209 n. 87. Sulla lotta di tale 
filosofo contro l’ateismo, cfr. Obbink, On Piety, pp. 1-4. 
15
 Konstan, Epicurus on the Gods, pp. 63-69. La citazione è nella p. 66. Questo argomento sarà chiarito infra, p. 42-43.
9 
dovute distanze dalla massa, bensì un momento per stare insieme. Dall’altro, il filosofo avrebbe 
ammesso come possibile che dio fosse un organismo vivente in grado di sussistere per l’eternità, 
insegnando che l’universo è regolato da alcune leggi cosmiche piø forti della naturale disgregazione 
della materia. Questa prerogativa esclusiva della divinità permette, infine, di ipotizzare che 
dall’invito di Epicuro di assimilarsi il piø possibile ad essa non seguisse la necessità della 
soppressione delle passioni. Evidenziando che il dio antropomorfo resta comunque un vivente 
molto diverso da noi, cosa che ci è dimostrata dalla sua natura immortale, il maestro avrebbe potuto 
incitare i discepoli ad accettare senza troppi indugi le passioni di ira e di cárij nello stesso modo in 
cui invitava ad abbracciare la propria mortalità (Ad Men. 124.8-11), ossia a spronare gli allievi a 
considerare i páqh degli strumenti attraverso cui condurre una vita beata, piuttosto che delle qualità 
negative da sopprimere o trascendere. 
     Nessuna delle due linee interpretative ha di per sØ una maggiore o minore validità, visto che 
ognuna ha dei punti di forza di cui l’altra al contrario difetta. Quella idealista ha il pregio di fornire 
una semplice risposta delle tante difficoltà filosofiche che presenta la teologia epicurea, nella cui 
risoluzione invece il materialismo incontra dei seri problemi. In particolare, quest’ultimo rischia di 
capitolare nei riguardi delle tre spinose questioni evocate dall’accademico Cotta, il personaggio del 
De natura deorum professante le vedute di Cicerone sull’argomento: (a) come sia possibile che un 
dio composto di atomi sfugga alla dissoluzione che subentra in qualsiasi altro aggregato (I 24.68); 
(b) che cosa significhi attribuire alla divinità un quasi corpus e un quasi sanguis, o piø in generale 
che senso abbia conferirle il possesso di molte membra inutili, così come ratio e virtø inattive (I 
26.71, 33.92, 40.110-41.114); (c) per quale ragione risulta necessario venerare degli esseri che non 
aiutano nØ danneggiano i mortali (I 41.115). ¨ chiaro, infatti, che la dottrina del dio-concetto risolve 
(a) semplicemente constatando che un’æpínoia non è un essere vivente che può morire, supera (b) 
sostenendo che essa incarna il recondito desiderio umano del “dolce far/provar niente” e infine 
scioglie (c) adducendo il motivo già riportato in precedenza, ossia che Epicuro pregava per 
difendersi dal biasimo della folla. Di tutto questo il Sedley del 1987 era talmente cosciente al punto 
da ritenere senza paura di smentita che l’idealismo fosse «the only philosophically satisfying 
interpretation»
16
 della teologia epicurea. Questo giudizio lapidario viene però altrettanto fortemente 
attenuato dai meriti della linea materialista, che come si è visto risulta piø soddisfacente sia sul 
piano storico che su quello metodologico e non ha dunque bisogno di trascurare alcuni testi vergati 
da Epicuro o di mettere in secondo piano il resoconto di alcuni testimoni, tacciandoli di 
incomprensione teorica. Sedley compie, invece, entrambe le cose quando sostiene che il principio di 
êsonomía, introdotto da Velleio in De nat. deor. I 19.50, fornisce solamente delle «quite inadeguate 
                                                 
16
 Long-Sedley, The Hellenistic Philosophers, vol. 1, p. 144. Scrivo “il Sedley del 1987” perchØ quello del 2011 sembra 
essersi fatto piø cauto nelle sue affermazioni.
10 
reasons» a favore della «literal imperishability» degli dèi, in quanto il suddetto Epicureo non aveva 
compreso che il maestro aveva concepito la divinità come un costrutto mentale
17
. Un altro piccolo 
punto a favore del materialismo è che esso riesce meglio dell’idealismo a giustificare alcune scelte 
terminologiche di Epicuro. E in questo caso non mi riferisco tanto all’impiego del vocabolo zÐon 
dell’Epistola a Meneceo, quanto ad alcuni frammenti del Sul fato (23 e 385 Usener) e del libro XIII 
del Sulla natura di Epicuro (88 e 135 Arrighetti), che chiamano gli dèi concause, collaboratori o 
salvatori del genere umano. Il materialismo accetta, infatti, che la divinità sia un vivente emanante 
dei simulacri che favoriscono indirettamente gli individui entro cui si imbattono
18
. 
     Ciascuna delle correnti esegetiche risulterà allora piø persuasiva rispetto alla concorrente se e 
solo se sarà in grado di porre rimedio alle manchevolezze che le precludono il completo successo. 
Di conseguenza, un idealista dovrà essere in grado di dimostrare l’esistenza concettuale degli dèi 
compiendo il movimento delineato da Mansfeld – dai testi del maestro a quelli degli autori 
posteriori – e di proporre un’interpretazione piø fedele alla temperie storica in cui era calato 
Epicuro, alla sua terminologia e alle informazioni riportate dai suo scritti. All’inverso, un 
materialista avrà bisogno di fornire un resoconto in grado di sciogliere le questioni evocate da 
Cotta, che come scrive Maso ci consentono «sia di verificare la competenza del “filosofo” Cicerone, 
sia di perfezionare la nostra conoscenza della teologia epicurea»
19
. PoichØ abbraccia l’ipotesi 
materialista, questo lavoro tenterà dunque di risolvere i problemi (a), (b) e (c) posti 
dall’Accademico; la sua trattazione sarà organizzata in tre capitoli. 
     Il primo capitolo sarà interamente dedicato all’epistemologia. Partendo dalla disanima puntuale 
del passo Ad Men. 123.1-124.5, il quale delinea quello che si potrebbe chiamare il “programma di 
ricerca teologica” interno alla scuola di Epicuro, ossia l’insieme delle premesse e delle regole che 
ogni discepolo deve rispettare quando si avventura nella speculazioni sugli dèi, descriverò le 
principali modalità attraverso cui la divinità viene conosciuta e il valore dei criteri che soggiacciono 
loro. Il buon esito di questa indagine permetterà di capire che cosa siano l’\fqarsia e la 
makarióthj divina; inoltre, consentirà di risolvere il problema (c) evocato da Cotta, ipotizzando 
che la preghiera fosse intesa da Epicuro come una pratica cultuale capace di  far comprendere quale 
sia la natura del dio oggetto di venerazione pubblica. Nel corso di questa indagine, avrò poi modo di 
isolare un piccolo insieme di fenomeni che a mio avviso non possono essere usati per conoscere 
                                                 
17
 Long-Sedley, op. cit., vol. 1, p. 149. Morel, Épicure: la nature et la raison, p. 97, fa notare che i due autori non danno 
poi una giustificazione soddisfacente della collocazione degli dèi negli intermundia. Questa non è, infatti, una dottrina 
etica, come vorrebbe l’indice del The Hellenistic Philosophers (cfr. supra, p. 5, n. 7), bensì «une thèse physique: situØs 
en-dehors des mondes, ils [i.e. i qeoí] ne subissent pas les perturbations qui affectent les corps qui s’y trouvent». 
18
 Avverto però che Obbink, On Piety, pp. 486-487, è stato in grado di interpretare questo aspetto della teologia di 
Epicuro in senso idealistico. Per tale autore, infatti, gli dèi-concetto “salvano” in quanto forniscono il paradigma 
regolativo della vita beata, senza il quale gli uomini agirebbero a caso e risulterebbero pieni di turbamento. 
19
 Maso, Capire e dissentire, p. 39. Il corsivo è mio.