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Capitolo III
3. Le tre domande
Per riuscire ad adempire al tentativo di fornire un’esplicitazione il più possibile chiara
delle posizioni su cui si andrà a svolgere l’argomentazione, decidiamo di dividere la trat-
tazione in tre parti distinte, cercando al contempo di rispondere a tre domande precise,
tutte riguardanti il difficile problema posto dalla questione del “che cos’è” l’eterno ri-
torno:
1) In che cosa si crede?
2) Chi è che crede?
3) In che modo si crede?
3.1 In che cosa si crede? L’eterno ritorno come fede
Delineando i tratti caratteristici della dottrina dell’eterno ritorno e cercando d’indivi-
duarne la difficoltà nel categorizzarla, abbiamo gettato luce sul problema di fondo della
dottrina stessa. Questa, infatti, vede sorgere il suo pericolo più grande proprio a causa
della sua nascita. Nell’essenza intuitiva e ispirata
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del suo concepimento e nella presa di
coscienza da parte di Nietzsche dell’indimostrabilità fattuale della dottrina, questa rischia
di ricadere in un regno d’idee che per loro stesse hanno poca rilevanza, ovvero quello
delle ipotesi. Allora perché preoccuparcene? Quale valore reale può mai avere un’idea
che è solo lo specchio di una possibile realtà? Ascoltiamo le autorevoli parole di Martin
Heidegger a riguardo:
57
Cfr sopra.
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Se Nietzsche ammette che il pensato è soltanto una possibilità, non cessa egli stesso di essere serio e
prendere sul serio il pensiero? Assolutamente no; ciò che con questo viene espresso è che il tenersi in questo
pensiero è anch’esso essenziale per il suo stesso essere vero.
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Di seguito richiama un passo di Nietzsche stesso in cui dice:
Anche il pensiero di una possibilità può sconvolgerci e riplasmarci, e non solo le sensazioni o determi-
nate aspettative! Quali effetti non ha sortito la possibilità dell’eterna dannazione!
Proprio grazie alla sua natura indimostrabile un pensiero può essere assunto a fede o
dogma assoluto, e con ciò acquisire la maggiore rilevanza all’interno della vita di una
persona. Il carattere fondamentale di chi crede allora è proprio l’incrollabilità della con-
vinzione, che, rinnegando ogni posizione avversa, si tiene salda in sé stessa.
Che cos’è una fede? Come si forma? Ogni fede è un tener-per-vero.
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Ma cosa vuol dire esattamente ciò? Che l’eterno ritorno sia destinato a ricadere così
grossolanamente all’interno dello spettro delle religioni tradizionali? Facciamo una di-
stinzione quantomai necessaria: a differenza di qualsiasi religione monoteistica, il mondo
che ruota attorno al pensiero unico dell’eterno ritorno si colloca su di un preciso orizzonte
storico, che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti, ovvero quello del nichilismo.
Chiediamoci: come si può giustificare e difendere una posizione di fede in un contesto in
cui l’estrema e ultima conclusione sembra essere “nulla è vero, tutto è permesso”
60
. La
risposta di Nietzsche arriva nel modo più chiaro e assoluto: attraverso la volontà di po-
tenza.
Prendiamo uno solo tra gli infiniti aspetti del concetto di volontà di potenza e riportia-
molo all’affermazione di prima: ogni fede è un “tener-per-vero”; ciò vuol dire fissare,
costringere, cristallizzare la propria volontà di potenza su di un pensiero. E non solo; ogni
fede religiosa di tipo monoteistico si crede, nell’autocoscienza di chi la pensa e la pone
58
M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 328.
59
F. Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto 1887-1888. Frammenti postumi
ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, §15, trad. it. Treves A., a cura di M. Ferraris e M.
Kobau, Bompiani, Milano 2001.
60
F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. §24.
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come sua fede, o di chi inconsapevolmente si trova immerso in essa, derivata direttamente
dal Dio che lo protegge, lo guida e lo giudica. L’eterno ritorno ha nell’autocoscienza del
pensiero stesso, ovvero nei suoi più reconditi fondamenti, la consapevolezza di essere una
creazione del tutto umana. Si può per ciò togliere al pensiero valore, solo per il fatto che
chi lo pensa è cosciente che questo proviene dalla mente di un uomo, come ogni altro
pensiero di fede?
Ma è in questa differenza di consapevolezza che si risolve l’intero divario tra la reli-
gione di stampo classico e la nuova prospettiva ideata da Nietzsche? Abbiamo detto che
una fede, per essere tale, deve avere in sé l’elemento dell’indimostrabile, che nell’eterno
ritorno ritroviamo nella concezione ciclica del tempo; tuttavia, un altro punto di estrema
rilevanza, è su che cosa si basano le religioni monoteistiche, ovvero quello che Nietzsche
chiama il “mondo dietro al mondo”
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, l’aldilà che conferisce senso ultimo alla vita ter-
rena. Se il tempo non ha un inizio e una fine, se questo si riavvolge continuamente, da
sempre e per sempre, se ogni azione sarà ripetuta per l’eternità identica a sé stessa e nella
stessa successione, è chiaro che per un mondo al di là di questo non ci può essere più
spazio; la vita è l’unica realtà e anche l’ultimo argomento della fede: e la vita è l’unica
certezza che non può mai contraddire sé stessa.
Allora è la volontà di potenza che si attacca alla vita e la desidera come fine e scopo,
eleggendo ad ideale una possibilità che di per sé non ha alcuna validità scientifica. Questo
conferisce alla volontà una nuova determinazione, che Nietzsche aveva già prontamente
individuato come perno portante di ogni storia umana, solo che finora non era mai stata
riconosciuta come tale: la volontà d’illusione.
La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso […]. La questione è fino a
che punto questo giudizio promuova e conservi la vita […]; rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare
alla vita, una negazione della vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi
siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi […] sono per noi i più indispensa-
bili.
62
Nonostante il valore che può essere attribuito al vero, al verace […], c’è la possibilità che debba ascri-
versi all’apparenza, alla volontà d’illusione […] un valore superiore e più fondamentale per ogni vita.
63
61
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit. pp. 29-32.
62
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. §4.
63
Ivi, §2.
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Che la verità abbia maggiore valore dell’apparenza, non è nulla più che un pregiudizio morale; è perfino
l’ammissione peggio dimostrata che ci sia al mondo.
64
[…] fin da tempo immemorabile noi siamo abituati alla menzogna. Oppure, per esprimerci più virtuo-
samente e più ipocritamente […] si è molto più artisti di quanto non si immagini.
65
[…] L’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua la tranquilla
coscienza.
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Vediamo, in queste parole di Nietzsche un sentimento e una ragione ben precisi; nel
percorso evolutivo dell’uomo la volontà di illusione, ovvero la volontà di creare false
rappresentazioni, falsi concetti, falsi giudizi, e di eleggerli come veri in una sorta di atto
di smemoratezza, ha promosso la vita al fine di conservarla.
Ora, però, sembra essere giunto il tempo che la menzogna si riconosca come tale e
prenda la sua natura per quella che è, ovvero riconosca il suo sommo e più alto valore a
discapito di ogni presunta verità. D’altronde, ci ricorda Nietzsche, è stata proprio la vo-
lontà di verità cristiana ad aver smascherato la sua stessa fede come menzogna
67
, senza
però mai crescere, restando così appesa al filo dell’incredulità di argomentazioni conso-
latorie.
Perciò qual è il carattere proprio della dottrina dell’eterno ritorno? Diciamo: l’eterno
ritorno è un pensiero che non ha fondamento scientifico, ma artistico, estetico. È la vo-
lontà d’illusione cristallizzata in un pensiero che mira a far nascere una nuova prospettiva.
Questa unica prospettiva si erge come fosse un precetto, in definitiva solo e unico, rica-
vato dal contenuto stesso del pensiero: vivi in modo da poter desiderare questa vita, an-
cora una volta, per come l’hai vissuta, per tutta l’eternità. Il che pone uno sguardo in una
triplice direzione: la prima è quella rivolta al futuro, che si carica di responsabilità e di
scelta, restando iscritto in una sorta di contraddittoria linea fatalistica; la seconda è quella
rivolta verso il passato, il quale ha necessità di essere redento dalla volontà stessa che l’ha
64
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. §34.
65
Ivi, §192.
66
Nietzsche F., Genealogia della morale, cit. §25.
67
Ricordiamo il passo già citato da “Il nichilismo europeo”: “Ma tra le forze promosse dalla morale
c’era la veridicità: questa si volge infine contro la morale […]. E oggi la cognizione di questa lunga e
inveterata menzogna, che disperiamo di riuscire a scrollarci di dosso, agisce appunto come stimolante.”
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creato. Questa redenzione libera l’uomo dalla volontà di vendicarsi per i torti subiti e per
il dolore provato; ciò passa attraverso la volontà che deve poter “volere a ritroso”, dive-
nendo così libera. L’ultima direzione è inserita in un unico punto, l’“Attimo”, l’unico
istante che costantemente si vive, quello dove la volontà ha il suo dominio e che deve
essere riempito di cosciente desiderio, poiché in esso, e solo in esso, è la vita che viviamo.
Quest’unico precetto e questa molteplicità di sguardo hanno in loro racchiuse le infi-
nite possibilità nate dal crollo delle prospettive millenarie; il vecchio detto “tu devi” viene
così sostituito dal nuovo: “io voglio”.
Abbiamo così delineato la differenza sostanziale tra una fede di tipo tradizionale e la
fede di un pensiero che si sa creato, e che nel suo concepimento si pone al di sopra degli
altri pensieri grazie anche alla forza di colui che lo pensa, e non per un provvidenziale
atto divino.
Perciò chiamiamo l’eterno ritorno una “fede creativa”, nel duplice senso di “consape-
volmente creata” e che spinge chi la pensa a “creare il proprio senso dell’essere”, così
che l’unica giustificazione della vita sia la vita stessa.
Ora chiediamoci: chi è costui la cui forza è tale da poter far estendere un pensiero fino
a riempire l’intero orizzonte? Chi è colui che è in grado di darsi da sé il senso senza dover
appellarsi ad un ente metafisico? Chi è l’uomo in grado di darsi da sé il suo bene e il suo
male?
3.2 Chi è che crede? L’uomo più forte
Per rispondere a questa domanda è necessario scindere in due la questione:
1) Chi o cos’è l’oltreuomo?
2) Chi è l’uomo dell’eterno tramonto?
Per rispondere alla prima, difficilissima questione, ci affidiamo alla brillante interpre-
tazione di Lou Andreas-Salomé. Il brano che andremo a citare prende le mosse proprio
da quella volontà d’illusione che è necessaria a far nascere un nuovo e fondamentale con-
cetto: quello del “filosofo-creatore”.
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[…] (Nietzsche) esalta il valore dell’illusione, della finzione volontaria, di quel che non è logico e “non
è vero” in quanto forze che in fondo sostengono la vita e accrescono la volontà. Nietzsche si delizia dell’idea
che siamo noi stessi, come creatori, a introdurci dentro all’immagine del mondo che ci siamo costruiti
intorno, con tutta la particolarità del nostro animo – e che il nostro conoscere non sia in ultimo altro che
una “umanizzazione delle cose” – fino al punto in cui il mondo si dilegua in un’immagine di sogno che
ciascun individuo può ideare in base al proprio arbitrio. E si chiede: “Per quale ragione mai il mondo, che
il qualche maniera ci concerne, - non potrebbe essere una finzione?”
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con il pensiero recondito: e perché
dunque non potrebbe essere ricreato con un atto di forza?
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Continuando nella delimitazione di un concetto tanto straordinario quanto inesauribile,
poiché riguarda la natura stessa della creazione e quindi dell’estetica in generale, Salomé
continua portandosi un passo più in là nell’argomentazione.
L’uomo è nuovamente risospinto a se stesso come a colui che crea da sé tutte le cose. La vecchia con-
cezione “Io, Platone, sono il mondo”, è divenuta nuovamente possibile e si pone come ultima saggezza al
principio di ogni filosofia; non più, tuttavia, un’identificazione ingenua e ancora integra di persona e verità,
di soggetto e oggetto, bensì come azione creatrice, lucidamente consapevole e voluta, di chi ha riconosciuto
se stesso come il titolare del mondo. “ Io, Nietzsche-Zarathustra, sono il mondo; esso è perché io sono; esso
è come io voglio”. Un simile risultato viene solo accennato nelle misteriose parole finali: “Mezzogiorno;
momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHU-
STRA”.
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Ma cosa ha a che fare la figura dell’oltreuomo con quella del filosofo creatore,
dell’uomo che “con un gesto di forza, con un atto della volontà, […] pone dentro alle cose
il significato che queste, in se stesse, non possiedono”?
In prima istanza ci verrebbe da affiancare le due figure, mettere l’una dentro l’altra
come due parti inscindibili, poiché l’oltreuomo, per essere tale, non può esimersi dal
creare. Ed in effetti è proprio così. Tuttavia va notato che l’“abilità”, se così vogliamo
chiamarla, del filosofo-creatore, ovvero quella capacità d’imporre alle cose il loro senso,
e di concepire il mondo in base a sé stesso, può essere presente anche a chi non è risorto
sulla terra come ubermench. Questa “abilità” deve essere acquisita ed esercitata da chi
tende verso l’essere oltre-umano, anzi, diciamo, solo da lui. L’oltreuomo, infatti, non
68
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. §14.
69
Lou Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche, cit. p. 125.
70
Ivi, p. 126.
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possiede alcun carattere reale da poter esercitare su questa terra, non è un essere venuto
al mondo, piuttosto è un essere venturo, creato, idealizzato, nato dalla mente dello stesso
autore che ha partorito il pensiero dell’eterno ritorno.
Cosa vogliamo dire con ciò? Che l’oltreuomo, in fondo, non esiste? Che questo è solo
un concetto e non una “promessa”, né la naturale ed ineluttabile evoluzione sulla strada
dell’uomo?
Questo, per noi, resta un mistero nascosto al di là del tempo. Ciò che possiamo chie-
derci è invece: cos’è per noi l’oltreuomo, ovvero all’interno della cornice dell’eterno ri-
torno? E soprattutto, cos’è l’oltreuomo per l’essere che lo precede, in quella immaginaria
linea evolutiva, ovvero per l’uomo del tramonto?
Seguendo l’analisi tracciata da Salomé, la caratteristica fondamentale del superuomo
è quella della scissione dal suo parente più basso, l’uomo. Questo divario insormontabile
tra l’uno e l’altro è ciò che li rende diametralmente diversi, ideologicamente opposti e
moralmente inseparabili; l’uomo crea il superuomo per contrasto, attribuendogli tutto ciò
che lui dolorosamente sente come mancanza, ovvero la crudeltà degli istinti, la smoda-
tezza sfrenata, la capacità di dominare, la piena forza vitale, e la capacità prima di riuscire
a vivere all’interno dell’orizzonte creato dall’eterno ritorno.
Ma la condizione fondamentale per potersi fare una rappresentazione attraverso il proprio sé dell’essere
apparentemente superumano è che quello mantenga la forza selvaggia della sia straziante smodatezza, che
non si infiacchisca, non si freni, non si mitighi o si “purifichi” per privare gli opposti della loro dolorosa
tensione. Quanto più in alto si vuole giungere […] tanto più a fondo si devono affondare le radici della
propria forza nel più oscuro regno ctonio, nel proprio elemento inumano, disumano. Il superumano prodotto
dall’uomo diventa così la rappresentazione di una mera parvenza divina, di una immagine istantanea per
così dire, non quella della sua natura vera e propria: ma esso è realizzabile soltanto in questo modo. Dal
momento che nessuna evoluzione graduale, nessuna transizione avvicina tra loro gli opposti, dal momento
che essi piuttosto si condizionano e si producono proprio in virtù della loro opposizione, tra loro resterà in
eterno un abisso insormontabile: da un lato la realtà degli impulsi umani spaventosamente accresciuta,
caoticamente agitata; dall’altro una semplice immagine illusoria, un tenue riflesso, quasi una maschera
divina dietro a cui non vi è alcuna realtà autonoma.
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Innanzitutto viene ribadito il concetto che ciò che realmente si va costruendo è la pro-
pria, individuale rappresentazione dell’essere superumano. Conseguentemente Salomé
71
Lou Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche, cit. p. 153.