16
permette di rendere visibile l’impegno sociale delle imprese.
Con l’espressione cause related marketing (CRM) intendiamo una vera
e propria strategia di marketing che si attua nel momento in cui un’impresa
decide di sposare una causa sociale, con l’intento di perseguire obiettivi di
natura economica, ma anche sociale.
Il motivo che mi ha portato a scegliere un argomento del genere nasce
anzitutto da una personale curiosità nel cercare di capire non solo se nel
mondo del business aspetti economici e sociali non siano antitetici, ma se
addirittura questi possano convivere in armonia. Non nego un mio iniziale
scetticismo data la natura apparentemente contrastante dei due aspetti, ma che
gradualmente ho abbandonato grazie ad un’attenta ricerca sull’argomento.
La seconda motivazione, che mi ha condotto ad approfondire questa
particolare tematica, ruota attorno alla realtà del marketing, al perché cioè tale
strumento stia prendendo sempre più campo all’interno delle varie strategie di
mercato soprattutto nel nostro paese e, in particolar modo, se questo sia
effettivamente uno strumento competitivo.
Il presente lavoro cerca di dare un quadro esaustivo sul tema del CRM,
nonostante la scarsità di testi sull’argomento e la confusione che ancora
aleggia intorno ad esso. Ciò è dovuto al fatto che il marketing legato alle cause
sociali non è una scienza esatta, con regole ferree, ma un modo di fare
business che può acquistare varie forme e sfaccettature, adattabile al contesto
in cui si inserisce.
Pertanto, nel primo capitolo verrà preso in esame il cambiamento socio-
economico a cui il mondo ha assistito, e inevitabilmente anche il nuovo modo
di concepire il mondo dell’imprenditoria, passando da un’azienda product
oriented a quella social oriented. Ci soffermeremo, in particolare, sul
cambiamento che il concetto di corporate social responsibiltiy ha visto in
questi decenni, un cambiamento che ha portato l’azienda a dover rivedere il
proprio ruolo all’interno della società. Tale ruolo è sintetizzabile nel concetto
di “good citizenship” ovvero “buona cittadinanza d’impresa”, secondo cui
17
l’operato aziendale va innanzitutto valutato come derivante da un membro
della collettività e solo successivamente come frutto di un’unità produttiva. I
vertici aziendali hanno iniziato ad avere, di conseguenza, un interesse
crescente verso le richieste dei diversi interlocutori sociali. Nel capitolo,
quindi, verrà spiegato chi sono gli stakeholders e che cosa chiedono al mondo
aziendale. Inoltre, sempre nel primo capitolo si passerà ad una breve, ma
esauriente analisi dei principali strumenti, come il bilancio sociale, il codice
etico, le certificazioni, che testimoniano un’effettiva responsabilità sociale
delle imprese.
Con il secondo capitolo entreremo nel cuore del presente lavoro,
affrontando il concetto di cause related marketing. Dopo aver preso in esame
la storia del CRM ed i vari aspetti teorici costruiti attraverso i casi pratici
moltiplicatisi in questi anni, si analizzerà approfonditamente quelli che sono i
benefici e gli obiettivi legati ad esso, spiegando il motivo per cui il CRM è
utile per migliorare l’immagine e la reputazione aziendale garantendo così una
maggior competitività per chi lo attua. Nonostante gli innumerevoli vantaggi
che un’iniziativa di CRM può offrire, si esamineranno anche quelli che sono i
rischi ed i limiti che ruotano intorno ad essa. L’ultima parte del capitolo sarà
rivolta a capire quanto, ma soprattutto come l’attività di CRM si sia evoluta in
Italia in questi anni, grazie all’analisi d una ricerca quali e quantitativa svolta
dall’Unione Industriale della Provincia di Napoli in collaborazione con
l’Università La Sapienza.
Nel terzo capitolo saranno approfonditi quelli che sono gli aspetti
gestionali di una buona campagna di CRM. Per capire quali sono le fasi per un
corretto cammino, verrà analizzata la Guideline lanciata in proposito da
Business in the Community, la principale organizzazione inglese che da anni
aiuta le imprese ad inserirsi in un’ottica di responsabilità sociale. Nonostante
molte imprese abbiano preso questo prospetto come punto di riferimento, dato
che in materia i paesi anglosassoni vantano una lunga tradizione, esso non
vuole avere la pretesa di essere l’unico modo di fare CRM, ma certamente una
18
buona base di partenza, data la sua completezza.
La tesi, infine, è avvalorata dallo studio di un caso pratico, quello
dell’Operazione Piatto Pieno del brand Svelto. L’ultimo capitolo, infatti, sarà
dedicato completamente all’esperienza dell’azienda Lever Fabergé, da anni
impegnata nel sociale, permettendo così un’ osservazione pratica dei numerosi
concetti discussi nella parte teorica. Seguendo la struttura della tesi, si
analizzerà la realtà del brand Svelto partendo da un inquadramento generale
della corporate social responibility all’interno dell’azienda per poi indagare
sulle motivazioni che hanno fatto dell’Operazione Piatto Pieno, una delle
campagne di CRM di maggior successo.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
19
CAPITOLO I
LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA
NUOVA CULTURA D’IMPRESA.
I.1 Il mutamento dello scenario socio-economico legato alla
globalizzazione
Se si vuole avere una chiave di lettura dei mutamenti socio-economici
che si sono verificati negli ultimi anni, questa deve attuarsi su un piano
globale. Infatti, il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale,
e gli avvenimenti socio-politici, come il crollo del muro di Berlino e
dell’Unione Sovietica hanno segnato profondi cambiamenti nel sistema di
produzione/consumo e non solo.
I sistemi di pianificazione centralizzati e burocratici hanno lasciato
spazio a meccanismi di scelta decentrata regolata dai mercati. Questa
propensione si è concretizzata in un insieme di interventi − liberalizzazione
del commercio internazionale, privatizzazioni, apertura delle frontiere − che
hanno concorso alla globalizzazione, frutto di una forte integrazione non solo
tra le economie mondiali ma anche tra le società e le culture.
In realtà, il processo di globalizzazione non è solo di questi ultimi anni.
Storicamente, si possono delineare tre ondate di globalizzazione a partire dal
1870 qui di seguito sintetizzate
1
.
1
I fenomeni legati all’integrazione economica come i flussi di capitale, l’immigrazione o la
liberalizzazione dei mercati erano presenti anche prima del 1870, ma non erano così rilevanti da
giustificare l’uso del termine globalizzazione. Per un approfondimento di questo excursus storico si
veda P. COLLIER – D. DOLLAR, Globalization, Growth and Poverty: Building an Inclusive World
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
20
La prima va dal 1870 al 1914: furono anni caratterizzati dalla
diminuzione dei costi di trasporto e la riduzione delle barriere tariffarie. Questi
due elementi permisero lo sfruttamento dell’abbondanza di terra, che portò
come conseguenza la formazione di forti disuguaglianze all’interno dei paesi,
dove gli unici a trarne beneficio furono proprio i proprietari terrieri.
Ciononostante, la rapidità della crescita economica contribuì alla riduzione
della povertà come mai era avvenuto prima. Tuttavia, questa riduzione fu
insufficiente a controbilanciare l’andamento della popolazione, ed i poveri
aumentarono.
La seconda ondata è relativa al periodo tra 1945 e il 1980: a seguito di
una forte depressione che portarono molti stati ad attuare misure
protezionistiche (limitazioni sulle fughe di capitali, sull’immigrazione, etc.) e
che provocarono inevitabilmente una riduzione degli scambi, si passò ad una
fase di internazionalizzazione. Vennero abolite le barriere tariffarie seppure in
misura parziale. Infatti, nei confronti dei paesi in via di sviluppo vennero
eliminate solamente quelle relative ai beni primari che non erano in
concorrenza con i beni agricoli dei paesi sviluppati. Pertanto in quel periodo la
liberalizzazione fu asimmetrica poiché si arricchirono solo i paesi già
industrializzati.
L’attuale ondata di globalizzazione, invece, che inizia negli anni
Ottanta, si distingue dalle precedenti per diversi aspetti. In primo luogo per la
partecipazione ai mercati globali di un numeroso gruppo di paesi in via di
sviluppo. Basti pensare a paesi come l’India, la Cina, il Messico che hanno
visto una crescente ripresa economica e che sono diventati sempre più
importanti nel panorama economico mondiale. Per la prima volta molti paesi
poveri sono riusciti a sfruttare le potenzialità di una forza lavoro abbondante
per accedere ai mercati globali dei prodotti e dei servizi. Infine, anche la
ripresa dei flussi migratori e di capitale hanno caratterizzato questa ondata
Economy, World Bank, Oxford 2001, trad. it. Globalizzazione, crescita economica e povertà, Il
Mulino, Bologna 2003, pp. 39-80.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
21
attuale rispetto alle precedenti per la sua vastità e portata. I flussi di capitale
verso i paesi in via di sviluppo hanno visto una crescita esponenziale: da meno
di 28 miliardi di dollari negli anni Settanta, a circa 306 miliardi di dollari nel
1997, in cui hanno raggiunto il punto massimo
2
. Le immigrazioni dai paesi
poveri verso quelli ricchi, in questi ultimi anni sono aumentate
considerevolmente, soprattutto per motivi economici data la forte disparità tra
i salari dei paesi in via di sviluppo e quelli industrializzati. Inoltre, il fattore
immigrazione ha favorito il flusso di idee, culture e stili di vita che,
inevitabilmente, si sono intrecciati fra loro. L’integrazione culturale e sociale è
stata incoraggiata anche da un forte sviluppo tecnologico, che ha permesso
sempre più di eliminare confini spazio-temporali.
Da questa breve descrizione di cosa ha portato la globalizzazione, si
può comprendere come il mondo stia mutando all’insegna del paradosso. Da
una parte si stanno aprendo numerose opportunità per milioni di individui a
livello mondiale, offrendo enormi potenziali per sradicare la povertà,
dall’altra, però, non tutti i paesi in via di sviluppo hanno avuto una simile
opportunità. Molti altri paesi sottosviluppati non sono riusciti ad integrarsi
nell’economia industriale mondiale, assistendo solamente ad una diminuzione
del reddito ed un aumento della povertà. L’ultimo decennio ha mostrato una
crescente concentrazione di reddito, delle risorse e di benessere nelle mani di
pochi paesi, portando i paesi sottosviluppati ad una posizione marginale nel
panorama socio-economico mondiale.
Di conseguenza, la globalizzazione ha generato numerosi timori, spesso
giustificati, relativi all’aumento delle disuguaglianze, alla diversa dislocazione
del potere e all’omogeneizzazione delle culture
3
. Tali perplessità, scaturite
anche da avvenimenti gravi come gli attacchi terroristici, i problemi
ambientali, etc., hanno portato alla mobilitazione di ampi settori dell'opinione
pubblica mondiale, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di
sviluppo, i più esposti ai rischi insiti in una mondializzazione spinta e
2
Ibidem, p. 67.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
22
incontrollata, regolata troppo spesso dalle leggi del denaro.
Alla fine del 1999, il vertice del WTO di Seattle fu attaccato dalla
protesta di decine di migliaia di persone, in rappresentanza di organizzazioni
ambientaliste, pacifiste, umanitarie, sindacali e politiche. Successivamente a
queste persone fu dato il nominativo di “Popolo di Seattle”, un movimento che
ha avuto una forte crescita anche in Italia. In occasione del vertice dei paesi
del G8 che si svolse a Genova nel luglio 2001, il movimento "no global"
italiano organizzò un "controvertice" al quale presero parte centinaia di
migliaia di persone.
Tuttavia, all’interno di questi movimenti di critica al processo di
globalizzazione, esiste un’ampia frangia di persone che non assumono
posizioni estreme come i no-global. Esse non sono contrarie alla formazione di
un sistema di scambio e di relazioni a livello globale, ma semplicemente non
credono che maggior libertà concorrenziale sia di per sé una condizione
sufficiente per la diffusione equa della ricchezza e la massimizzazione del
benessere.
Oggi esistono delle istituzioni internazionali (WTO, Banca Mondiale,
FMI) che cercano di regolare le questioni economiche a livello mondiale,
lasciando purtroppo ai paesi poveri scarsa influenza e poca voce in capitolo,
sia per mancanza di capacità, sia per carenza di rappresentati significativi.
Pertanto, è necessario consolidare le regole e le istituzioni per una governance
più forte, sia a livello locale che mondiale che coinvolga tutti gli attori sociali,
in modo da preservare i vantaggi del mercato globale, ma anche di
salvaguardare le comunità. Insomma una globalizzazione che non operi solo a
favore dei profitti, ma anche degli individui
4
.
3
Theodor Levitt considera la società globale caratterizzata da precisi trand sociali, da un’economia su
scala mondiale, da un contesto di vita prevalentemente urbano e dall’omogeneizzazione dei bisogni
diffusa dalle nuove tecnologie. Per un approfondimento si veda T. LEVITT, The globalization of
market, <<Harvard Business Review>>, maggio-giugno 1983, citato in G. BETTETINI – S.
GARASSINI – B. GASPARINI – N. VITTADINI, I nuovi strumenti del comunicare, Strumenti
Bompiani, Milano 2001, p. 204.
4
Cfr. UNDP, Rapporto 1999 su Lo Sviluppo Umano. La globalizzazione, Rosenberg & Seiller, Torino
1999, pp. 17-29.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
23
A seguito di tali cambiamenti, le aziende hanno iniziato a domandarsi
se il modo tradizionale di pensare al ruolo dell’impresa non fosse superato e se
non andassero cercati nuove vie per operare. La questione sopra esposta è stata
sollecitata anche dalla forte pressione competitiva, alla quale le imprese sono
stata costrette a reagire, diventando le protagoniste di un progetto di
rinnovamento e assumendo un ruolo centrale nel sistema economico e sociale,
mai esercitato in precedenza.
Una recente ricerca dell’Insitute for Social and Policies Studies di
Washinghton
5
ha dimostrato quanto il mondo imprenditoriale stia diventando
sempre più il principale motore dello sviluppo nel contesto dei paesi poveri.
Infatti, delle prime 100 entità economiche al mondo, 51 sono imprese e 49
nazioni; le 200 più grandi imprese al mondo realizzano oltre un quarto
dell’attività economica mondiale. Ancor più significativi sono i dati relativi ai
flussi di capitali verso i paesi in via di sviluppo: nel 1970 esso proveniva per il
70% dal settore pubblico e per il 30% dal privato; a distanza di 30 anni la
situazione si è capovolta: l’80% proviene dai privati e solo il 20% dal
pubblico.
Le grandi imprese, quindi, si trovano di fronte ad un doppio livello di
operatività e di sviluppo: da un lato sono ancora fisicamente legate ad un
territorio di origine, mentre dall’altro virtualmente collocato in un piano a-
territoriale. Questo cambio di marcia le ha costrette a rivedere non solo i
propri sistemi operativi e gestionali, ma anche modificare i cardini attorno ai
quali articolare le scelte strategiche.
5
Cfr. ACCOUNTABILITY, BUSINESS FOR SOCIAL RESPONSIBILITY, Business and economic
Development. The Impact of Corporate Responsibility Standards and Practices, London, San
Francisco, Branford 2003, citato in M. MOLTENI – M. LUCCHINI, I modelli di responsabilità
sociale nelle imprese italiane, Franco Angeli, Milano 2004, p. 12.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
24
I.2 La storia della Corporate Social Responsibilty
Nonostante in Italia solo recentemente si sia trattato maggiormente
dell’argomento relativo al rapporto impresa e ambiente socio-culturale, il
concetto di Corporate Social Responsibility (CSR) non è poi così nuovo.
Nasce negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, anche se con il passare del
tempo vede continue trasformazioni. Lo scopo era quello di far comprendere
alle imprese l’esistenza di responsabilità ed obiettivi addizionali a quelli
economici-finanziari, che avessero contribuito alla risoluzione di
problematiche sociali come la disoccupazione, l’inquinamento ambientale, etc.
Negli anni si vedranno susseguire diversi filoni
6
. Il primo filone risale
agli inizi degli anni Cinquanta e si basava sul presupposto fondamentale di
riconoscere le potenzialità che ha un’azienda di incidere sul progresso sociale
oltre che economico. Se questi presupposti esistono, l’impresa è obbligata a
compiere azioni socialmente responsabili. Pertanto, questo approccio era
legato fortemente al significato del dovere di un’azienda, nel senso che se
l’impresa poteva incidere positivamente sul benessere della comunità, essa
allora doveva farlo. Inoltre, il discorso di responsabilità sociale veniva
considerato in modo opportunistico poiché il comportamento etico era
subordinato al tornaconto economico.
Un tipo di impostazione così rigida non ha potuto esimersi dalle
critiche, prime fra i quali quella di considerare il concetto di responsabilità
sociale come sinonimo di obbligazioni ulteriori che l’impresa deve assumersi
rispetto alle sue attività tradizionali. Tale approccio, infatti, portava
inevitabilmente a considerare il senso di responsabilità sociale in modo
“negativo” (obbligazione), trascurando, invece, le grandi opportunità che
poteva offrire. Questo avveniva perché questo filone indagava principalmente
solo sugli atti concreti, compiuti sulla base di principi ed obiettivi che
6
Cfr. P. DI TORO, L’etica nella gestione d’impresa:studio sulla dimensione culturale dell’azienda e
sulla qualità del modo di essere, Cedam, Padova 1993, pp. 99-133.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
25
andavano oltre l’aspetto meramente economico, ma che in realtà non erano
mai veramente esplicitati. In questa fase, il concetto di responsabilità sociale
resta semplicemente come uno strumento di facciata poiché da parte del
mondo imprenditoriale mancava di fondo un serio cambiamento del suo modo
di essere, senza una reale e concreta interiorizzazione dei principi etici che
avrebbero dovuto guidare l’intero operato aziendale.
Da queste carenze e riflessioni, si arriva alla seconda ondata di indagini,
quella della cosiddetta Corporate Social Responsiveness che nasce e si
sviluppa a partire dagli anni Settanta, in risposta all’esigenza di ampliare il
senso del precedente filone. Rispetto alla corrente precedente, da parte delle
aziende emerge una sensibilità maggiore nei confronti delle istanze sociali che
si esplica nello sviluppo di procedure interne idonee a risolvere questioni
sociali. Infatti, questa dottrina focalizza maggiormente il discorso sui modi, gli
strumenti e sui processi che l’impresa è chiamata ad attuare per far fronte a
determinate problematiche.
Tuttavia, neanche questa impostazione è stata esente da critiche, in
quanto anche questo filone si è concentrato più sui mezzi che sul vero
significato dei fini delle attività aziendali. In altri termini se da un lato la
Corporate Social Responsiveness ha il pregio di aver dedicato attenzione agli
strumenti manageriali (auditing sociale, codici di condotta, etc.), dall’altro, ha
prestato poca interesse sulle reali motivazioni che sottendono queste tipi di
strategie. Nonostante questi due filoni sopra descritti abbiano contribuito a
loro modo a diffondere il concetto di responsabilità sociale fra le aziende,
manca a monte un’attenta analisi della sfera etica
7
.
L’ultimo filone esploso negli anni Ottanta e denominato Business
Ethics (o etica degli affari) cerca di ovviare a questa mancanza, indagando sui
fini e sui limiti sociali dell’attività aziendale, nonché sulle norme e sui principi
culturali che orientano i suoi comportamenti.
Difatti, non a caso questo filone utilizza il termine etica. La parola etica
7
Cfr. M.A. MASSEI, Interesse pubblico e responsabilità sociale, Egea, Milano 1992, p. 119.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
26
deriva dal greco ethos ed indica i principi ovvero le norme che guidano la vita
di un gruppo sociale. Al riguardo si può distinguere tra etica personale ed etica
sociale, di cui l’etica economica – che si occupa in modo specifico sia
dell’ordinamento economico in generale, sia delle politiche messe in atto dalle
aziende e da altri soggetti economici – rappresenta il settore di maggior
importanza
8
.
L’espressione Business Ethics presenta delle ambiguità circa il suo
significato, in quanto può essere riferito sia agli affari in generale − e pertanto
anche a quelli messo in atto da singoli − sia all’azienda in modo specifico,
accezione quest’ultima accolta in questa sede
9
.
In particolare la Business Ethics si propone di sottolineare l’importanza
di definire politiche aziendali fondate su una cultura permeata da una
dimensione etica, basata cioè su un sistema di principi normativi e di valori-
guida che siano in sintonia con quelli dei propri interlocutori sociali
(stakeholders). Tali valori definiscono i diritti e gli obblighi degli attori sociali,
dunque l’opportunità di poter prendere determinate decisioni, poiché la
dimensione etica non consiste solamente in un insieme di norme da seguire,
ma piuttosto in un processo logico-razionale di valutazione sulla scelta di
attuare certi comportamenti.
In particolare la dimensione etica d’impresa ha la capacità di
10
:
- vedere le opportunità,
- capire e gestire le risorse a disposizione,
- interpretare le aspettative degli stakeholders,
- strutturare strumenti gestionali in grado di venire incontro alle esigenze
8
Più precisamente il concetto di ethos deriva dai termini greci ethos (abitudine) ed ēthos (luogo di vita
abituale, consuetudine, costume, uso, carattere). L’ethos rappresenta quindi la struttura dei
comportamenti abituali in una determinata comunità sociale, sia in senso oggettivo (come costume) ed
in senso soggettivo (come carattere). Di conseguenza, non si tratta solo del comportamento personale
di un singolo individuo, ma anche del modo in cui si comportano le istituzioni. Per un
approfondimento si veda J. ROHLS, Geschichte der Ethik, J.C.B. Mohr, Tübingen 1991, trad. it. P.
KOBAU, Storia dell’etica, Il Mulino, Bologna 1995, citato in .T. BRIOSCHI, Etica e deontologia
nella comunicazione d'azienda, Vita e Pensiero Università, Milano 2003, p. 4.
9
Ibidem p. 8.
10
P. TORO, L’etica nella gestione d’impresa…, p. 123.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
27
sociali.
Pertanto, un’impresa non può più prendersi il lusso di essere sollevata
da tali questioni, soprattutto perché si trova di fronte ad un consumatore
sempre più consapevole di quanto i valori-guida delle imprese giochino un
ruolo rilevante nel definire il livello qualitativo delle generali condizioni di
vita. Di conseguenza, l’intera comunità pretende un maggior grado di eticità
da parte dell’azienda, in quanto sempre meno disposta a tollerare trasgressioni
e comportamenti scorretti.
11
Etica, dunque, come sinonimo di responsabilità
sociale in cui si deve riflettere non più soltanto su come fare, ma soprattutto
sul perché di certe azioni.
Questo tipo di visione appena descritta non è una prospettiva
assistenzialistica o altruistica, ma un tipo di comportamento, che deve essere
esplicitato se si vuol riuscire ad instaurare solidi e duraturi legami con gli
interlocutori sociali, evitando l’insorgere di tensioni che si ripercuotono anche
sulla performance economica dell’azienda.
Sebbene si sia cercato di comprendere, attraverso questo excursus
storico, come il concetto di CSR si sia evoluto in questi decenni, si deve
cercare di andare aldilà delle etichette o delle definizioni ad essa attribuitagli.
Gli approcci sopra descritti, quindi, dovrebbero apparire come componenti
complementari di un’unica disciplina, nonché di un orientamento gestionale
che l’impresa è tenuta ad interiorizzare.
I.3 La figura degli stakeholders
Quando ci si addentra nel mondo dell’impresa, non si può trascurare il
fatto che essa ha un impatto inevitabile sulla comunità in cui è inserita.
Difatti, la concezione secondo la quale l’impresa deve rendere conto solo a
11
Cfr.G.E. OTTOSON, Essential of an Ethical Corporate Climate, citato in P. TORO, L’etica nella
gestione d’impresa…, p. 126.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
28
pochi gruppi come i consumatori o gli azionisti è ormai ampiamente superata.
L’impresa è ormai consapevole che si può accrescere il valore aziendale
non soltanto agendo sulle prestazioni reddituali dell’azienda, ma anche
attraverso la ricerca del consenso da parte di tutti coloro che possono
contribuire alla valorizzazione del capitale d’impresa. Quest’ultimo, infatti, si
articola in: finanziario, tecnologico, umano, relazionale e reputazionale. Ciò
comporta il fatto che un’azienda, come qualsiasi soggetto sociale, per capire
quali tipi di influenza possa generare, deve innanzitutto riconoscere tutti i reali
e potenziali portatori d’interesse e di instaurare con ognuno di questi relazioni
sistematiche e durature
12
.
Diverse teorie sono sorte per cercare di comprendere quali sono gli
interlocutori sociali con cui un’azienda deve sapersi relazionare. Sicuramente
un grande contributo in questo senso è stato dato da Freeman, padre dell
Stakeholder Theory, sulla quale ci soffermeremo in seguito.
Innanzi tutto partiamo dal significato della parola anglofona
stakeholder
13
. Questo termine è formato da due parti: stake, ovvero interesse,
posta in gioco, e holder, possessore, portatore. Esso indica quindi i portatori di
interessi, coloro cioè che hanno in gioco qualcosa. Perciò, con l’uso di questo
termine si vuole sottolineare un ampliamento delle categorie o delle singole
persone che riescono ad influenzare la gestione aziendale, determinando
l’insorgere di pressioni, rischi, opportunità, etc. Ovviamente questo tipo di
influenza non è a senso unico, in quanto questi gruppi di interesse, oltre ad
influire sull’operato aziendale, a loro volta vengono essi stessi condizionati
dalle attività dell’impresa. Difatti lo studioso Rhenman definendo gli
stalkeholders come: “gli individui ed i gruppi che dipendono dall’impresa per
12
Cfr. G. BIRINDELLI – A. TARABELLA, La responsabilità sociale delle imprese e i nuovi
strumenti di comunicazione nell'esperienza bancaria italiana, Franco Angeli, Milano 2001, p. 74.
13
Il termine stakeholder è nato nell’ambito degli studi sulle strategie aziendali ed è comparso per la
prima volta pubblicamente in un memorandum dello Stanford Research Institute (USA) del 1963 per
indicare quei gruppi senza il cui appoggio un’organizzazione non è in grado di sopravvivere. Per un
approfondimento si veda G. RUSCONI, Il bilancio sociale d’impresa. Problemi e prospettive,
Giuffrè, Milano 1998, p. 33, citato in P. DI TORO, L’etica nella gestione d’impresa…,p. 65.
CAPITOLO I - LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
29
realizzare dei loro obiettivi personali e da cui l’impresa dipende”
14
, li
considera come tutti azionisti dell’impresa.
Entrando in maniera più dettagliata nelle singole categorie, queste
possono essere individuate sulla base dei ruoli e delle funzioni che i suddetti
interlocutori assumono quando si trovano a contatto più o meno direttamente
con un’impresa.
Gli stakeholders possono principalmente essere suddivisi in: primari e
secondari a seconda del grado di coinvolgimento che hanno con l’impresa
15
.
Alla prima macroclasse appartengono:
- i lavoratori: essendo direttamente esposti ad eventuali danni o rischi,
hanno un interesse immediato affinché le attività svolte dall’azienda
non rechino danni al contesto socio-economico in cui operano. In
questa categoria possono rientrare anche i potenziali lavoratori, ovvero
tutti colori che sono oggetto di prossime assunzioni;
- gli azionisti e creditori: nessun individuo potrebbe mai essere
interessato ad investire il proprio denaro in aziende che hanno un
comportamento socialmente irresponsabile, dato che questo
comporterebbe solo perdite economiche che si traducono in una
riduzione dei dividendi o nelle perdita di valore del pacchetto azionario;
- i clienti: anch’essi sono molto più attenti alle conseguenze che
potrebbero produrre le attività delle imprese. Di conseguenza svolgono
in misura crescente attività di pressione (boicottaggi, associazione
consumatori, etc.) in modo da influenzare le strategie aziendali;
- i fornitori: sia attuali che futuri;
- i concorrenti: spesso questa categoria è sottovalutata, poiché a volte le
imprese non si rendono conto che tra i fattori che possono spingere ad
adottare comportamenti socialmente responsabili c’è anche la pressione
14
E. RHENMAN, Industrial Democracy and Industrial Management, Tavistock Publications Limited,
London 1968, p.39, citato in P. DI TORO, L’etica nella gestione d’impresa…, p. 66.
15
F.M. PINI, Verde Marketing: i prodotti del futuro hanno un’anima ecologica, Lupetti Editore,
Milano 1985, pp. 22-30.