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l’urgenza di adottare soluzioni volte al
miglioramento della loro qualità di vita.
ESIGENZE DI UNA NUOVA NORMATIVA
Lo sviluppo della normativa nazionale sul tema
dell’handicap e, in particolare, sull’integrazione
scolastica, riflette un’evoluzione corrispondente ai
modelli culturali sul tema della diversità e sulle
sue rappresentazioni sociali.
Per un lungo periodo, durato secoli, tutte le
forme di disturbo psichico, d’insufficienza mentale e
di menomazione psicofisica, furono gestite negli
istituti, o nel silenzio e nella “vergogna” delle
famiglie, colpite dal pregiudizio e dalla necessità
della società dei “sani” di rimuovere una
rappresentazione d’infermità e di sofferenza.
Gli atteggiamenti sociali nei confronti delle
persone con handicap si differenziavano in due tipi
che rappresentavano dei comportamenti differenti ed
opposti: uno di rigetto di fronte ad un avvenimento
estraneo e minaccioso; uno di assistenza e protezione
in quanto la persona con handicap veniva considerata
incapace di provvedere a se stessa.
7
Le indagini su questi atteggiamenti hanno messo
in luce che vi è una ragguardevole confusione ed una
gravissima inesattezza quando ci si esprime in merito
alla problematica dell’handicap.
Infatti, sovente non viene fatta nessuna
distinzione fra i vari aspetti e i differenti livelli
di gravità.
ANNI ‘60: LA SCUOLA E LE SCUOLE SPECIALI
Fino al 1965 l’emarginazione sociale danneggiò
soprattutto i bambini delle classi più basse e quelli
che presentavano handicap di varia natura.
La scuola fin dalle elementari svolse
un’operazione di selezione e d’emarginazione,
prospettando programmi rigidi e un’organizzazione
della vita scolastica completamente non conforme alle
esigenze, ai livelli di maturità e al differente modo
di esprimersi dei vari alunni.
Le ripetenze ed i ritardi scolastici raggiunsero
livelli preoccupanti.
Durante gli anni ’60 con l’istituzione della
scuola media unificata, prese avvio nel nostro paese
il fenomeno della scolarizzazione di massa: le scuole
speciali per soggetti minorati aumentarono
8
progressivamente ed allo stesso tempo furono
istituite le classi differenziali per tutti quei
bambini che, pur non essendo disabili; crearono alla
scuola problemi di gestione comportamentale e
d’organizzazione didattica.
Presto si comprese come queste classi speciali,
nate ufficialmente per recuperare gli alunni in
difficoltà, fossero effettivamente dei luoghi in cui
il bambino non faceva altro che prendere coscienza
ancora di più delle proprie incapacità ed assumeva in
modo definito e dichiarato il ruolo sociale di
handicappato.
Le scuole speciali si fondavano su una
consuetudine scientifica consolidata che dimostrava
come se un bambino avesse un ritardo nelle capacità
d’intelligenza e di movimento, occorreva, prima di
inserirlo nel gruppo sociale, riabilitarlo affinché
si potessero recuperare le sue capacità alterate e
bloccate da uno sviluppo anormale.
L’emarginazione della scuola rappresentò il primo
passo verso il ricovero in istituto; gli insuccessi
del bambino, la stessa impotenza della famiglia e
della scuola portarono pian piano a pensare che
potesse essere una soluzione più adeguata.
Nello stesso tempo il ricovero ebbe la funzione
di tranquillizzare i familiari, perché non si
9
sentivano più investiti di responsabilità e di
angosce nei confronti del figlio handicappato.
In questo tipo di istituti il bambino
handicappato non poteva che aggravarsi perché andava
a perdere le relazioni con il proprio ambiente
familiare ed era obbligato a vivere in una condizione
di solitudine con pochi stimoli affettivi e
intellettuali.
Era inevitabile ed innegabile che la sua
inclinazione a distaccarsi dalla realtà aumentasse,
che perdesse interesse per quello che gli succedeva
intorno.
ANNI ‘70: CRITICHE SULL’ASSISTENZA E SPINTA
ALL’INTEGRAZIONE
Intorno al 1970, anche sulla spinta dei temi politici
del 1968, si sviluppò la critica ai sistemi con cui
venivano assistiti gli handicappati: dalla scuola che
troppo spesso si limitava a bocciare ai metodi di
diagnosi utilizzati da insegnanti, medici e psicologi
che lavoravano negli istituti.
Si constatò che non era possibile isolare
l’obiettivo didattico da quello dell’inserimento
nella società.
10
Cominciarono così a fiorire a livello nazionale
esperienze d’integrazione scolastica, ossia
d’inserimento dei bambini handicappati nelle scuole
comuni.
Ciò che sembrò aver caratterizzato il periodo che
va dal 1970 al 1975 fu il desiderio di sperimentare
soluzioni nuove.
Con gli anni ’70, che furono gli anni della
grande “democratizzazione” della scuola e della
società, la figura sociale delle persone handicappate
perse quella connotazione di marginalità quasi totale
che si era concretizzata con l’esclusione e
l’isolamento del periodo precedente.
Si aprì, infatti, un forte dibattito entro il
quale maturò sempre di più la critica alle strutture
emarginanti ed al modo in cui venivano assistiti,
curati ed educati gli handicappati negli istituti.
L’insieme di queste condizioni in primo luogo
favorì l’avvio di un processo d’inserimento nel
sistema scolastico, prima in modo spontaneo, poi in
maniera sempre più diffusa e sistematica dalla legge
n°517 del 1977 con l’istituzione degli insegnanti di
sostegno, e, successivamente, con gli accordi di
programma tra scuole ed enti locali.
Si dimostrò un impegno forte e determinato
dell’intero sistema scolastico che altresì consentì
11
ad un numero limitato ma crescente di giovani
disabili di approdare agli studi universitari.
Si stimarono circa 4.000 (quattromila) iscritti
nell’ultimo anno accademico ai diversi atenei.
L’esperienza dell’integrazione, per quanto ancora
da migliorare sul piano dell’organizzazione e della
qualità del servizio, non solo determinò una forte
crescita sul piano sia culturale sia sociale delle
persone disabili, ma altresì contribuì
significativamente alla diffusione in Italia della
nuova cultura dell’integrazione.
Durante gli anni ’80 si determinò una consistente
evoluzione rispetto al tema dell’handicap: fu
superato l’approccio dell’uguaglianza, per cui il
bambino handicappato doveva essere il più possibile
come gli altri, per assumere l’approccio della
diversità come risorsa individuale; ciascun alunno è
diverso da tutti gli altri per elementi di storia e
di identità, per stili di apprendimento e per
capacità comunicative e cognitive.
E’ per questa sua specificità che egli vuole
essere riconosciuto.
12
Il CONCETTO DI INTEGRAZIONE
Il termine integrazione sostituì quello
d’inserimento nell’ambito scolastico, sociale e
legislativo, segnando il passaggio dalla realtà del
bambino disabile inserito nella scuola, ma
sostanzialmente isolato ed evitato, alla fase in cui
ci s’impegnò attivamente perché egli fosse pienamente
integrato nel gruppo dei suoi coetanei, della scuola,
del territorio.
Naturalmente la realizzazione di questi intenti
non è stata e non è di facile attuazione: essi non
solo pongono problemi di gestione organizzativa alla
scuola, ma, più importante, esigono l’attivazione di
processi di cambiamento e di adattamento profondi, il
riconoscimento e l’assunzione di responsabilità sia
da parte della comunità scolastica che di tutte le
istituzioni e i soggetti che ruotano intorno al
“sistema handicap”.
In questo mio lavoro vorrei definire meglio il
problema dell’integrazione scolastica degli alunni
portatori di handicap, analizzando le finalità, i
problemi educativi ed organizzativi relativi cercando
di individuare alcuni aspetti normativi del problema.
13
In particolare farò riferimento al contesto
dell’
1
Università “La Sapienza” di Roma.
Si è partiti dal desiderio di definire l’handicap
ed analizzare le tantissime espressioni erroneamente
correlate a questo termine: questo per una maggiore
chiarezza con il fine ultimo di una diagnosi che mira
al ripristino delle abilità perdute o forse mai
raggiunte.
Si passerà poi ad analizzare le varie tipologie
di handicap e le loro ripercussioni sugli ambiti,
affettivo, familiare, motorio, psicologico ecc. ecc.
Farò poi un excursus storico di quelle che sono
le basi teoriche e concettuali dell’integrazione
scolastica e sociale: le tensioni sociali della
contestazione del sessantotto hanno fatto sì che si
verificassero delle spinte innovative che hanno avuto
come risultato la prima grande svolta con
l’inserimento nella scuola di tutti degli alunni in
situazione di handicap.
Contestualmente, analizzerò l’aspetto
legislativo, prestando attenzione a quelle leggi che
hanno introdotto elementi nuovi e significativi con
il risultato di una piena integrazione.
È negli ultimi trenta anni che la legislazione si
è occupata dei soggetti con bisogni educativi
1
Università “La Sapienza di Roma www.uniroma1.it
14
speciali, preoccupandosi di definire diritti e
doveri, affinché abbiano pari opportunità e quindi la
possibilità di partecipare come tutti alla vita
sociale.
Nella parte finale del mio lavoro tratterò del
contesto universitario “La Sapienza” di Roma.
Gli ultimi capitoli si propongono di riflettere sulle
risorse, analizzare le iniziative ed i progetti
dell’Ateneo romano in favore di studenti disabili,
tenendo sempre presente che l’obiettivo principale di
qualsiasi azione da intraprendere è il raggiungimento
di un’integrazione completa ed effettiva nella vita
universitaria.
Le iniziative di cui tratterò riguardano lo
Sportello Disabili, il Cattid (con la sua
nastroteca),il Centro Stampa, e l'Adisu.
Nell’ultima parte riporterò le interviste fatte
ai responsabili di ciascun centro al fine di meglio
comprendere le iniziative prese ed i progetti futuri
a favore degli studenti disabili.
15
CAPITOLO I
CONSIDERAZIONI GENERALI
1.1 HANDICAP: IL PROBLEMA DELLA DEFINIZIONE
Nel corso del tempo, al termine handicap sono
state attribuite espressioni diverse, ma tutte
congruenti e tendenti ad identificare con
immediatezza una complessa problematica dai risvolti
psicofisici e sociali.
2
Il testo della legge quadro per la prevenzione
delle forme di handicap e la tutela dei diritti
civili di coloro che ne sono portatori definisce:
“persona handicappata colui che presenta una
minorazione psichica, fisica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà
di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di
svantaggio sociale o di emarginazione”.
I termini handicap, handicappato, portatore di
handicap sono diventati, ormai da molti anni, parole
di uso comune non solamente nei diversi ambiti
specialistici di studio e di intervento, ma anche nel
linguaggio quotidiano dei non addetti ai lavori.
2
Legge n° 104/1992
16
La condizione di handicap si realizza nel momento
in cui avviene l’impatto fra un deficit ed un
determinato ambiente.
Le persone con un considerevole ritardo mentale
sono quelle che, a livello di integrazione hanno
maggiori problemi.
3
E’ doveroso cercare di rendere quanto più
comprensibili i concetti sottostanti a tale
terminologia cominciando dalle problematiche
riguardanti i possibili significati di handicap e
mettendo a confronto alcune definizioni, che spesso
sono talmente indefinite ed estensive che dilatano il
concetto di handicap fino a circoscrivere una
percentuale molto elevata di soggetti.
Adottare un’accezione più restrittiva del
concetto di handicap, dovrebbe evitare un uso
strumentale di tale concetto (per esempio di ottenere
pensioni di invalidità o posti di lavoro per gli
insegnanti di sostegno) e restringere l’eventualità
di classificare come handicappati tutti i soggetti
che presentino una qualche difficoltà sul piano di
apprendimento, del comportamento o della relazione.
4
3
Vianello R.- Bolzonella G. “Il bambino portatore di handicap e la sua integrazione scolastica” Juvenilia,
Bergamo, 1988.
4
Zanobini M-Usai M.C.“Psicologia dell’handicap e della riabilitazione” Franco Angeli, Milano, 1995.
17
1.2 DEFINIZIONI DELL’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA
SANITA’
Per meglio chiarire che cosa s’intenda per
handicap ci sembra utile prendere come punto di
partenza la distinzione dell’O.M.S. (Organizzazione
Mondiale della Sanità 1981) fra i tre concetti di
impairment (menomazione o danno), handicap e
disability (disabilità) che vengono rispettivamente
così definiti
5
:
1) Impairment o menomazione è qualsiasi perdita o
anomalia a carico di strutture o funzioni
psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Essa può
avere un carattere permanente o transitorio;
2)La disabilità o disability è interpretata come
riduzione parziale o totale della capacità di
svolgere un’attività nei tempi e nei modi considerati
come normali. Essa può essere transitoria o
permanente, reversibile o irreversibile, progressiva
o regressiva; può inoltre essere una conseguenza
diretta di una menomazione o una reazione psicologica
ad una menomazione fisica, sensoriale o di altro
tipo.
E’ importante precisare, accanto alla presenza o
meno di disabilità, il livello di gravità per
5
O.M.S. “Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali”
Edizione Italiana a cura del Cles, 1981.
18
determinare, da un lato, i supporti o i sussidi che
potrebbero ridimensionarne gli effetti invalidanti e
dall’altro, quelle risorse e abilità possedute dalla
persona che potrebbero essere efficacemente impiegate
in sede di trattamento e di integrazione.
Se all’accertamento delle menomazioni è richiesto
soprattutto di mettere in chiaro la natura degli
svantaggi, dall’accertamento delle disabilità ci si
aspettava la precisazione di ipotesi terapeutiche,
curative e riabilitative: un ausilio, quindi nella
programmazione dei supporti indispensabili
all’integrazione della persona.
E’ indispensabile soffermarsi ad esaminare con
attenzione il concetto stesso di disabilità,
opponendolo a quello di abilità o inabilità.
6
L’abilità di qualsiasi soggetto animato risulta
data dalla capacità di realizzare un’azione, di
compiere un lavoro, di portare a termine un programma
o un progetto predeterminato.
L’abilità dipende dal possesso di una o più
capacità e, fatta eccezione per alcune azioni di
estrema semplicità, di solito sono più funzioni
integrate a determinare l’abilità complessiva o
specifica individuale. Saremmo in presenza di abilità
e di persone abili anche quando esse, a fronte di
6
Pigliacampo R.“Dizionario della disabilità, dell’handicap e della riabilitazione” Armando, Roma,2003.
19
menomazioni che causerebbero la riduzione
dell’efficienza di organi, sistemi o apparati,
riescano a manifestare comportamenti caratterizzati
da livelli soddisfacenti di efficienza operativa.
Ne deriva che non necessariamente le menomazioni
comportano disabilità o inabilità, così come si
verifica, quando, ricorrendo a protesi, si eliminano
o si riducono drasticamente le capacità invalidanti
di alcune menomazioni.
L’impossibilità o l’incapacità di attivare
comportamenti in grado di consentire la realizzazione
dei suddetti programmi determina invece inabilità
rispetto all’azione considerata ed in riferimento
alle capacità ritenute normali in un campione di
popolazione omogenea.
L’inabilità consiste dunque nell’assoluta
incapacità a svolgere un’azione, sia nel caso che
quest’incapacità non fosse mai stata posseduta, sia
nel caso in cui fosse andata perduta.
7
La disabilità, dunque, per essere ben compresa e
precisata richiede operazioni di stima in grado di
evidenziare la quantità di discrepanza dalla
prestazione abile.
7
Ianes D. “La valutazione iniziale delle abilità nell’handicappato” Erikson, Trento, 1984.