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scelta pubblica e scelta privata? Si tratta di domande a cui il liberalismo non riesce a
rispondere in maniera soddisfacente, e che rischiano di minare le sue stesse fondamenta.
L’originalità di Shklar sta nel tentativo di affrontare questi problemi adottando un
approccio negativo, opposto a quello “normale” dei liberali: non cerca, infatti, di
costruire una teoria, ma preferisce osservare i problemi che la vita associata comporta
attraverso una prospettiva anti-teorica e dunque anti-utopica (dystopic), partendo da ciò
che deve essere evitato anziché da ciò che bisogna realizzare, dall’ingiustizia anziché
dalla giustizia, dal vizio anziché dalla virtù.
Ciononostante, questa prospettiva si nota pienamente solo nei lavori più maturi di
Shklar. Nel primo capitolo, infatti, analizzando After Utopia: the decline of political
faith, suo primo libro, nel quale i teorici del liberalismo vengono invitati a recuperare lo
“spirito dell’ottimismo” tipico dell’Illuminismo, mostrerò come Shklar creda che solo la
riconquista di un minimum di fede utopica potrebbe permettere alla filosofia politica di
riconquistare il vigore perduto a causa dell’esperienza del Novecento. Successivamente,
illustrerò come, nei lavori successivi, Shklar abbandoni questa convinzione, passando a
un approccio più maturo e più realistico, arrivando quindi alla formulazione del
“liberalismo della paura”.
Nel secondo capitolo affronterò l’analisi della “non-teoria dell’ingiustizia”,
ricostruendo il modo in cui Shklar, nello studio dei problemi della giustizia, cerchi di
adottare una prospettiva opposta rispetto a quella classica, quella del “modello
normale”. Piuttosto che occuparsi dei problemi della giustizia, Shklar preferisce infatti
cercare di comprendere prima di tutto cosa sia l’ingiustizia, affermando la necessità di
porre un limite che separi “sfortuna” e “ingiustizia”, ovvero ciò che dipende dalla sorte,
ed è quindi incontrollabile, da ciò che è causato dall’indifferenza o dalla consapevole
volontà di commettere ingiustizia da parte degli attori pubblici. Questo è per Shklar
l’unico modo per avere una visione reale, concreta della società, e di abbandonare il
classico pregiudizio dei liberali, quella sorta di convinzione utopica che li porta a
credere che la società sia intrinsecamente buona, e che possa regnarvi la giustizia. Per
far questo analizzerò in particolar modo il caso dell’uragano Katrina.
Infine, nel terzo capitolo, ricostruirò, avvalendomi soprattutto di esempi tratti dalla
letteratura sia classica sia contemporanea, la riflessione che Shklar conduce sui “vizi
comuni”, ovvero su quei vizi civici che portano alla perpetuazione dell’ingiustizia
3
pubblica. Ancora una volta, Shlar rovescia la prospettiva, sostituendo l’analisi dei vizi a
quella classica delle virtù, e affermando che ciò che pubblicamente è rilevante non è
essere buoni individui, ma buoni cittadini, e che dunque il liberalismo non può far sua
una morale particolare, ovvero una gerarchia delle virtù, ma deve avere un ethos
pubblico che sia semplicemente una gerarchia dei vizi da evitare.
Concluderò, dunque, il lavoro verificando in che modo il “liberalismo della paura”
affronti il problema del pluralismo dei valori e del disaccordo morale e se questo
approccio possa risolvere le classiche difficoltà che il liberalismo si trova ad affrontare.
Di questo lavoro, infatti, Judith N. Shklar sarà protagonista, dal momento che si tenterà
quanto più possibile di analizzare la sua opera, ma sarà anche pretesto, giacché
attraverso questa analisi si tenterà di rispondere ai problemi più difficili che la teoria
liberale pone.
4
I. DOPO L’UTOPIA: L’IMPASSE DELLA FILOSOFIA POLITICA E IL
LIBERALISMO DELLA PAURA
1. Judith N. Shklar: cenni bio-bibliografici
Judith N. Shklar è un’autrice poco conosciuta nel nostro Paese. Ritengo, dunque,
necessario aprire questo lavoro con qualche cenno biografico, in modo da poter
collocare la sua figura all’interno del panorama della filosofia del Novecento. Peraltro,
credo che la sua biografia personale abbia particolarmente influito sul suo approccio
rispetto ai problemi classici della politica, e sarebbe dunque un errore non mettere in
evidenza questo aspetto.
Judith Nisse Shklar nasce a Riga, in Lettonia, il 24 settembre 1928 da genitori ebrei
tedeschi. Durante la Seconda Guerra Mondiale è costretta a scappare con la famiglia
prima in Svezia e poi in Giappone, arrivando infine in Canada poco prima dell’attacco
alla base americana di Pearl Harbor.
Qualche anno dopo si laurea in Filosofia presso la McGill University di Montreal,
conseguendo un Bachelor of Arts (B.A. degree) e un Master of Arts (M.A. degree)
rispettivamente nel 1949 e nel 1950. Nel 1955 diventa Doctor of Philosophy (Ph.D.)
presso l’Harvard University, dove insegnerà per quasi cinquant’anni come John Cowles
Professor of Government, diventando la prima donna membro dell’Harvard
Government Department.
E’ stata inoltre Presidente dell’American Society of Political and Legal Philosophy e
dell’American Political Science Association, e membro della John D. and Catherine T.
MacArthur Foundation.
Shklar ha ottenuto borse di studio dall’American Association of University Women,
dalla John Simon Guggenheim Memorial Foundation, dall’American Academy of Arts
and Sciences e dall’All Souls College of Oxford. Nel 1986 è stata Carlyle Lecturer
presso l’Oxford University, e nel 1988 Storrs Lecturer presso la Yale University. È
inoltre stata Pitt Professor of American History and Istitutions presso la Cambridge
University.
5
I suoi articoli sono stati pubblicati in riviste come Daedalus, The American Political
Science Review, The Political Science Quarterly, The Journal of the History of Ideas,
Political Theory, Social Research, The Yale Law Journal.
Ha pubblicato numerosi libri, tra cui After Utopia: the decline of political faith,
Legalism: law, morals and others political trials, Men and Citizens: a study of
Rousseau’s social theory, Freedom and Independence: a study of the Political ideas of
Hegel’s Phenomenology of Mind, Political theory and ideology, American citizenship:
the quest of inclusion, Reedeming American political thought, Political thought and
political thinkers, The Faces of Injustice, Ordinary Vices, Montesquieu. Purtroppo, solo
alcuni di questi testi sono stati tradotti (in italiano è possibile leggere solo Montesquieu,
Ordinary Vices e The Faces of Injustice), e questo contribuisce senz’altro a rendere
difficile la conoscenza delle sue idee al di fuori degli Stati Uniti.
Judith N. Shklar è morta il 17 settembre del 1992.
2. In principio fu l’Illuminismo
“In principio fu l’Illuminismo. Ogni studio del pensiero sociale contemporaneo
dovrebbe cominciare con queste parole.
2
”
Judith N. Shklar apre così il suo primo libro, After Utopia: the decline of political
faith. È il 1959, il mondo ha appena vissuto l’esperienza di due Guerre Mondiali, ha
testato il potenziale di distruzione della bomba atomica e si trova adesso in piena Guerra
Fredda. Lo “spirito dell’ottimismo” (spirit of optimism), quello che la parola
Illuminismo sembra portare con sé, sembra ormai morto. Nessuna filosofia politica pare
possibile, e ogni tentativo di migliorare la realtà è destinato al fallimento. Il pensiero
comune è che l’unica cosa da fare sia evitare che ciò che è successo si ripeta.
A questo diffuso disincanto, Shklar decide di opporsi con questo libro, che
rappresenta un invito rivolto agli studiosi della politica affinché abbiano il coraggio di
teorizzare una società i cui membri non siano sopraffatti dalla paura, ma al contrario
possano tornare ad aver fiducia nel futuro.
2
Shklar J. N., After Utopia: the decline of political faith, Princeton University Press, Princeton 1957, p. 3.
6
Shklar decide, quindi, di ripartire dall’Illuminismo, tentando di interpretare la storia
occidentale degli ultimi secoli attraverso il rapporto tra questo e due altri grandi
movimenti: Romanticismo e Cristianesimo. Essi non sono qui presi in esame soltanto
come fenomeni culturali o religiosi, ma soprattutto come categorie astoriche, come tratti
intrinseci della personalità di ciascun individuo. Questo porta ovviamente Shklar a delle
semplificazioni inopportune, a delle forzature e talvolta a delle imprecisioni.
Emblematico, in questo senso, il fatto che non venga offerta nel testo alcuna
periodizzazione precisa.
Eppure, sebbene di primo acchito questa interpretazione possa sembrare una
banalizzazione di una storia politica, religiosa e culturale molto complessa, essa è in
realtà un originalissimo strumento di esegesi del contemporaneo. Parlare
dell’Illuminismo serve, infatti, a interpretare il mondo odierno e le sue contraddizioni.
Per questo motivo, After Utopia può senz’altro essere considerato un libro per certi
versi sorprendente e per altri abbastanza deludente. La delusione è giustificabile, in
parte, dalla giovane età dell’autrice (che aveva cominciato a scriverlo nel 1950, cioè a
soli ventidue anni), che in queste pagine si lascia guidare, probabilmente, dall’irruenza
più che dal rigore argomentativo.
Questa caratteristica, dopo tutto, rimane anche nei lavori seguenti, ed è forse il tratto
distintivo di Shklar. Risulta pressoché impossibile, infatti, individuare nei suoi scritti
una definizione chiara dei concetti presi in esame o una mera dimostrazione della sua
tesi. Il fervore che le era proprio, e che si ritrova anche nelle testimonianze degli
studenti e dei colleghi
3
, si riflette di certo anche nei suoi testi, nei quali si trovano
riferimenti più o meno espliciti a qualsiasi aspetto della storia del pensiero e più in
generale della cultura occidentale. Questo fa di Shklar un’autrice non facile da
interpretare, ma al contempo la rende una delle più affascinanti studiose di politica del
Novecento.
D’altro canto, le idee espresse in questo libro sembrano quasi opposte a quelle che si
trovano nelle opere successive. Questo ha portato, peraltro, a vedere in After Utopia un
atto d’accusa contro il liberalismo, ovvero la critica a una sorta di “utopismo liberale”.
In realtà, la parola “utopia”, come ebbe modo di dire la stessa Shklar, fu niente più che
3
Vedi, per esempio, Rudenstine N. L., “Her own poetics”, in Id., The worlds of Harvard, Harvard University Press,
Cambridge 2002, pp. 273-275.
7
una trovata editoriale, che sortì l’effetto sperato, cioè un grande successo di vendite
4
.
Ciò rende molto difficile comprendere che cosa Shklar intenda effettivamente con il
termine “utopia”.
Ad ogni modo, questa confusione ha contribuito a vedere nella sua posizione
l’espressione di una sorta di “liberalismo anti-utopico” (dys-topic liberalism
5
). Una
definizione che, sebbene non sia la più adatta a definirla, non può nemmeno
considerarsi, come si vedrà soprattutto nei capitoli successivi, del tutto inadeguata.
Nonostante i limiti presenti in After Utopia, che Shklar stessa mise in evidenza
qualche anno più tardi
6
, ritengo quindi che una riflessione sulla sua opera non possa
partire che da questo libro.
Come si diceva, Shklar credeva che allo scoramento e all’insicurezza provocati dai
due conflitti mondiali si dovesse rispondere con un ritorno all’Illuminismo
7
, lo starting
point storico e intellettuale delle teorie sociali contemporanee.
L’Illuminismo, per Shklar, era prima di tutto una filosofia dell’ottimismo, ovvero la
credenza che le condizioni morali e sociali andassero sempre verso un miglioramento. Il
progresso non era solo una speranza, ma un dato di fatto
8
. I momenti più scuri della
storia, in quest’ottica, non erano che passi verso un tempo migliore. Gli illuministi,
come sostiene Bobbio, “portavano consapevolmente a compimento l’idea del progresso,
abbandonando la rappresentazione della storia come di una continua e graduale
decadenza, per considerarla invece un progressivo e indefinibile miglioramento
istituzionale, economico, morale, civile.”
9
Storia e società erano viste come un tutto, e lo stesso valeva per la ragione. Essa,
infatti, era uguale in tutti gli esseri umani, a prescindere dalla cultura, dal paese e dalla
religione di appartenenza. La ragione era universale, e i suoi dettami universalmente
validi.
4
Shklar J. N., “A life of learning. Charles Homer Haskins Lecture for 1989”, in Greenberg D. Katz S. N. (a cura di),
The life of learning, Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 87-104.
5
Benhabib S., “Judith Shklar’s dystopic liberalism”, in Yack. B. (a cura di), Liberalism without illusions. Essays on
Liberal Theory and the Political Vision of Judith N. Shklar , Chicago University Press, Chicago 1996, pp. 55-63.
6
Shklar J. N., “A life of learning”, cit., p. 102.
7
Quando parla di Illuminismo, Shklar si riferisce principalmente all’Illuminismo francese, nonostante faccia talvolta
riferimento anche a quello tedesco.
8
A differenza dell’ideale eudaimonistico, che non era proprio di tutti i suoi esponenti, l’idea di un progresso nella
storia umana fu forse uno dei pochi tratti imprescindibili dell’Illuminismo. Un esempio emblematico è offerto da
Kant che, sebbene non fosse eudaimonista, credeva in un progresso della storia, come emerge chiaramente dal
pamphlet “Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” [1784], in Bobbio N., Firpo L., Mathieu V.,
Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1998, pp. 123-139.
9
Bobbio N., “Illuminismo”, Bobbio N., Matteucci N., Pasquino G. (a cura di), Dizionario di Politica, Utet, Torino
2004, pp. 446-451, p. 448.