7
impedirà al film di diventare una delle più grandi opere
della storia del grande schermo.
Questo capolavoro potrebbe essere assunto come
manifesto delle relazioni che uniscono il cinema al
giornalismo. In esso ritroviamo quello che è l’aspetto più
nobile dei due media. Ossia il coraggio di opporsi con
forza all’esercizio di un potere ingiusto. Perché fare
giornalismo significa consumarsi le scarpe, bussare alle
porte, fare telefonate, andare da una fonte all’altra, per
passare a quella successiva e ad un’altra ancora, cercando
di ottenere la migliore versione possibile della verità,
anche se scomoda per qualche potente.
Per quanto riguarda il cinema, quando esso si spoglia
della sua naturale funzione di intrattenimento per lasciare
andare la cinepresa lì dove non passano le “autostrade
dell’informazione”, per mostrarci realtà difficili da
accettare, si trasforma in un autentico oppositore di
quelle ingiustizie troppo spesso dimenticate, anche dal
giornalismo.
Ma quando inizia il legame fra cinema e giornalismo?
Una relazione si può individuare prima che il più giovane
dei due, il cinema, nascesse.
Le loro anime si incontrano per la prima volta agli inizi
della storia dell’uomo. Gli uomini delle società più
antiche e primitive, pur dovendo affrontare numerose
difficoltà, trovavano comunque il tempo per
rappresentare la loro vita, le loro gioie e le loro angosce,
in un racconto, un canto, una danza. Un grande biologo
americano, Stephen Jay Gould, ha sostenuto con
convinzione che il bisogno di raccontare fa parte della
natura stessa dell' uomo: “siamo creature che raccontano
storie; la nostra specie avrebbero dovuto chiamarla Homo
Narrator (o forse Homo Mendax per riconoscere l'aspetto
8
fuorviante che c'è nella narrazione di storie) anzichè con
il termine spesso non appropriato di Homo Sapiens”.
La modalità narrativa insomma ci riesce naturale,
come uno stile per organizzare pensieri e idee. Non molto
diverso il parere di un altro studioso americano molto
noto, il pedagogista Jerome Bruner, il quale ha sostenuto
che raccontare storie su noi stessi e su gli altri è “la
maniera più precoce e naturale con cui noi uomini
organizziamo la nostra esperienza e la nostra cono-
scenza”; perchè “gli esseri umani danno un significato al
mondo raccontando storie su di esso”.
Nella società contemporanea cinema e giornalismo
sono due degli strumenti più importanti attraverso cui si
realizza questo antico bisogno di narrazione. Entrambi
partecipano al processo di costruzione e implementazione
dell’immaginario. Attraverso i testi giornalistici e cine-
matografici (facendo riferimento ad un’accezione allar-
gata di testo), si autorganizza e si autorappresenta l'im-
maginario antropologico e culturale della società, si
creano modelli e immagini del mondo che, tramite le
retoriche dell'argomentazione e della persuasione, ven-
gono diffuse nei vari strati che compongono gli insiemi
sociali. Quello abitato dall’immaginario è uno spazio vit-
ale ed essenziale, insomma.
Lo psicoanalista francese Jacques Lacan include
l’immaginario fra i tre termini principali della sua teoria,
accanto al simbolico e al reale. L'immaginario di Lacan
ha una base empirica nella prima infanzia, in quella che
egli chiama la fase dello specchio: il bambino tra i 6 e i
18 mesi sa riconoscere la sua immagine in uno specchio,
oggetto esterno. L'io si forma dentro lo spazio dell’im-
maginario: per divenire soggetto esso deve far proprio un
principio di alterità come conseguenza del suo desiderio
9
di essere un soggetto desiderante; il soggetto diviene
oggetto; l’identità umana è destinata a essere sempre
frammentaria e a nutrirsi delle proiezioni dell’immagi-
nario.
1
A questo punto appare chiara l'importanza che
cinema e giornalismo assumono, soprattutto nella misura
in cui intrattengono uno stretto rapporto con l'immagi-
nario. Raccontando storie cinema e giornalismo hanno
un'importanza primaria per la stessa costruzione dell’in-
dividualità. Inoltre, come afferma Remo Ceserani, noto
studioso di critica e teoria letteraria: “uno sviluppo
ampio, creativo e libero dell' immaginario è una delle
condizioni essenziali perché le componenti più vive e
creative della società possano di volta in volta prendere
una distanza ironica e critica da conformismi, banalità di
comportamenti, idee ricevute e strutture di potere...E'
proprio dall’esistenza di una capacità di intervento critico
o di proiezione utopica nella mente umana e nel suo
patrimonio culturale e testuale che molti di noi traggono
il coraggio sufficiente per analizzare e conoscere gli
orrori e le storture, accanto ai trionfi, della realtà storico-
sociale in cui siamo stati chiamati a vivere”.
In queste parole troviamo quello che è l’orizzonte
comune del cinema e del giornalismo: l’idea che va sotto
il nome di democrazia.
Immaginario, narrazione e democrazia sono le tre com-
ponenti attraverso cui si articola il loro legame. Il primo è
1
Secondo Eric Erikson, il concetto d’identità è un concetto
sfuggente e difficile da definire. Gli elementi fondanti sono: 1) Senso
di sé ed appartenenza ad un gruppo; 2) Consapevolezza della propria
alterità; 3) Come gli altri ci percepiscono; 4) Ciò che vorremmo
essere; 5) Il risultato della negoziazione, processo che passa
attraverso l’individuo, il gruppo, la società nazionale, fino ad arrivare
al sistema valoriale; 6) L’identità culturale. Anche la definzione
dell’attività giornalistica presuppone tale concetto.
10
l’ambiente in cui si muovono, la democrazia è il nobile
fine da raggiungere, la vocazione narrativa è la straor-
dinaria arma al loro servizio. Sostiene E. Dagrada in un
paragrafo di “Professione reporter” intitolato appunto la
“vocazione narrativa” che “con il Western, il cinema
americano si è visto affidare quasi istituzionalmente il
compito di raccontare un pezzo della propria storia
nazionale, e di trasformarla in leggenda”. Forse, con il
Newspaper movie,
2
è accaduto lo stesso per un altro,
glorioso pezzetto di storia statunitense: la nascita e il
consolidamento del cosiddetto Quarto potere.
Con una differenza sostanziale, però, e cioè che diver-
samente dall’epopea western, cinema e stampa esistono
contemporaneamente, e hanno radici comuni. Negli Stati
Uniti, infatti, il cinema nasce a New York verso la fine
del secolo scorso, contemporaneamente allo story jour-
nalism, il giornalismo più popolare, che prende subito in
prestito dal cinema la scoperta del potere che l’impatto
visivo abbinato al racconto ha sul potenziale lettore/spet-
tatore. Sarà proprio lo story journalism a fare ben presto
della cronaca una fucina di racconto, di stories da
impaginare tra mille illustrazioni, con una cura per
l’aspetto grafico e l’impatto con l’occhio dello spettatore
pari solo a quella di un allestimento spettacolare. Dal
canto suo, il cinema si affretta a raccogliere tra le sue fila
nugoli di giornalisti, facendone soggettisti, sceneggiatori
e molto spesso registi.
2
Tale concetto è forse un po’ troppo riduttivo, sembrerebbe più
appropriata infatti la definizione di media movie perché spesso i film
che hanno come oggetto il giornalismo e l’attività giornalistica,
trattano non solo di quotidiani, ma anche di televisione, radio,
editoria e fotogiornalismo.
11
Perché una cosa è certa: dal newspaper movie emerge
un modello globale di giornalismo che deve essere fatto
come si fanno i film. Un giornalismo più narrativo che
riflessivo, che informa senza mai rinunciare al mordente
del racconto, e che si preoccupa di coinvolgere il lettore
emotivamente, più e prima che di interessarlo intellet-
tualmente. Un giornalismo che privilegia l’impianto
narrativo alla complessità dei problemi. Un giornalismo,
infine, che avrebbe in comune col cinema (americano) la
vocazione al racconto, più che alla riflessione, e la
dicotomia, spesso vissuta in modo lacerante, tra realismo
e affabulazione. I giornalisti, infatti, tendono a narrare la
realtà. Raccontano storie, interpretano i comportamenti
umani cercando di cogliere il significato che i soggetti
danno alle proprie azioni in relazione alla situazione in
cui un dato comportamento va ad inserirsi. Il lettore di un
quotidiano, così come lo spettatore di un film, tende ad
organizzare le informazioni apprese non come un elenco
gerarchizzato di dati, ma sotto forma di storie. A questo
proposito, Schank sostiene che la conoscenza sia in larga
parte strutturata secondo proprio un modello narrativo.
3
La narrazione, dunque, rappresenta una forma organiz-
zativa che consente all’individuo di cogliere e memoriz-
zare i significati altamente complessi e spesso contraddit-
tori di cui è costituita la realtà.
4
Riferendosi sempre ad avvenimenti particolari e
concreti nei quali sono coinvolti dei soggetti umani, la
narrazione assume, perciò, dei connotati precisi. Perché
possa esserci una storia è necessario, dunque, che vi
3
Schank, R. C., Tell me a story, North Western University Press,
Evanston 1988.
4
Livolsi M., Manuale di Sociologia della comunicazione, Laterza,
Bari 2000.
12
siano dei protagonisti e che questi, qualunque sia la loro
natura, siano un punto di riferimento stabile. La
narrazione è, infatti, imprescindibile dalla presenza di
uno o più “attori”. In questo modo i media tendono a
rappresentare certi fenomeni particolarmente complessi e
astratti in maniera molto semplificata e sintetica. Come
indicato da Ostgaard, infatti, la semplificazione è uno dei
fattori intrinseci al processo di produzione delle notizie.
5
Spesso ciò avviene attraverso rappresentazioni sociali
che consentono agli individui di far corrispondere un
concetto ad un’immagine.
Il giornalista è dunque un narratore di storie, portatore
di una dimensione affabulatrice finalizzata alla descri-
zione della realtà, o meglio alla sua rappresentazione, ri-
sultato di un’interazione simbolica. “Costruisce” la
realtà, dunque, attraverso l’uso di simboli. La visione che
gli individui hanno del mondo è, per questo motivo,
mediata dai mezzi di informazione. Questi ultimi hanno il
dovere di far combaciare il più possibile l’ambiente sim-
bolico e l’ambiente reale.
La mediazione si trasforma quindi in media-azione,
con la narrazione che riveste l’ultimo stadio di questo
processo. La realtà viene prima osservata dal giornalista,
compresa e analizzata, interpretata. Solo dopo viene
raccontata al pubblico. Quest’ultimo viene investito
attraverso la storia narrata dell’interpretazione che il
giornalista dà della realtà. Deve potersi riconoscere,
immedesimarsi.
6
5
Ostgaard E., Factors influencing the flow of news, in “Journal of
peace research”, 1, 1965.
6
Giorgino F., Dietro le notizie. Il mondo raccontato in sessanta
righe e novanta secondi, Mursia, Milano, 2004.
13
Questa vocazione affabulatrice trasforma i fatti di cui
scrivere in eventi da raccontare, come se di fronte a un
pezzo da scrivere, nel newspaper movie, per il giornalista
si trattasse sempre di raccontare una storia. Possono
variare le regole del gioco, più o meno pulito, nobile o
ignobile. La realtà dei fatti può essere maggiormente
rispettata o deformata, riportando in auge la classica
tensione tragica tra vero e falso, dilemma che si rafforza
con la presenza dei media moderni dove spesso questa
distinzione si fa tenue, stemperandosi in verosimile e
falsificabile.
7
Ma lo stile espositivo adottato sarà sempre
uno stile narrativo, capace di sollecitare l’immaginazione
del lettore, di rendere la complessità di un’atmosfera ed
evocarne i particolari più significativi. Uno stile capace
di inchiodare il lettore alle pagine come il film inchioda
lo spettatore alla sedia. E i cui modi, saranno, anch’essi,
presi a prestito dal cinema: la cura per l’aspetto grafico
dell’impaginazione, per l’impatto visivo rispetto
all’occhio del lettore, e per tutto ciò che oltre a tras-
formare l’evento in racconto, comunica con il lettore
secondo i moduli estetici dello spettacolo. Per questo
giornalismo, l’avvento della televisione è stato lo sbocco
naturale del progressivo avvicinamento ai moduli espres-
sivi e comunicativi del cinema. Perché del cinema possie-
de da sempre, appunto, la vocazione narrativa e con la
televisione, ora, ne condivide il potenziale spettacolare”.
7
A tal proposito è necessario citare Karl Popper che ha sviluppato la
tesi filosofica del falsificazionismo. Secondo lo studioso austriaco,
una posizione può essere sostenuta razionalmente se, dopo essere
stata assoggettata alle critiche e ai controlli più severi, riesce a
sopravvivere. K. Popper, I due problemi fondamentali della
conoscenza, Il Saggiatore, Milano, 1998.
14
Comunque, tra i due medium ci sono anche profonde
differenze. Sulla base di ciò che sosteneva Walter
Benjamin, Jean-Luis Comolli in Print the Legend scrive:
“Logica dell’informazione e logica del cinema mi
sembrano divergere in modo assoluto.
Da un lato, la stampa, scritta o televisiva, procede,
come fa notare Benjamin, per addizione e giustapposi-
zione di dati i quali più che essere “rendiconti” fanno le
veci dei fatti o degli avvenimenti con i quali finiscono
per confondersi. Questa addizione è infinita, così come
questo assemblaggio non ha altra ragion d’essere che
quella – pratica – di una catalogazione (“straniero”,
“sociale”, “cultura”, “salute” ecc.).
Dall’altro, il cinema procede con un principio piuttosto
sottrattivo: dissimulare le informazioni, differirle, giocar-
ci, giocare con il desiderio di sapere, di comprendere e
anche di vedere dello spettatore, nascondere o sottrarre
tanto e prima di mostrare o di raccontare. Qui si dimostra
lo stile dell’autore (narratore, romanziere, drammaturgo,
regista): nell’arte di non dire tutto subito.
Non riesco a immaginare un giornalista disposto a
omettere – a meno che non sia impegnato in una accanita
azione di propaganda – questo o quell’aspetto dell’avve-
nimento oggetto della sua inchiesta. Riesco invece ad
immaginare benissimo un regista che rinuncia al vantag-
gio informativo che la preparazione del suo film può
avergli fatto acquisire per tornare al punto zero dell’in-
formazione: ignoranza di alcuni fatti che condividerà, in
buona sostanza, con il suo spettatore. Ne consegue che in
un film il giornalista corre il rischio di apparire come
l’uomo che sapeva troppo, come cioè il nemico dello
spettatore o, se si preferisce, l’amico dei potenti. Al
contrario, in altri, riconoscere e far recitare in quanto
15
indebolita la figura di colui che passa per essere colui che
dovrebbe sapere, non può far altro che avvicinarlo a
<<l’uomo ordinario del cinema>> (lo spettatore).
Quanto alla relazione costruita fra i diversi pezzi del
puzzle informativo, nel documentario come nella fiction
essa si chiama montaggio, cioè l’organizzazione di una
serie di relazioni a distanza tra elementi che si rielabo-
rano reciprocamente, messa in dubbio o scheggiamento,
risonanza, ricorrenza delle unità significative del film.
Non c’è punto di un film che possa essere “non costruito”
con gli altri. Ogni parte si richiama al tutto, le sequenze,
le stesse inquadrature si attraggono e si compongono, si
fanno e si disfano via via che il nastro del film si svolge e
ciascuna delle sue misure (una frazione di secondo, un
breve segmento di spazio-tempo) cancella la precedente.
Per una strana fatalità narrativa, l’operazione cinemato-
grafica non può evitare di produrre una composizione. Il
contrario del funzionamento obbligato degli organi d’in-
formazione, che pensano e producono l’evento giornali-
stico come scomposizione o come elemento distaccato.
Il percorso proposto nei prossimi capitoli racconta,
senza pretese di esaustività, quella parte della loro storia
iniziata quando per la prima volta il reporter è diventato
personaggio cinematografico, come poteva esserlo il
detective del cinema noir o il cowboy dei western.
La moltitudine di personaggi reali e fittizi e le vicende
da loro affrontate, viste attraverso la caleidoscopica mac-
china cinematografica, hanno regalato una miriade di
significati di cui si nutre ancora l’immaginario popolare
sul giornalismo. Nelle pagine che attendono ora il lettore
si è tentato proprio di sviscerare l’immagine che il
cinema ha prodotto dell’attività giornalistica.
16
Snocciolarne i sensi all’interno del loro contesto
storico, con l’aiuto di importanti studiosi che hanno
affrontato questa tematica e con qualche interpretazione
personale, frutto di una grande passione sia per il cinema
che per il giornalismo.
Innocenzo Omar De Somma
17
CAPITOLO PRIMO
LA RAPPRESENTAZIONE CINEMATOGRAFICA DEL
GIORNALISMO
1.1 Giornalismo made in Hollywood.
Se vuoi vender giornali domani prova con l’inganno. Se vuoi
vendere giornali per dieci anni a partire da domani, prova con
l’onestà.
Dal film “Teacher’s Pet”
Il cinema americano è sicuramente quello che ha
fornito la maggior quantità di film sul giornalismo. In
effetti, sin dagli inizi del secolo scorso, questo tema ha
sempre avuto un posto di riguardo nella storia del cinema
hollywoodiano, dando vita a un vero e proprio genere: il
“newspaper movie”. Da Orson Welles, passando per Elia
Kazan, Fritz Lang, Billy Wilder, Frank Capra, Alan J.
Pakula, Sidney Lumet, Sydney Pollack, Oliver Stone,
sino al cinema documentaristico di Michael Moore, tale è
la mole di registi, che hanno fatto la storia del cinema e
che si sono cimentati in questa materia.
8
Il loro tentativo
8
In verità non bisogna dimenticare neanche attori celebri come:
Charlie Chaplin, Kirk Douglas, Gregory Peck,Clark
18
di svelare le luci e le ombre di una professione
“terribilmente” affascinante ha contribuito in maniera
rilevante al formarsi di quella che è l’idea comune della
stampa. Il percorso proposto attraversa tutto il secolo
scorso, per giungere fino ad oggi, quando novità
interessanti si affacciano all’orizzonte.
1.1.1 Dagli anni ‘10 ai ’40: il reporter senza macchia
Sin dagli inizi il cinema ha proposto una visione
manichea del giornalismo. Il volto negativo del
giornalista fu sempre contrapposto a quello del collega
onesto, che però alla fine riesce a far trionfare giustizia e
verità. In “The big boss” (1913, Frederick Sullivan), un
giornalista riesce a inchiodare un politico corrotto, con
l’utilizzo di un dittafono.
9
“The last edition” (1925,
Emory Johnson), è invece la storia di un reporter che
riesce a dimostrare l’innocenza di un uomo e a svelare un
complotto politico. In “John D. and the reporter”
(1907, produz. Lubin) un quotidiano offre una grande
ricompensa a chiunque riesca a dimostrare la
colpevolezza di un presidente truffaldino di una società
Gable,Humphrey Bogart, Cary Grant, Jack Lammon, Paul Newman,
Robert Redford, Dustin Hoffman e Robert De Niro.
9
Il dittafono è un apparecchio provvisto d’altoparlante che si usa
negli uffici per comunicare tra una stanza e l’altra. Faccio notare che
in diversi film di inizio novecento,grazie all’utilizzo di quelle che
allora erano le nuove tecnologie (telegrafo, registratore vocale…), il
cattivo di turno veniva incastrato. Questa modalità di risoluzione
delle storie infonde una forte fiducia nel progresso e nei meccanismi
democratici.
19
petrolifera. E sono tanti altri i film con cui tra ladri
catturati, imbroglioni smascherati e donne salvate dalle
grinfie di uomini malvagi, la stampa assume il
leggendario ruolo di watchdog
10
tanto caro proprio al
giornalismo americano.
11
E’ interessante notare come in
questi anni le uniche due rappresentazioni
cinematografiche hollywoodiane, che cercarono di far
luce sul cinismo della professione, lo facciano usando
toni comici e satirici. La prima è “Charlot giornalista”
(1914, Henry Lehrman), con il grande Chaplin che ruba
una macchina fotografica ad un reporter che lo rincorre
per tutta la città (strepitoso modello del giornalista cinico
che non arretra davanti a nulla per ottenere uno scoop
con tanto di foto da prima pagina).
La seconda è “The front page” (1931) dall’omonima
commedia di Hecht e MacArtur.
12
Un testo che si pone in
forte contrapposizione con l’idea di coraggio e dedizione,
che la retorica hollywoodiana aveva costruito intorno al
10
In Dietro le notizie Francesco Giorgino scrive: “Nel giornalismo
americano degli ultimi decenni si è abbandonata la strada del
giornalismo watchdog, il giornalismo cane da guardia esercitato in
difesa dei cittadini? Si è lasciato cadere a vantaggio di altre formule
o di altre alchimie quel modello che intercettava prevalentemente il
bisogno di una sorveglianza rigorosa della società” (2004, 318).
11
Riporto altri due film per dare maggiore forza alla tesi qui
sostenuta. Il primo è The city that never sleeps (1924, James Cruze),
dove un reporter aiuta la madre di una ragazza, a salvare la figlia
dalle cattive intenzioni di un poco di buono. Il secondo è The old
reporter(1912, Prod.Edison), che racconta la storia di un giornalista
impegnato a scoprire i colpevoli di un traffico di opere d’arte.Cosa
che farà con successo
12
Questa commedia sarà riadattata in ben quattro film: The front
page (1931, Lewis Milestone), La signora del venerdì (1940,
Howard Hawks), Prima pagina (1976, Billy Wilder), Scoop-cambio
moglie (1988, Ted Kotcheff).
20
modello. Altrettanto interessante è notare che Billy
Wilder girò il suo “The demon reporter”(1929), e il
titolo di per sé la dice lunga, in Germania con una
produzione tedesca. Tra l’altro anche questo film è una
commedia farsesca.
13
Questo costante utilizzo della satira
non solo ci ricorda la funzione fondamentale di controllo
sociale e di protezione contro gli eccessi del potere di
questo genere letterario, ma ci dimostra anche quanto
fosse difficile violare la purezza del modello americano
di giornalismo, da sempre una gloria della democrazia
statunitense. Del resto il ventennio 1919-1939 è il
periodo in cui inizia a prendere forma e ad acquistare
consistenza quel <<secolo delle ideologie>> che farà
dello scontro tra sistemi liberaldemocratici e di mercato e
sistemi totalitari e collettivisti la cifra più vera del
novecento. Con l’affacciarsi sulla scena mondiale di
fascismo, nazismo e comunismo, è evidente quanto fosse
importante mantenere intatta l’immagine del giornalismo
al fine di veicolare messaggi democratici. Insomma in
questa prima fase l’uomo dal cappello malandato con
l’etichetta da giornalista sistemata sulla fascia, il vestito
sgualcito e la giacca con le toppe sui gomiti è la vera
voce del popolo. Un eroe senza macchia in difesa degli
oppressi.
14
13
Un reporter diabolico rapisce tredici ereditiere nella Berlino degli
anni venti. Primo film sceneggiato da B.Wilder.
14
Scrive Giorgino: ”Nel modello trustee (giornalista paladino della
verità), che a nostro parere è quello più vicino, se non alla realtà,
almeno alla mitologia del giornalismo degli USA[…]vengono
considerati i giornalisti come depositari della fiducia dei cittadini”.