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Il rito. Una lettura tra antropologia e psicologia del profondo.

Lo svolgimento di questo lavoro mette in luce il mutamento di prospettiva verificatosi nel corso del ‘900 rispetto al problema del rito e della sua interpretazione.
Dall’antropologia è nato l’interesse per la multiforme varietà di riti presenti sulla terra, sul loro significato reperito perlopiù nella funzione sociale o nel legame del primitivo con il sacro. Il lavoro di Van Gennep porta l’antropologia a sviluppare una riflessione più generale sul rito incentrata sulla forma e la struttura. Il limite a cui giunge Van Gennep è nella sua considerazione del rito come totalmente funzionale ad una società già costituita nelle sue strutture; la funzione creativa del rito è suggerita, ma non sviluppata.
Il lavoro di De Martino si inserisce nella tradizione antropologica in maniera feconda, ampliando gli orizzonti e dando un’interpretazione più complessa del fenomeno del rito, funzione essenziale dell’uomo, legata alla sua natura tecnica. Simile a quella freudiana è la distinzione tra ritualismo come malattia (per de Martino “modo dell’assenza” o “presenza malata”, ovvero conato di destorificazione irrelativa, tentativo di evasione totale dalla storicità dell’esistere) e rituale religioso.
In de Martino inizia l’avvicinamento alla psicologia del profondo di Freud per il quale il rito è funzionale al mantenimento della repressione pulsionale messa in atto dalla religione; in esso vengono ribadite le regole della società e allo stesso tempo viene dato sfogo a quelle pulsioni che, impedite dal tabù, restano inesprimibili ed escluse dal normale gioco sociale. Nel rito religioso si instaura dunque un dialogo protetto con le pulsioni più pericolose per la convivenza, come nel rito ossessivo si tengono a bada pulsioni sessuali o egoistiche represse. Freud nel delineare le differenze tra questi due tipologie di rituale fa cenno alla varietà dei riti ossessivi contro la stereotipia dei riti religiosi, al carattere privato dei primi contro il ruolo pubblico dei secondi, alla differenza tra una simbologia privata e nascosta, e una condivisa
Uno sviluppo decisivo viene da Jung e dal suo nuovo approccio ispirato dall’ermeneutica: la sua concezione del rituale è essenzialmente diversa da quella di Freud. Religione è per Jung l’atteggiamento proprio di una coscienza che subisce un cambiamento attraverso l’esperienza del numinoso; queste primitive esperienze sono codificate in dogmi e rinnovate nel rito. Il rituale può anche essere sintomo nevrotico che funge da protezione contro la potenza indifferenziata dell’Inconscio; ma esso ha anche e soprattutto la capacità di dare forma ordinata all’esperienza umana, che è e sarà sempre costituita da scambi tra la coscienza e il Sé da cui si è originata.Il punto fondamentale di distacco da Freud è nella persuasione di Jung che la razionalità non sia potente a livello psicologico quanto il simbolo religioso e il rito che lo esprime: la teoria è razionale e astratta, non tiene conto del valore emotivo dell’esperienza, mentre il dogma esprime per immagini un complesso irrazionale, e comunica perciò in modo più diretto con la nostra realtà psichica profonda. I simboli prodotti dall’Inconscio sono la sola cosa in grado di convincere lo spirito critico dell’uomo moderno.
Il proseguire della riflessione sul rito nell’etnopsichiatria si discosta di poco dalle premesse di Freud. Diversamente da Jung, Ròheim ritiene che il pensiero magico non sia ereditario, ma che lo sia la predisposizione ad elaborarlo a partire dal contatto con la madre, perciò fa parte del nostro sviluppo. La capacità di operare ritualmente è una modalità di approccio ai fenomeni esistente in ogni civiltà e rivela tendenze in un gruppo che non si sarebbe in grado di supporre con l’osservazione diretta.
Devereux guarda al rito come una modalità di organizzazione delle pulsioni distoniche a livello individuale e sociale; il rito può essere privato, o elaborato e riconosciuto dal gruppo sociale, ma resta comunque, sulla linea di Freud, una rielaborazione dei conflitti e delle difese poste per arginare tali conflitti.
Devereux, il più vicino nel tempo tra gli autori considerati, porta l’analisi del rito nell’orizzonte filosofico che aveva aperto la presente ricerca. La tecnica, nel sopprimere ogni scenario che non corrisponda alla sua pretesa di dominio, attuato attraverso il pensiero calcolante, porta l’uomo di oggi di fronte al paradosso: la più illimitata libertà corrisponde al più totale asservimento.
Il rito emerge in conclusione come un mezzo tecnico elaborato per far passare nel valore i fatti della natura, come può esserlo l’arte. In esso ogni uomo può rendersi consapevole del fatto che la natura è la sua radice e il suo limite, e allo stesso tempo sperimentare una modalità nuova di accostarsi al suo mistero: con rispetto e devozione, abbandonando lo sguardo tecnico che pro-voca e, così facendo, perde la meraviglia di fronte alle cose.

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INTRODUZIONE Del rito si dà una definizione perlopiù incentrata sul concetto di forma . L’etimologia stessa del termine ci conduce in questa direzione attraverso il latino ritu(m) e di qui alla radice indoeuropea *ar presente anche nel vedico ŗta, l’iranico arta , l’avestico aša. L’idea comune a questi termini è quella di un ordine “che regola sia l’ordinamento dell’universo, il movimento degli astri, la periodicità delle stagioni e degli anni, sia i rapporti degli uomini e degli dei e infine degli uomini tra di loro” 1 . Allo stesso modo si possono interpretare i termini ars (disposizione naturale, qualificazione, talento) e artus (articolazione) nei quali si legge il riferimento ad un ordine che impone “un adattamento stretto delle parti a un tutto” 2 . Il rito designa quindi una molteplice varietà di comportamenti collettivi e individuali, riferiti all’esperienza religiosa, sociale, politica, che presentano caratteristiche formali di ripetitività, regolarità e stilizzazione degli atti, dei suoni e delle parole. Per questo, al di là dei diversi significati che vi si possono attribuire a seconda dei contesti, il rito è qualcosa di trasversale e pervasivo, si mostra come dimensione irriducibile e problematica legata alla natura tecnica dell’uomo, “officina di equilibri in cerca di unità e pienezza” per dirla con le parole di Jacques Vidal 3 . Il rito riguarda in ogni cultura gli eventi nodali dell’esistenza e i comportamenti quotidiani, vive delle domande che l’uomo si fa sul radicalmente Altro e sull’esistenza di un ordine e di un ordinatore, in qualsiasi modo esso venga visualizzato. Le fonti storico-religiose attestano in tutte le civiltà l’importanza e la centralità del rito per la percezione di un equilibrio dell’universo e la stabilità delle strutture sociali. Il rito ha una natura ambivalente: da un lato riproduce e ripete, dall’altro rende possibile un’apertura ulteriore, crea un varco per la trascendenza. La tradizione antropologica, come studio della variabilità dell’uomo e della diversità delle sue creazioni culturali, ha affrontato il tema del rito attraverso molteplici approcci teorici e producendo una grande quantità di materiale etnografico, accumulando, però, soprattutto commentari, senza arrivare ad enunciare una vera questione intorno al rito. Il rito, come sequenza gestuale ad espressione pragmatica, è stato innanzitutto studiato in relazione al mito, rappresentazione che si affida invece alla narrazione verbale. A questo proposito sono venute delineandosi due prospettive: una dà la precedenza al rito e una la attribuisce invece al mito. Secondo Robertson Smith le religioni primitive nascono come sistemi di comportamenti pragmatici, sulla base dei quali si sono in seguito costruiti i racconti mitici. Durkheim, al contrario, definisce il rito come mito messo in 1 Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II. Pouvoir, droit, religion , Paris 1969, tr.it. a cura di M.Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II. Potere, diritto, religione , Torino 1976 2 Idem 3 Jacques Vidal,(a cura di), voce Rite , in Dictionnaire des Religiones , Paris 1985 2

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