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Il fallimento del carcere: ragioni e prospettive

Oggi, nel nostro ordinamento, il carcere risulta essere la risposta naturale e scontata al reato.
In questa tesi ho cercato di dar voce al contrasto perenne tra le finalità dichiarate e quelle realmente perseguite: è il nostro carcere capace di rieducare? È in grado di prevenire i crimini? È idoneo a garantire la sicurezza ai cittadini? A mio avviso tutti questi quesiti non possono che trovare risposta negativa. Per comprendere l’efficienza di uno strumento bisogna analizzarne i risultati. Il carcere si pone oggi come un’istituzione totale e totalizzante, quasi un microcosmo separato dal resto della società. Questa emarginazione fa sì che il reo venga percepito dal resto dei consociati come qualcuno che ha sbagliato e che deve pagare, “marcire in galera”, per utilizzare una delle tante espressioni della folla. Forse però quest’ostinazione è dovuta anche a una forte ignoranza, nel senso più elementare del termine: il carcere è un luogo che non si conosce. La società non sa, e forse non vuole sapere, come passano le giornate i detenuti, cosa fanno, chi vedono, che diritti hanno. Diritto, poi, è un termine che appare addirittura fuori luogo: ha sbagliato, è giusto che paghi per quello che ha fatto, che diritti dovrebbe avere? È opportuno, allora, domandarsi qual è l’effetto della pena sul condannato: se ci poniamo questa domanda, possiamo trovare molteplici problemi rispetto alla pena carceraria.
Il carcere è un luogo chiuso: all’interno, perché gli scambi sociali sono limitati, all’esterno perché i rapporti familiari sono controllati. Sono imposte una serie di restrizioni enfatizzate anche dalle strutture fisiche del carcere: porte chiuse, alte mura, filo spinato. Il detenuto non è libero di decidere quando mangiare o quando dormire, semplicemente il suo tempo viene organizzato e scandito da altri, quasi rendendolo un automa; in questo modo è l’istituzione che controlla la vita del detenuto in tutti i suoi aspetti.
Il carcere fa sì che l’essere umano si pieghi e si adatti a questa nuova realtà, identificandosi gradualmente con la nuova società di cui entra a far parte: questo fenomeno è stato descritto da un sociologo come “processo di prigionizzazione”, un lento e graduale procedimento che culmina nell’identificazione più o meno completa con la cultura carceraria. In questo modo, chiaramente, l’individuo diviene meno adatto alla vita esterna, realtà con la quale non si scontra, e si rende più problematico qualunque tentativo di risocializzazione o riabilitazione: il carcere, così, diviene l’ostacolo più grande al reinserimento sociale.

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6 Introduzione Questa tesi ha cercato di far emergere una realtà che spesso viene volutamente trascurata, quella carceraria. Le carceri sono una dolorosa parte della nostra società, di cui pochissimi conoscono l’essenza, alcuni cercano di scoprirla, ma molti la ignorano. La mia curiosità è cresciuta quando, in un’intervista al Senatore Luigi Manconi, ho letto il tasso di recidiva di chi aveva già scontato una pena detentiva: il 70%. Questo dato ha fatto sorgere in me delle domande spontanee, la prima delle quali è stata “perché, allora, il carcere”? Nella prima parte del lavoro, in particolare nel primo capitolo, si è proceduto ad analizzare il ruolo che la pena detentiva ha svolto nel corso della storia, partendo dalla constatazione che oggi essa costituisce la risposta che il nostro ordinamento dà alla maggior parte dei reati. In passato, invece, l’arsenale di pene era molto più variegato, dalle fustigazioni allo squartamento, e la punizione era inflitta proprio sul corpo del condannato, mentre la prigione aveva una funzione meramente secondaria, ponendosi come luogo di attesa della condanna. Ho illustrato, dunque, come la pena detentiva cominciò a farsi strada e ad affermarsi con tanta convinzione perché appariva come la risposta più calibrata e umana che l’ordinamento potesse dare rispetto alle pene corporali e agli atroci supplizi che avevano contraddistinto il periodo anteriore e, pertanto, anche più in linea con i principi di uno Stato di diritto che in quel momento si stavano affermando grazie alla diffusione del movimento filosofico e culturale illuminista del XVIII secolo. Ciò che ho sottolineato nel mio lavoro, attraverso l’opera Sorvegliare e punire di Michel Foucault, tuttavia, è che la prigione, nonostante sia nata da questa esigenza di trovare una pena più mite, per usare il termine di Beccaria, è stata in realtà criticata fin dalla sua nascita perché incapace di raggiungere gli obiettivi propostisi; perciò le proposte di riforma sono state contemporanee alla nascita di questo strumento punitivo, rivelando come, di fatto, il carcere non è un’istituzione che si è guastata nel tempo, ma, semplicemente, non ha mai funzionato. In primo luogo, al fine di dare un quadro generale concernente la necessità di

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Informazioni tesi

  Autore: Zobeideh Hadavi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Dario ippolito
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 159

FAQ

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Parole chiave

fallimento
rieducazione
misure alternative
recidiva
pena detentiva
sovraffollamento carcerario
giustificazioni pena
abolire il carcere
carcere norvegese
lavoro e carcere

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