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Introduzione
Questa tesi ha cercato di far emergere una realtà che spesso viene volutamente
trascurata, quella carceraria. Le carceri sono una dolorosa parte della nostra società, di
cui pochissimi conoscono l’essenza, alcuni cercano di scoprirla, ma molti la ignorano.
La mia curiosità è cresciuta quando, in un’intervista al Senatore Luigi Manconi, ho
letto il tasso di recidiva di chi aveva già scontato una pena detentiva: il 70%. Questo
dato ha fatto sorgere in me delle domande spontanee, la prima delle quali è stata
“perché, allora, il carcere”?
Nella prima parte del lavoro, in particolare nel primo capitolo, si è proceduto ad
analizzare il ruolo che la pena detentiva ha svolto nel corso della storia, partendo dalla
constatazione che oggi essa costituisce la risposta che il nostro ordinamento dà alla
maggior parte dei reati. In passato, invece, l’arsenale di pene era molto più variegato,
dalle fustigazioni allo squartamento, e la punizione era inflitta proprio sul corpo del
condannato, mentre la prigione aveva una funzione meramente secondaria, ponendosi
come luogo di attesa della condanna. Ho illustrato, dunque, come la pena detentiva
cominciò a farsi strada e ad affermarsi con tanta convinzione perché appariva come la
risposta più calibrata e umana che l’ordinamento potesse dare rispetto alle pene
corporali e agli atroci supplizi che avevano contraddistinto il periodo anteriore e,
pertanto, anche più in linea con i principi di uno Stato di diritto che in quel momento
si stavano affermando grazie alla diffusione del movimento filosofico e culturale
illuminista del XVIII secolo.
Ciò che ho sottolineato nel mio lavoro, attraverso l’opera Sorvegliare e punire di
Michel Foucault, tuttavia, è che la prigione, nonostante sia nata da questa esigenza di
trovare una pena più mite, per usare il termine di Beccaria, è stata in realtà criticata fin
dalla sua nascita perché incapace di raggiungere gli obiettivi propostisi; perciò le
proposte di riforma sono state contemporanee alla nascita di questo strumento
punitivo, rivelando come, di fatto, il carcere non è un’istituzione che si è guastata nel
tempo, ma, semplicemente, non ha mai funzionato.
In primo luogo, al fine di dare un quadro generale concernente la necessità di
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punire, ho dedicato uno spazio anche alle giustificazioni storico filosofiche della pena.
A tal fine ho spiegato come viene giustificata la pena sia dalla dottrina retributivistica
che da quella utilitaristica, mettendone in luce le relative critiche. La differenza è
eminentemente spiegata da un passo di Seneca che si trova nel De Ira, che fa parte di
un insieme di opere del filosofo, i Dialoghi. Egli spiega come le dottrine
retributivistiche giustificano la pena quia peccatum, cioè perché è stato commesso un
peccato, per cui guardano al passato; quelle utilitaristiche, invece, giustificano la pena
ne peccetur, cioè affinché non si commetta un peccato, per cui sono rivolte al futuro.
In secondo luogo, sono passata ad analizzare le giustificazioni della pena posta al
centro della mia tesi, quella carceraria, riportando il dibattito che si è svolto sull’art.
27 comma tre della Costituzione nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente: la
rieducazione del condannato è emerso come il nuovo fine che la pena detentiva deve
perseguire. Questa concezione è stata avallata da svariate pronunce della Corte
Costituzionale le quali, in un primo momento, si sono contraddistinte da una
concezione polifunzionale della pena, cioè hanno assegnato a quest’ultima diverse
funzioni tra le quali anche quella rieducativa, per arrivare invece, in un secondo
momento, ad affermare, con la storica sentenza 313 del 1990 la centralità della
funzione rieducativa, con tutte le critiche e gli scetticismi che, però, ne sono derivati.
Nel mio secondo capitolo ho analizzato gli aspetti critici della nostra realtà
carceraria, partendo dallo stridente divario esistente tra i princìpi che dovrebbero
connotare la pena detentiva, esaustivamente indicati dall’ordinamento penitenziario e
dalla Costituzione, e la realtà. La pena carceraria, infatti, si configura come privazione
di un quantum di libertà preventivamente, astrattamente e proporzionalmente
determinato
1
, ma essa, nei fatti, determina molto più della semplice privazione di un
diritto in quanto non incide solo sulla libertà personale ma determina una forte
compressione dei diritti individuali del soggetto ristretto: “non esiste esempio storico
di un carcere capace di limitare la sofferenza del condannato a quella sola che consegue
alla privazione della libertà personale”
2
.
Turati scriveva, nella rivista Il Ponte, che “le carceri italiane rappresentano
1
MELOSSI D., PAVARINI M., Carcere e fabbrica, alle origini del sistema penitenziario, Mulino,
Bologna, 1977, p.239
2
FERRARI L., No prison, ovvero il fallimento del carcere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p.27
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l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta”, tanto
da meritare l’appellativo di Cimitero dei vivi. Eppure il nuovo ordinamento
penitenziario, del 1975, ha attuato una vera e propria rivoluzione copernicana
dedicando ampio spazio ai diritti fondamentali e ponendo il detenuto al centro
dell’esecuzione penale: egli non è più soggetto passivo del trattamento ma titolare del
diritto a una pena conforme a umanità e nel rispetto della dignità personale, valori che
uno Stato di diritto si prefigge di tutelare, coerentemente a quanto richiesto
dall’articolo 27 della Costituzione.
Tuttavia, come ho riportato, sono state diverse le pronunce della Corte europea dei
diritti dell’Uomo che hanno condannato l’Italia per violazione dei diritti fondamentali,
parallelamente c’è stata un’evoluzione giurisprudenziale in tema di limiti nella
restrizione della libertà, affinché non si ledano i valori costituzionali. Questo anche
alla luce di due sentenze della Corte Costituzionale delle quali una afferma che “la
sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà
della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione”
3
e
l’altra sottolinea che il detenuto, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne
conserva sempre un “residuo” che è “tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo
ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”
4
.
Partendo, dunque, dall’assunto che lo stato detentivo deve limitarsi a una privazione
della libertà dell’individuo, ho riportato, in una prima parte del capitolo, le continue
violazioni che ci sono state a una serie di altri diritti che l’ordinamento, invece, ha il
dovere di tutelare anche al soggetto ristretto: il diritto al lavoro, il diritto alla sessualità,
il diritto alla salute. La mancanza di tutti questi elementi, che nell’insieme rendono la
pena più umana, compromette la possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’istituzione
carceraria, che è quella di rieducare il reo per poterlo, a fine pena, reinserire nella
società. Questa indagine è stata possibile soprattutto grazie ai rapporti pubblicati
dall’associazione Antigone, un’associazione nata alla fine degli anni Ottanta dalla
omonima rivista, che, incaricata di supervisionare l’esecuzione penale e le condizioni
detentive, raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria. Grazie a questi dati,
avallati anche da quelli messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, sono venuta
3
Sent. Corte Costituzionale n. 114/1979.
4
Sent. Corte Costituzionale n. 349/1993.
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in possesso di statistiche concernenti, ad esempio, il tasso di suicidi presenti nelle
nostre carceri, o i livelli di sovraffollamento che sono stati raggiunti nel 2010, quando
le carceri italiane ospitavano 67.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare
di 49.000 unità.
Nella seconda parte del medesimo capitolo, invece, ho esaminato il rapporto che
intercorre tra il carcere e la società esterna: il nostro carcere è separato, come diceva
un famoso magistrato, e “resterà separato fino a quando rimarrà com’è”. Attraverso il
saggio di un famoso sociologo canadese, Erving Goffman, il quale ha teorizzato il
concetto di istituzione totale, ho analizzato gli effetti distruttivi che il carcere produce
sulla personalità del detenuto, nonché le conseguenze negative e controproducenti che
derivano da una istituzione totalizzante che, anziché reinserire, tende a emarginare.
Mi sono soffermata anche sull’analisi di quelle politiche securitarie che, facendo
leva su una generale e diffusa insicurezza dei cittadini, hanno portato all’emanazione
di leggi carcerocentriche, quali la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi, diffusesi anche
grazie a un’ondata di populismo penale. Ho messo in luce gli effetti distorti che
producono politiche di questo genere, idonee a generare modelli di diritto penale
massimo e a sminuire le fondamenta di uno Stato di diritto. Nell’esaminare gli effetti
di questo tipo di politiche, ho analizzato l’attuale popolazione carceraria, composta per
un terzo da soggetti tossicodipendenti e per un altro terzo da extracomunitari, avendo
premura di puntualizzare come nei confronti di queste persone sarebbe più opportuno
perseguire delle politiche di inclusione sociale e non di emarginazione, per far sì che
l’istituzione carceraria non continui a perpetuare se stessa.
All’interno di questo capitolo, infine, ho anche analizzato un particolare carcere,
quello di Bollate, in cui i livelli di recidiva si sono abbassati fino al 12%. In netta
contrapposizione agli altri luoghi detentivi, chiusi, totalizzanti e desocializzanti, qui si
è applicata una politica di cella aperta, di responsabilizzazione e di graduale
reinserimento sociale, e ne è scaturito un modello esemplare, di cui ho descritto i
meccanismi.
Nel mio terzo e ultimo capitolo, dopo aver dato voce a un diffuso senso di
insoddisfazione nei confronti del carcere a causa della mancata capacità, per
quest’ultimo, di raggiungere gli obiettivi che si prefigge, di prevenzione e/o di
rieducazione, ho cercato, senza alcuna pretesa di esaustività, di dare un contributo nel
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superamento di questa pena. A tal fine, ho prima, in via preliminare, illustrato quali
sono gli strumenti di cui il nostro ordinamento dispone in alternativa al carcere, misure
alternative che andrebbero, però, in tutti i modi possibili incentivate e incrementate, in
modo da rendere realmente la pena detentiva l’extrema ratio, come richiesto dalla
nostra Costituzione. Secondariamente, poi, ho strutturato il percorso in due parti: in
una prima parte ho illustrato quelle che io ritengo possano essere delle soluzioni da
intraprendere nell’immediato. Principalmente si tratta di: ridurre la sfera di intervento
del diritto penale, assumendo come paradigma il diritto penale minimo di Ferrajoli e
mostrando i danni che il diritto penale massimo ha determinato nei classici principi
garantisti propri di uno Stato di diritto; procedere a una depenalizzazione quanto più
ampia possibile, anche alla luce dell’inflazione legislativa determinata da politiche
penali che non hanno mai trovato riscontro in un aumento dei crimini; limitare quanto
più possibile il contatto tra un soggetto e il carcere, soprattutto in caso di attesa del
giudizio, momento in cui dovrebbe prevalere il principio di presunzione di innocenza,
ponendo fine a quella politica nota come “porte girevoli”.
Per quanto concerne le soluzioni in prospettiva, ho fatto riferimento a un bizzarro
fenomeno sviluppatosi nei paesi anglosassoni: si tratta di una nuova modalità di
investimento, realizzata tramite strumenti finanziari, i Social Impact Bond, finalizzata
a programmi di riabilitazione sociale per ex detenuti, al fine di abbatterne la recidiva.
Nella seconda parte del capitolo, e per concludere, ho approfondito il sistema
penitenziario norvegese, contraddistinto da un’attenzione particolare dedicata ai diritti
dei detenuti. Si tratta di un modello di carcere totalmente innovativo, considerato come
uno dei più all’avanguardia del mondo, che si è rilevato un’efficace strumento nella
riduzione della recidiva ma, soprattutto, un modo più umano di concepire il carcere.