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Owen 1771 – 1858: teorico dei problemi sociali


La rivoluzione industriale pose una serie di problemi che furono il punto di riferimento del dibattito teorico-politico sui rapporti tra sistema produttivo e organizzazione politica, tra società e stato, alla luce del ruolo essenziale del lavoro. Si affermava che l’economia era la chiave di lettura dei fenomeni sociali e politici.
La ricchezza di cui disponeva l’Inghilterra era aumentata in gran misura.
Gli alti salari erano stati ridotti dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il sistema industriale induceva i proprietari delle fabbriche a ridurre i costi del lavoro, impiegando donne, ragazzi e bambini e imponendo loro duri orari di lavoro.
Si pose in Francia, Inghilterra, Belgio, Germania la questione sociale come problema delle misere condizioni di vita della classe lavoratrice e dei motivi per cui il sistema di produzione industriale generava tale miseria e non riusciva a rendere partecipe la massa dei lavoratori della nuova ricchezza prodotta.
Owen, Saint Simon e Proudhon furono i primi teorici dei problemi sociali scaturiti dal sistema di produzione industriale e dalla rivoluzione industriale. Espressero un comune orientamento culturale che assumeva una propria autonoma posizione nei confronti delle altre dottrine politiche e fu indicata con il termine socialismo. Si sosteneva che i mezzi di produzioni dovessero appartenere alle associazioni dei lavoratori.
Owen dice che la nuova organizzazione economica se ha dimostrato la capacità di produrre ricchezza ha anche determinato una serie di mali che sembrano superare di gran lunga i vantaggi che ha arrecato. I mali si riferiscono alla condizione di degradazione e miseria nella quale si trova la classe lavoratrice cha rappresenta la maggioranza della popolazione. La produzione è informata al principio della libera concorrenza che spinge le aziende, al fine di ridurre i costi, al ridurre e comprimere i salari.
Il principio della libera concorrenza sollecita una produzione incontrollata che non tiene conto delle capacità di assorbimento da parte dei mercati e la capacità di acquisto delle classi lavoratrici. Il risultato è la produzione di una quantità di beni che risulta di gran lunga superiore alle possibilità di acquisto della grandissima maggioranza dei consumatori con la conseguente saturazione dei mercati e sovrapproduzione. Molte fabbriche sono costrette a chiudere creando disoccupazione.
Il vero problema economico è di equilibrare la produzione con il consumo. Occorre assicurare alle classi lavoratrici un reddito che consenta loro di acquistare i beni prodotti.

La soluzione a questo problema è una nuova concezione della società in vista di una riforma dei rapporti sociali che consenta di sostituire al principio della libera concorrenza il principio della cooperazione in base al quale le energie intellettuali e lavorative degli uomini vengono coordinate a fini e risultati che si riferiscono a tutti e non ai singoli in lotta tra loro. Questo risultato può essere conseguito trasformando il carattere degli uomini formato dal principio della competizione, rendendolo conforme al principio della cooperazione.
Il primo mezzo è il sistema educativo: deve essere riformato secondo la pedagogia della cooperazione, che sottragga i bambini e i giovani a quegli ambienti che sollecitano l’egoismo. Si deve insegnare che la felicità del singolo non può essere scissa da quella della comunità.
La riforma del sistema educativo deve essere completata dalla riforma del sistema sociale in quanto sistema produttivo. Si deve seguire il metodo della gradualità: le riforme devono essere sperimentate in singole fabbriche secondo i criteri e il modello da lui proposto per dare dimostrazione dei risultati positivi che inducano le altre fabbriche ad adottarlo. È una riforma graduale che deve essere promossa dalle forze produttrici, capitalisti, imprenditori, proprietari terrieri, banche, lavoratori senza l’intervento dello stato.
La nuova società deve costituirsi a partire dalla fabbrica, deve essere considerata una vera comunità che serva a realizzare il bene comune e che faccia sì che l’uomo realizzi se stesso.

Ci vuole una redistribuzione delle forze di lavoro sul territorio mediante la costituzione di aziende. Ciascuna di esse dovrà avere una popolazione che oscilla tra le 1200 e le 2000 unità e che sarà ospitata in un villaggio costruito secondo una planimetria rettangolare nel cui centro c’è una grande piazza nella quale saranno costruiti tutti gli edifici e servizi comuni: scuole, cucine, chiese…
Le fabbriche saranno sistemate vicino al villaggio in modo che i suoi abitanti possano raggiungerle a piedi. Ci vuole una compenetrazione tra attività intellettuale e manuale.
Deve consentire a tutti di esprimere le proprie capacità e attitudini.
Le uniche distinzioni giuste e naturali sono quelle che si riferiscono all’età che legittimano i poteri di direzione dell’azienda-comunità e che consentono di rinnovare il comitato dirigente.
L’azienda-comunità è più valida dell’impresa capitalista, fondata sul principio della libera concorrenza.

Tratto da STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE di Filippo Amelotti
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