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CASO PIATTAFORME PETROLIFERE IRAN VS USA


nel contesto della guerra tra Iran e Iraq gli Usa presenti nel Golfo Persico proteggono navi Kuwaitiane dando loro la bandiera USA. Una di queste navi subisce un attacco e una nave da guerra USA viene danneggiata da una mina. Come reazione a questi episodi gli USA attaccano alcune piattaforme petrolifere dell'Iran 1987-88). L'Iran nel 1992 si rivolge alla CIJ per violazione da parte degli USA del Trattato di amicizia (commerciale) con l'Iran del 1955 nonché per violazione delle norme di diritto internazionale generale, chiedendo a seguito dell'accertamento una riparazione. La CIJ stabilisce la propria competenza poiché l'obbligo incombente sulle due parti di garantire libertà di commercio e navigazione copre tutte le attività rientranti nel concetto di attività commerciale e quindi anche la produzione di petrolio ha importanza. A questo punto gli USA decidono di pararsi il culo presenta nel 1997 una domanda riconvenzionale accusando a sua volta l'Iran di aver violato lo stesso Trattato di amicizia. Anche questa domanda viene dichiarata ammissibile dalla CIJ. La CIJ stabilisce che le norme del Trattato possono prevedere l'uso della forza solo in conformità col diritto internazionale generale e quindi in caso di legittima difesa (art 51 Carta) e rispondendo ai criteri di necessità e proporzionalità → l'articolo 2 (diritto consuetudinario cogente) della Carta vieta la minaccia e l'uso della forza. Le azioni contro le piattaforme petrolifere non possono essere qualificate come legittima difesa. Inoltre gli USA avevano attuato l'embargo prima di attaccare le basi petrolifere quindi gli attacchi non potevano influire su dei commerci che erano già stati interrotti precedentemente. La domanda iraniana viene respinta per questo motivo. Per quanto riguarda la domanda riconvenzionale degli USA essa può essere ammessa ma la CIJ dichiara che le navi danneggiate non erano impegnate in attività commerciali e quindi non rientrano nell'oggetto del trattato. Per quanto riguarda il fatto che il Golfo Persico sia diventato una zona insicura, gli USA non sono riusciti a dimostrare reali impedimenti alla navigazione e al commercio tra i due stati. Neanche la domanda USA viene accolta.

Il divieto dell’uso della forza è oggi jus cogens, ma trova un’eccezione nella legittima difesa, cioè nella risposta ad un attacco armato già sferrato. Tale diritto è affermato dall’art. 51 della Carta dell’Onu e confermato dalla Corte Internazionale di Giustizia come corrispondente al diritto consuetudinario.
L’Assemblea Generale dell’Onu definisce in una risoluzione del 1974 l’aggressione a cui si risponde può essere realizzata, oltre che dall’esercito ufficiale dello Stato, anche da bande irregolari o mercenari da esso assoldati.
Per la Corte, invece, la sola assistenza a forze ribelli non costituisce aggressione armata, ma unicamente ingerenza negli affari altrui o, tutt’al più, un’ipotesi minore del divieto dell’uso della forza, tale da non giustificare una risposta armata. Sempre ai sensi dell’art. 51, la legittima difesa può essere esercitata anche con armi nucleari, sempre che vengano rispettati il principio della proporzionalità della risposta all’attacco e le norme del diritto umanitario di guerra.
Altre eccezioni al divieto dell’uso della forza non previste dall’art. 51:
- scopi umanitari, per cui l’intervento armato è ammesso per proteggere la vita di propri cittadini all’estero o per colpire Stati che compiano gravi violazioni dei diritti umani nei confronti dei propri cittadini.
- uso della forza in via preventiva o reazioni contro Stati che alimentano il terrorismo.
A tutte queste ipotesi, che vanno oltre la Carta dell’Onu, si è opposta la critica di molti Paesi e di gran parte della dottrina. Si è affermato che, a parte la legittima difesa, l’uso della forza deve essere sempre autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, come previsto dalla Carta. Gli altri casi delineati risultano espedienti per un illegittimo uso della forza. Inoltre, la guerra rimane l’estremo rimedio contro comportamenti non eliminabili altrimenti, come il genocidio, crimini contro l’umanità, ecc.
Anche nel caso della risposta militare americana in Afghanistan, a seguito dell’attacco terroristico dell’11 settembre, non è possibile affermare la tesi della legittima difesa, poiché si è trattato di un crimine individuale non riconducibile ad alcuno Stato. Il Consiglio di Sicurezza, in due risoluzioni sul caso non parla mai di autorizzazione dell’uso della forza, ma sostiene l’esigenza della cooperazione internazionale contro il terrorismo, che si realizza nell’assicurare gli autori degli attentati, i loro sostenitori e finanziatori alla giustizia, nel prevenire, sopprimere e congelare finanziamenti e fondi al terrorismo, nel non fornire armi e nell’adottare severe norme penali.
L’uso della forza si confronta contemporaneamente con l’art. 51 della Carta dell’Onu e con l’esigenza di sicurezza collettiva contenuta nel cap. VII della stessa. Sempre più si assiste all’incapacità delle Nazioni Unite di opporsi all’uso indiscriminato della forza, ma l’ordinamento internazionale, anche quando non riesce a frenare lo scatenarsi della guerra, prevede una serie di misure per mitigare i conflitti e per tutelare i Paesi terzi. Si tratta di regole internazionali consuetudinarie e pattizie che formano il diritto umanitario di guerra.
Quando non si può evitare la guerra (falliscono le regole sullo jus ad bellum), vi sono comunque una serie di regole circa lo jus in bello: norme che mitigano le asprezze della lotta tra i belligeranti, proteggono i civili e i paesi estranei al conflitto e sono volte ad imporre la punizione dei crimini internazionali. (Convenzioni Aja 1899 e Ginevra 1949).

Tratto da DIRITTO INTERNAZIONALE di Alice Lavinia Oppizzi
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