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Il chroma-key. La ricombinazione delle identità, delle configurazioni e dei luoghi


In Mulholland Dr. troviamo una nutrita presenza e un confronto paradigmatico di media diversi. La chiara natura metacinematografica del film, evidente già nella disoccultazione dei suoi luoghi produttivi (gli studios), viene da un lato affiancata dalla presenza del teatro e del telefono, dall’altra implicitamente problematizzata dalla vocazione originaria dell’opera, vale a dire fungere da pilot di una serie per la televisione.
In Mulholland abbiamo la sostituzione di una semplice proiezione d’ombre, grazie a un banale dispositivo teatrale (Swing Time), con la moltiplicazione delle figure dei ballerini tramite il chroma-key. Quest’ultimo si affaccia in quanto tale - cosa nient’affatto usuale (si può ricordare il mirabile esempio dell’Amleto di Carmelo Bene) -, ossia in quanto schermo mano cromo blu-violetto. Solitamente, il chroma-key si serve di un blu screen per opporsi ai timbri rossi, sempre pregiudicati con gli incarnati dei volti e in genere con i corpi. Il compito del chroma-key è infatti di salvaguardare questi ultimi rispetto a una cancellazione ex post di tutti gli elementi cromatici in blu. Ciò consente la disconnessione di tali corpi dall’ambiente in cui sono stati originariamente ripresi per reinscriverli all’interno di altri scenari. In Mulholland Dr., alla scorporazione del paesaggio che permette il viaggio dei corpi, si sostituisce la moltiplicazione di contenitori astratti che si incassano gli uni negli altri. Le figure si ritrovano reduplicate e ridistribuite secondo di-mensioni diverse e forme di restituzione figurativa opposte (talvolta divengono solo ombre come nel film di Stevens, altre volte mantengono l’integralità delle informazioni plastiche e figurative).
Le connessioni isotopiche di questo ballo con, da una parte, l’ambientazione del film The Sylvia North Story, su cui si incentrano i conflitti tra il regista Adam Kesher e i fratelli Castigliane, dall’altra, i giovani che scorazzano in macchina a tutta velocità per Mulholland Dr., sono piuttosto evidenti. Un amalgama più consistente di questo prologo rispetto alla fabula è garantito dal racconto di Diane, posto nella parte conclusiva del film; costei confessa di aver vinto un concorso di jitterbag prima di trasferirsi a Los Angeles (seq. 52b). Tuttavia, tali suture narrative non neutralizzano una questione enunciazionale ben più marcata.
Questo studio-dispositivo è un motivo che si declina attraverso la scatola blu, il Club del Silenzio ed infine l’appartamento di Sierra Bonita (si veda come, nel finale, sia inondato di luci blu, seq. 55b). Il blu si pone nel film come marca isotopante che connette tutto ciò che partecipa di una forma pura di mediatizzazione; essa mette in comunicazione dimensioni (inter)soggettive e persino mondi possibili, ma nel contempo ne segreta parte dei contenuti, attraverso una rifigurazione “opportuna”, nonché ne permuta, quanto meno tentativamente, le relazioni ge-rarchiche: il sogno potrà mai redimere il senso di ciò che è accaduto? potrà mai guidare una vita? potrà mai offrirsi come “vera” recita dopo aver provato troppi copioni sbagliati?

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