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"F for fake". Testamento di Welles tra vero e falso



L’inchiesta sul falsario ungherese Elmyr de Hory, specializzato in dipinti postimpressionisti, si intreccia con quella su Clifford Irving (il giornalista che sosteneva di aver incontrato Howard Hughes, primo spunto d’ispirazione per Welles nella stesura di Quarto Potere, e di essere entrato in possesso della sua autobiografia) e diventa una riflessione più generale sul ruolo dell’arte e sui suoi rapporti con la realtà condotta da Welles in prima persona rievocando la propria carriera.
Nel prologo del film Welles interpreta il ruolo di un mago e illusionista che fa giochi di prestigio e parla del rapporto tra verità e menzogna nell’arte e in particolare nel cinema. Nel prologo il mago Welles ci avvisa che in ogni storia si nasconde una menzogna, ma non questa volta, sebbene un secondo dopo compaiano sullo schermo diverse scritte con il nome fake, ovvero falso.
Pensato a partire da un documentario sui falsari di François Reichenbach, il film è un brillante e disilluso, testamento sull'inutilità dell'arte, a cui non sembra disposto a concedere alcuna funzione sociale, storica o culturale. Da questa riflessione verbosa, narcisistica, incontinente ma affascinante sui rapporti tra arte e vita Welles esce come un abilissimo falsario che paragona il cinema a un gioco di furbi castelli e specchi e rimandi: come dice lui stesso: “La mia carriera è cominciata come un falso, l’invasione dei marziani. Avrei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi: sono finito a Hollywood!”. Il montaggio pirotecnico poi (foto fisse, disegni, immagini di repertorio, riprese documentarie), ingigantisce e aumenta gli aspetti di struggente, autobiografica malinconia di un film che è l’ennesima dichiarazione di sconfitta di un regista che sembra divertirsi a prendere le distanze dalla propria opera e da se stesso.

Tratto da "QUARTO POTERE" E IL CINEMA DI WELLES di Marco Vincenzo Valerio
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