I dubbi dei soldati sulla guerra in Iraq
nd do you tell this is the best that America can do?
dice un militare intervistato nel documentario No End in Sight, riflettendo sul caos e la violenza in cui è piombato l’Iraq dopo l’invasione americana, che attraverso una politica poco organizzata e basata sul terrorismo, non ha portato stabilità al paese, ma povertà e disoccupazione, favorendo il rifiorire dei fondamentalismi e dell’odio nei confronti degli invasori a stelle e strisce. I soldati, dopo i primi periodi in Iraq, iniziano ad interrogarsi sul senso della loro missione, non vedendo miglioramenti nella vita quotidiana della popolazione e nella sicurezza del Paese:
Penso che non ci fosse una sola persona del mio plotone che pensasse che l’Iraq stesse diventando più sicuro e, secondo molti, Mosul stava diventando un vero caos […] Sembrava che stesse partendo un forte movimento di insurrezione.
Non prevedo alcun miglioramento a breve termine dei problemi economici di questa gente, a giudicare dal modo in cui Bush ha già dirottato le risorse petrolifere verso i serbatoi dei nostri suv.
Non è passato giorno senza che mi chiedessi perché siamo andati laggiù. Per la libertà del popolo iracheno ci dicevano, ma ogni giorno chiedevo ai lavoratori iracheni che venivano a lavorare nella nostra base: Va meglio da quando siamo qui noi? E ogni volta rispondevano che era come prima, o peggio […] allora chiedevo loro che cosa li avrebbe fatti sentire meglio e loro rispondevano: Ci servono vestiti, cibo, acqua ed elettricità.
Anche tra I commilitoni protagonisti di Occupation: Dreamland ci si chiede: che cosa stiamo facendo?
I want some answers, some clarifications: What are we doing? I feel that everyday, I guess someone smarter than me know what we are doing here
E scrivono dal fronte i soldati a Michel Moore:
Questa guerra non ha nulla a che fare col sostenere e difendere la Costituzione.
Vorrei soltanto riuscire a difendere il nostro Paese senza essere una pedina negli sporchi giochi politici di questa guerra.
Sul contratto non sta scritto da nessuna parte che devo mettere a repentaglio la mia vita per un pugno di selezionate élite. Il mio contratto dice che devo proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti!
Alle ultime elezioni ho votato per lei [Presidente George W. Bush] e sosterrò tutte le decisioni che lei prenderà durante il suo governo perché l’ho promesso con il mio giuramento. La prego di darmi un buon motivo per continuare a sostenere il mio comandante in capo nel momento in cui i miei fratelli e sorelle d’armi muoiono in una guerra che sembra avere come obiettivi nient’altro che il potere e il profitto.
Queste critiche alla guerra e alla missione provenienti dalla voce dei militari provoca in noi lettori (o spettatori) un senso di straniamento, che smentisce il luogo comune per cui i soldati sarebbero sempre d’accordo con i loro comandanti e con la politica estera del loro Paese:
Immagino di avere erroneamente supposto che i ragazzi delle forze armate non sarebbero stati tanto d’accordo con le mie affermazioni sull’uomo della Stanza Ovale e sul suo desiderio di fermarlo prima che ci portasse alla guerra . Invece, come ho scoperto poi, la verità era ben altra. Moltissime lettere di soldati esprimevano una profonda disillusione rispetto alla nostra missione nel sudovest asiatico. Quei commenti sono così unici e intensi perché non si tratta delle parole della sinistra né della retorica del “movimento contro la guerra” – quei commenti provengono dal “movimento per la guerra”. Le loro osservazioni sono così piene di questa delusione proprio perché sono testimoni della guerra, sono gli stessi uomini e donne che agiscono sul territorio, a cui viene chiesto di uccidere, e che pian piano si rendono conto che il loro lavoro ha poco a che fare con la difesa degli Stati Uniti d’America.
La testimonianza diretta dei militari impone allo spettatore uno sguardo critico sulla missione militare in Iraq, che ne identifichi i colpevoli non nei soldati ma in una classe politica che li spedisce spesso impreparati a combattere guerre le cui vere ragioni non sono state rese note e in un sistema che nega alla maggior parte dei giovani un futuro (scolastico, economico, sociale). E M. Moore a questo proposito cita Orwell:
La guerra viene combattuta dalla classe dominante verso le classi subalterne e non ha per oggetto la vittoria sull’Eurasia o sull’Asia Orientale ma la conservazione dell’ordinamento sociale (G. Orwell).
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Dettagli appunto:
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Autore:
Isabella Baricchi
[Visita la sua tesi: "Il mondo di Padania. La costruzione dell'identità fra capi, guerrieri, fattrici e scudieri"]
- Università: Università degli Studi di Bologna
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Teorie della Comunicazione
- Esame: Modelli di comunicazione storica nel Nord America
- Docente: Elena Lamberti
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