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L'inizio di Paura in palcoscenico - A. Hitchckok -




Mentre il film di Antonioni sostiene da parte dello spettatore un’attività diffusa ed erratica, di un contatto con il testo senza fini e senza fine, c’è un altro film che sembra difendere l’idea di una ricerca fruttuosa, di una visione e di un ascolto immediatamente produttivi; questo film è Paura in palcoscenico, ed è esso che adesso andremo ad analizzare, in particolare il flashback falso che lo apre.
Non è difficile ritrovarvi gli elementi tipici di ogni flashback:
- un’interpellazione che introduce una soggettiva almeno tendenziale – la dissolvenza incrociata sulla voce che par suggerire allo spettatore “Ehi tu, stai attento a quanto ti viene mostrato?”, e che da avvio a una serie di eventi così come si presentano alla visione e all’ascolto, e dunque così come si vogliono far cogliere, o così come stanno per essere colti1 –;
- un narratore che tiene il campo e che si rivolge ad un narratario – Jonathan che espone la propria avventura, cominciandola letteralmente alla prima persona(“Ero in cucina…”, seguito da un suo PP), a Eve, giustamente ansiosa di sapere –;
- una narrazione che è ospitata da un’altra narrazione, e che nel farsi e nel darsi mima il farsi e il darsi di ogni discorso per immagini e per suoni – il racconto di Jonathan è solo uno degli eventi che compongono un racconto più vasto: ma il modo in cui l’uomo mette in scena la propria vicenda e la porge a Eve lo avvicina a chi ha messo in scena l’intero film e lo sta porgendo allo spettatore –.
Dunque il brano ricalca la struttura e gli andamenti degli esempi che abbiamo già incontrato, tranne per il particolare che Jonathan sta ingannando Eve, e noi con lei, e quindi ciò che ci viene mostrato è falso.
Questa falsità è da mettere in rapporto con l’uso di certi procedimenti testuali: essa è il frutto di uno scarto tra due mosse,
- l’una che consente di eleggere un portaparola di chi guida il film, consentendo di istituire un delegato dell’enunciatore
- l’altra che porta a rompere un tale rapporto fiduciario, portando a confinare il delegato dell’enunciatore al ruolo di semplice personaggio della storia
La radice di questa menzogna, insomma, è nel contrasto che si crea tra il far parlare qualcuno come se rispecchiasse le idee di chi gestisce l’intero discorso – “Lui dice che… e io consento” –, e il rivelare d’un tratto che parla solo per sé, sotto la sua stretta responsabilità – “Lui dice che… ed è lui che lo dice” –.

Tratto da CINEMA di Nicola Giuseppe Scelsi
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